Una “missione” memorabile per i componenti della delegazione diocesana guidata dal vescovo Domenico, dal provinciale dei Cappuccini, fra Celestino Di nardo, e costituita complessivamente da 10 persone, tra cui 2 suore, 2 esponenti del Centro missionario, 2 laici.
Sono venuti a contatto diretto con la vita dei missionari francescani, hanno vissuto al loro fianco, hanno conosciuto la loro grande opera, testimoniata anche dalle chiese, dalle case di accoglienza e altro realizzato in oltre un secolo di impegno diretto nell’Amazzonia, ora ubicate al centro delle città e dei villaggi che si sono sviluppati intorno.
Un viaggio pieno di sudore, faticoso per il caldo, l’afa, l’umidità che penetra nelle ossa e debilita. Ma anche entusiasmante, per il calore umano trasmesso dalla gente, testimoniato dai canti, dai sorrisi, dallo scambio di abbracci e di strette di mano nelle liturgie celebrate nelle varie chiese delle città visitate: Atalaia, Benjamin Constant, Tabatinga (la più grande, con circa 50.000 abitanti), Belem, San Paolo de Olivenca, Amaturà, Santo Antonio de Ica, Tamantins, ma anche negli incontri lungo la strada. Un viaggio duro anche per le grandi distanze: i paesi non hanno collegamenti diversi da quelli via acqua, sia nelle valli del Javarì che del Solimoes, fiumi larghi per chilometri, pieni di pericoli per la presenza di animali, serpenti, insetti e pesci di ogni genere, di tanti tronchi trasportati dalle piene prodotte dai temporali.
Un viaggio anche con i pericoli quotidiani vissuti dai missionari: per esempio il 17 febbraio la barca carica di bagagli e di 14 passeggeri, diretta a Belem, s’è fermata a poco più di un chilometro di distanza dal flutuante (piattaforma mobile ancorata alla riva, un piccolo porto), s’è aperta una falla e l’acqua ha iniziato a penetrare nello scafo. Il pilota, frei Paolo, ha sdrammatizzato e ha chiesto se ci fosse qualche motoscafo in zona; ma non c’era nessuno. Allora ha consultato padre Assilvio per decidere se fosse il caso di accostare la sponda più vicina, con tutte le incognite: ci sono sabbie mobili? E che fare, dato che la foresta è fitta, senza sentieri, e non c’è segnale telefonico? Poi, visto che il motore si è improvvisamente riacceso, si è tentato l’approdo al flutuante. Con successo. Anche se all’arrivo la benzina era finita.
Quel flutuante sgangherato, pressoché distrutto dal fiume che tempo fa s’era portato via anche la chiesa e diverse case, è stato la rampa per salire sulla terraferma.
La sera, rosario e messa nella bella, nuova chiesa parrocchiale; e tanto il calore umano degli indios che gremivano l’edificio e che hanno applaudito il saluto in lingua ticuna del bispo Domingo. Il giorno dopo, tutti trasformati in “ticuna”, con i tatuaggi sul volto fatti con succhi di erbe, segno di appartenenza. La sera la cena inventata, con qualche pezzo di pane e il cocomero: pregevole.
Un viaggio che ha fatto vivere anche la passione dei missionari in quella vastissima e difficilissima zona: cominciarono nel 1909, con quattro Cappuccini guidati da padre Domenico Anderlini di Palazzo Mancinelli di Gualdo Tadino. Una storia d’amore cristiano che continua fino a oggi, con frati umbri che vi hanno vissuto, come Tommaso, Arsenio, Evaristo, Mario, Giuseppe, Benigno e tanti altri; ed ancora oggi Gino, Fulgenzio, Paolo, Carlo ed altri, compresi i laici, tra cui Andrea Lombardi di Assisi, da qualche mese all’opera con i giovani e i portatori di handicap di Santo Antonio de Ica.
Un amore immenso. Come il fiume. Sterminato e che contende gli spazi alla terraferma (quando ci sono le piene, se ne porta via un po’). Sopra ci sono le case: precarie, in genere di legno, con palafitte utili quando c’è la piena; e gli argini si ampliano e possono nascere nuove isole su quel letto mobile vastissimo. Un’acqua tiepida, torbida all’apparenza, usata dagli indios per lavarsi, per lavare, per bere.
Una missione che ha toccato tutti. Nessuno è tornato a casa indifferente dopo il contatto con quella “periferia”. Che è diversa, ma simile a tante altre – anche se meno appariscenti – presenti qui nella nostra Umbria.
Il progetto Javarì
La diocesi di Assisi – Nocera Umbra e Gualdo Tadino sostiene da quattro anni il progetto Javarì dei frati Cappuccini dell’Umbria. Nell’area della Valle del Rio Javarì, situata nella foresta amazzonica tra il Brasile e il Perù, i Cappuccini promuovono lo sviluppo delle popolazioni locali nel rispetto delle loro culture. Grazie all’aiuto dei benefattori e di vari progetti sono state realizzate case per l’accoglienza di madri gestanti, scuole e sono stati curati malati di tubercolosi, di Hiv e di lebbra. La delegazione ha portato con sè 15 mila euro frutto delle varie iniziative realizzate a sostegno del progetto, alcune delle quali realizzate dalle scuole. Durante il viaggio la delegazione, che è stata ospite delle “case” dove alloggiano i Cappuccini del luogo, ha percorso circa 1500 Km in barca, attraversando una piccola parte della foresta amazzonica dove si trovano i villaggi. Ha potuto inoltre incontrare sei suore di un convento di clarisse nella foresta vicino a Manaus.
Le memorie del vescovo Sorrentino in prima persona sono riportate nella Parola di vescovo di questo numero, clicca qui.
Ulteriori informazioni sul sito della Diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino