Siamo a novembre, il mese dedicato ai nostri cari defunti che, per la misericordia di Dio Padre, siamo certi di poter rincontrare nella gioia eterna. È perciò quanto mai opportuna una riflessione sui “novissimi”, che proponiamo ai lettori con una intervista a mons. Antonio Cardarelli, nuovo vicario generale della diocesi, già docente di Storia della filosofia al liceo scientifico di Todi e ancora oggi nell’Istituto teologico di Assisi.
Sembra che morte, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso, temi che rientravano nella predicazione ordinaria della Chiesa, in questi ultimi tempi vengano come messi da parte. È solo per esorcizzare la paura? O c’è dell’altro?
“Non sono molto convinto che nella predicazione dei nostri giorni i ‘novissimi’ siano messi da parte. La Chiesa e i suoi predicatori cercano di proporli offendo un annuncio del Vangelo adeguato alla sensibilità propria dell’uomo contemporaneo. L’uomo dei nostri giorni è figlio di una cultura centrata sulla soggettività fino a negare quella dimensione oggettiva che si riteneva costitutiva della realizzazione della vita umana. La Chiesa riconosce il merito alla cultura moderna e contemporanea di aver richiamato il valore dell’io, della coscienza, della soggettività, sebbene non cessi di ribadire che il soggetto umano, per essere pienamente tale, ha bisogno del Soggetto unico e assoluto, cioè di Dio. Pertanto ogni persona ha bisogno di incontrare Dio, Cristo Gesù, vivere con lui, stare con lui. Da questa esperienza poi intravede il suo opposto, cioè l’inferno come frutto del peccato, la morte eterna per chi rifiuta, in questo mondo, l’Amore, la Vita, Dio. In breve, la predicazione ordinaria è frutto dell’incontro con Lui e mira a condurre l’uomo di oggi a vivere nell’attesa delle ‘cose ultime’, partendo a sua volta da un incontro di amore, quello con il Dio amore fattosi carne per ognuno e per tutti”.
Giovanni Paolo II a proposito della predicazione sui “novissimi” affermava: “Tali prediche penetravano profondamente nel mondo intimo dell’uomo, scuotevano la sua coscienza, lo gettavano in ginocchio, lo conducevano alla grazia del confessionale, avevano una loro profonda azione salvifica… Senza questo messaggio, la Chiesa sarebbe ancora capace di destare eroismo, di generare santi?”.
“Da quanto detto ritengo emerga chiaramente il mio convenire con quanto affermato dal beato Giovanni Paolo II. Anche a causa della mia fragilità, partendo dalla fede che il Dio amore mi ha donato, sono scosso avendo lo sguardo sulle ‘realtà ultime’ e mi sento spinto a gettarmi in ginocchio di fronte a un confessionale per implorare la misericordia e il perdono del Dio amore che mi sta attendendo affacciato alla finestra della sua Casa, o paradiso”.
La predicazione di oggi sembra più un messaggio etico da confrontare con altre morali. Non le sembra che quello che bisogna recuperare è riparlare di Cristo, della follia e dello scandalo della croce, della vita eterna, della risurrezione dei morti, dell’unica salvezza in Cristo?
“Rispetto al passato, ai decenni precedenti, la predicazione mi appare sempre più frutto di un’esperienza di fede, di un dialogo maturato nella coscienza del predicatore nell’ascolto della Parola di Dio, nella celebrazione della sacra liturgia, nella carità che si concretizza nell’attenzione verso ‘i poveri e i sofferenti’. Predicatore modello è sicuramente Papa Francesco. A me sembra che ci sia un numero sempre maggiore di predicatori che propone i valori etici, richiamandosi però alla Rivelazione, alla fede. Dobbiamo convincerci che i valori etici, fondati sul puro ‘tu devi’, hanno perduto (purtroppo) la loro assolutezza. La stessa vita umana non trova più il consenso unanime quale valore assoluto e universale. Il predicatore non deve mai cedere al relativismo, per mostrare la grandezza dell’Uomo in quanto essere che possiede potenzialità in cui si manifesta la somiglianza con il suo Creatore, e deve ancor più mostrare che per la redenzione siamo partecipi della stessa vita divina di Cristo risorto”.