Perché si è scelto il tema: “Io sono la via, la verità e la vita”? Lo abbiamo chiesto a don Aldo Giordano, segretario generale del Consiglio delle Conferenze Episcopali europee (Ccee), alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio).
“All’indomani della pubblicazione della lettera del Papa (di conclusione del Giubileo n.d.r.), credo che la preghiera per l’unità dei cristiani assuma un senso ancora più profondo. La lettera è tutta incentrata su Cristo: Cristo al centro di ogni nostra ricerca, di ogni nostro dialogo, di ogni nostra azione. Sono convinto che nella fedeltà a Cristo e nell’ascolto del Vangelo arriveremo ad intuire il ‘segreto dell’unità’. Riusciremo a vedere con occhi nuovi le nostre diversità e troveremo anche le forme visibili per vincere le nostre divisioni. Il Cristo che dice ‘Io sono la via, la verità e la vita’ è il Cristo che poi rivela il suo segreto quando si lascia crocifiggere. Non sono le pretese di unità, le rivendicazioni, i confronti, le critiche che ci porteranno a superare le nostre separazioni, ma sarà la nostra capacità di lasciar crocifiggere e morire la nostra divisione per amore, che saprà far compiere il miracolo della risurrezione”.
Non è un mistero che nell’anno 2000 la dimensione “ecumenica” desiderata e proposta sin dal momento iniziale della preparazione del Giubileo con la lettera apostolica Tertio millennio adveniente non si sia realizzata in modo soddisfacente. La delusione traspare anche tra le righe della lettera del Papa a conclusione dell’Anno santo e all’inizio del nuovo millennio (Novo millennio ineunte). Doveva essere un anno particolarmente felice per esaltare l’unità dei cristiani nel fare festa a Colui al quale essi si riferiscono al di là di ogni ulteriore denominazione. Il bimillesimo anniversario della nascita di Gesù di Nazaret non può essere riservato a qualcuno in particolare, perché nulla divide tra loro i cristiani nella fede e nell’annuncio dell’incarnazione del Verbo.
E in vista di questo si sono operate scelte precise e mirate allo scopo di favorire il massimo consenso possibile nel dedicare un anno alla memoria dell’inizio dell’era cristiana che ha segnato, come mai nessun altro evento, la storia dell’umanità. Si è costituita una Commissione ecumenica all’interno del Comitato centrale del Grande Giubileo, composta di 11 membri cattolici e 6 delegati fraterni delle altre Chiese e Comunioni cristiane mondiali, ortodossi, copti, anglicani, luterani, riformati, metodisti. Molti sforzi sono stati compiuti per realizzare iniziative comuni. Ma nonostante le buone intenzioni una certa freddezza e qualche aperta ostilità sono state dimostrare, tanto che il Papa ammette (TMI) che “il cammino ecumenico resta faticoso e forse lungo” e aggiunge: “Purtroppo le tristi eredità del passato ci seguono ancora oltre la soglia del nuovo millennio”.
Giovanni Paolo II nella lettera apostolica di preparazione aveva espresso l’augurio che “al Grande Giubileo ci si possa presentare, se non del tutto uniti, almeno molto più prossimi a superare le divisioni del secondo millennio”. Si può affermare che ciò sia avvenuto? Se mi guardo intorno, nel piccolo cerchio delle esperienze provinciali, devo dire di no. Si sono sentite critiche e lamenti, sono state prese delle distanze, una moratoria nelle attività ecumeniche, tanto che un vescovo impegnato nell’ecumenismo, mons. Chiaretti, ha citato in proposito l’aforisma del dito e della luna: c’è chi si è fermato a guardare il dito, trovandolo magari non di suo gradimento, anziché alzare lo sguardo verso la luna; ci si è soffermati a criticare aspetti secondari perdendo di vista il significato dell’evento storico.
E tuttavia, se allarghiamo lo sguardo, riferendoci al Giubileo e non considerando altri fatti avvenuti in quest’anno, possiamo costatare che la “prossimità” è aumentata ed è stata trasmessa al mondo come un chiaro messaggio di speranza. Mai era successo che una porta santa giubilare, quella della Basilica di S. Paolo fuori le Mura, fosse aperta a più mani, quelle del Papa, del Primate anglicano George Carey e del metropolita Athanasios del Patriarcato ecumenico. L’immagine televisiva ha fatto il giro del mondo e rimane un dato certo per il futuro. È come un’icona della Chiesa una e molteplice nelle sue forme che va verso Cristo, lo adora e entra attraverso lui che è la porta (Gv 10,9), invitando tutti gli uomini ad entrare per essa.
È questa un’icona di ciò che rappresenta la Chiesa nel mistero della salvezza, di fronte a Cristo e all’umanità. Che questo sia avvenuto in un contesto in cui si parla anche di indulgenza, una parola di cui gli evangelici sono particolarmente allergici, è un comprensibile, anche se non invalicabile ostacolo: le 22 delegazioni di Chiese e Comunioni cristiane mondiali e la rappresentanza del Consiglio mondiale delle Chiese, che hanno partecipato all’apertura, lo hanno superato e i cattolici, almeno i più sensibili al richiamo ecumenico, hanno fatto di tutto per rendere più agevole tale superamento, consentendo di realizzare un evento che si può giustamente chiamare, come ha fatto Eleuterio Fortino, “pan-cristiano”.
Per grazia di Dio vi sono stati anche molti altri momenti di intensa partecipazione unitaria, non tutti adeguatamente giunti alla ribalta dei mass media, che sarebbe lungo elencare e che comunque dovranno essere ripresi e analizzati per capire come si possa proseguire nel cammino intrapreso e anche per equilibrare gli aspetti positivamente ecumenici del Giubileo con quelli che hanno creato qualche difficoltà messi in atto anche da parte cattolica. Il momento più alto d’incontro dei cristiani è stata la Commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del secolo XX, il 7 maggio. Di fronte a quello straordinario luogo simbolico che è il Colosseo, che evoca l’antico martirio di una Chiesa che ha confessato ad una sola voce e con spargimento di sangue, fin dall’inizio, la propria fede, i cristiani hanno riscoperto la loro comune vocazione e missione, oltre ogni riserva confessionale.