I lati oscuri del movimento pacifista

Intervento di Roberto Gatti sul legame necessario tra pace e libertà

Questo intervento parte da tre presupposti, che credo siano facilmente condivisibili: a)La pace è un valore da perseguire. b)Proprio perché è un valore importante, bisogna fare attenzione a non difenderlo in modo incoerente. c)La guerra che ci minaccia oggi è ingiustificabile non solo in assoluto, come ogni guerra, ma anche per le circostanze specifiche in cui sta maturando. Nonostante questo la posizione pacifista è indebolita dal mancato rispetto del punto b. Cerco, molto in sintesi, di spiegarmi. L’articolazione interna del variegato movimento paficista può essere una ricchezza, ma qualche volta è un’insidia da non sottovalutare, almeno se si tiene conto di quelle che sono, di fatto, alcune componenti riscontrabili nella pluralità di voci che lo contraddistinguono attualmente. Perché è una ricchezza è inutile dirlo. Perché è un’insidia? Perché alcuni dei gruppi interni al movimento pacifista partono dall’accettazione di prospettive di pensiero e di concezioni etico-politiche inconciliabili con l’autentico perseguimento della pace. Infatti l’orizzonte entro il quale può essere ospitata coerentemente l’istanza pacifista è quello definito dai principi liberal-democratici, sanciti nelle Dichiarazioni dei diritti che contengono i fondamenti di una civiltà che ha assunto la garanzia dei diritti umani come criterio regolativo. Ciò non significa affatto che questa tradizione culturale e politica sia l’unica nella quale possono trovare spazio le esigenze del pacifismo, ma a questo pluralismo c’è un limite: non possono essere ospitate nell’ambito del movimento pacifista tutte quelle ideologie che, dal punto di vista teorico e storico, hanno lottato contro i principi ispiratori della libertà, dell’uguaglianza, della tolleranza. Un esempio: molta parte delle ideologie originariamente ispirate al marxismo hanno compiuto una lunga strada che le ha portate a poter essere legittimate senza riserve all’interno delle democrazie liberali; altre invece non lo hanno fatto, e oggi riappaiono, più o meno prepotentemente, nell’ambito dei movimenti che si battono contro questa guerra. Il punto da sottolineare è il seguente: mentre quanti si rifanno ai valori della libertà (così come ci sono stati consegnati dalla lunga storia della tradizione democratica occidentale) possono, senza poter essere imputati di malafede o di incoerenza, rimproverare coloro che tradiscono questi valori e fanno ricorso alla violenza e alla guerra, ciò non vale per chi tali valori li ha sempre osteggiati e oggi ritrova una buona occasione per piegare ai suoi fini, ostili alla democrazia (e quindi alla pace), la causa pacifista. Infatti la tradizione democratica incorpora al suo interno, quale suo elemento costitutivo, il rigetto della violenza e la sostituisce con il dialogo; non si può certo dire lo stesso per le varie versioni di vetero-marxismo, populismo, giacobinismo, integralismo, che attualmente riemergono con forza profittando delle tensioni in atto nel mondo. Sembra essere diventato un motivo di accusa l’essere “occidentalista”; se questo significa l’idea, alquanto eccentrica (e non sostenibile con serietà, ovviamente), che l’Occidente, e solo esso, è portatore dei valori della “civiltà”, o cose simili, nessuna accusa è più giustificata. Se vuol dire, al contrario, rivendicare la coerenza che dovrebbe esistere tra le politiche poste in essere dai governanti di questa parte del mondo rispetto al patrimonio di idee e di conquiste della civiltà liberal-democratica, credo che essere occidentalista sia un valore da difendere con la massima energia. Solo chi crede veramente in quelle idee ha in effetti le carte in regola per rigettare con la massima forza l’azione dei governi che, mentre si rifanno ai valori della libertà e dell’uguaglianza, li violano con le loro scelte. Ad essere “anti-occidentalista” e “anti-americano” oggi è Bush e chi sostiene, attaccandosi alla sua carretta, la causa della guerra; il vero occidentalismo invece consiste nel richiamare quanti così si comportano alla gravità della loro incoerenza rispetto agli ideali che gli servono per legittimare surrettiziamente il loro bellicismo e il loro tentativo di egemonizzare il mondo a partire dalla scandalosa supremazia economico-finanziaria, evidente nella “globalizzazione” così come è di fatto. Si evidenzia una contraddizione sempre più evidente tra i principi politici della democrazia e le basi economiche su cui essa si regge, cioè il neo-capitalismo globale: credere fino in fondo a quei principi politici significa denunciare questa contraddizione. Ma ciò è credibile esclusivamente se quelli sono effettivamente i principi da cui si intende partire; non lo è invece se l’attacco al capitalismo globale è un pretesto per eliminare le istituzioni, le procedure, le norme, in cui quei principi si sono incarnati. La storia del comunismo sovietico dovrebbe aver insegnato una volta per tutte cosa accade se si imbocca questa seconda strada. E dovrebbe anche averci convinto del fatto che o la democrazia recupera la coerenza con se stessa, affiancando alle libertà civili e politiche una accettabile uguaglianza economica, si fa cioè non solo democrazia politica ma democrazia sociale, oppure è condannata a retrocedere fino a mostrare il volto crudo dell’autoritarismo (che è la strada imboccata attualmente dai governi conservatori in molti paesi occidentali). L’ideale della democrazia contiene in sé un potenziale espansivo che la spinge a forzare e a modificare, attraverso un riformismo radicale e profondo, i suoi assetti economici, cioè quel rapporto con il capitalismo insieme al quale pure storicamente è nata. Ma, qui è il punto, la connessione storica non porta con sé automaticamente l’identificazione di principio dei due elementi. E’, se non sbaglio, ciò su cui ci invita a riflettere anche la Centesimus annus, quando osserva che “è inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto ‘socialismo reale’ lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica” (n.35). Detto questo e per concludere: a mio avviso sarebbe operazione necessaria e meritoria che il movimento pacifista espellesse dal suo interno le componenti che danneggiano la causa della pace e le denunciasse come incompatibili con le finalità che il pacifismo autentico richiede di perseguire. Inoltre sarebbe bene che facesse, quando opportuno, chiarezza sulle premesse culturali da cui partire, evitando di sostituire slogans ad argomentazioni, come sovente invece purtroppo accade. Per essere pacifisti non basta gridare che la pace è un bene: vanno esplicitati anche il perché e il percome. Nella misura in cui tutto quanto sin qui suggerito non viene fatto, questo movimento finisce per nuocere a se stesso e presta il fianco alla critica di essere ambiguo e scarsamente credibile. Mai come oggi la causa della pace ha raccolto intorno a sé una così gran parte dell’opinione pubblica mondiale: è un risultato importantissimo, che forse non sarebbe esagerato definire epocale. Ma molti dei risultati raggiunti rischiano di essere compromessi, prima o poi, dalla mancanza di chiarezza interna tra le forze che compongono la costellazione pacifista.

AUTORE: Roberto Gatti