“Deve essere accettato il piano d’accordo consegnato dalla Commissione Ue, Bce e Fmi all’eurogruppo del 25 giugno 2015 che si compone di due parti, le quali costituiscono la loro proposta unitaria?”.
Ora che i seggi sono chiusi, lo spoglio è terminato e piazza Syntagma ha festeggiato l’esito del referendum svoltosi in Grecia il 5 luglio, occorre tornare sul quesito sottoposto agli elettori ellenici.
“Sì” o “no” le due sole risposte possibili. Ma sì e no a cosa? Quale il contenuto effettivo – tecnico e finanziario, oltre che politico – della domanda stampata sulle schede, su cui oltre il 60% degli elettori ha apposto un convinto oxi?
La democrazia – insegna la storia greca – è partecipazione pienamente cosciente e responsabile alla res publica. Davvero tutti gli elettori erano a conoscenza del contenuto dell’accordo? E veramente un popolo, provato da 7 anni di pesante crisi economica e sociale, può accettare responsabilmente tutte le conseguenze che derivano da un semplice “no” piuttosto che da un altrettanto semplicistico “sì”?
Se non si torna al senso del voto, alla sua origine, può essere velleitario anche il tentativo di misurarne le conseguenze. Perché il referendum di domenica 5 luglio era stato indetto esattamente 8 giorni prima del suo svolgimento. Su una materia tanto complessa, e con ricadute potenzialmente esplosive, sono stati chiamati al voto 8 milioni di greci dopo una campagna esplicativa durata meno di una settimana.
Così il voto – che resta la massima espressione democratica di una nazione moderna – ha offerto un responso sul quale è almeno lecito avanzare dei dubbi: cosa vogliono davvero i greci per il loro futuro? Quali sono i grandi progetti per il futuro del Paese del governo di estrema sinistra – estrema destra guidato da Alexis Tsipras?
Il premier greco, infatti, da quando è entrato in carica dopo le elezioni del gennaio scorso, ha costantemente e coerentemente detto no all’Europa, all’eurogruppo, ai creditori esteri, ai piani di salvataggio “lacrime e sangue” confezionati dalla ex Troika. Ma d’altro canto non ha mosso un dito per ridare stabilità ai conti pubblici di Atene (completamente fuori controllo), per realizzare riforme credibili su pensioni, istruzione, sanità, e per rilanciare l’economia reale medianti investimenti per la crescita.
Tsipras, salito al potere voltando le spalle al rigore europeo e dimenticando le centinaia di miliardi giunti proprio dall’Europa per salvare la Grecia, sarà però costretto a rivolgersi ancora una volta ai creditori internazionali e all’Unione europea per ottenere “aperture di credito” e abbondanti aiuti finanziari così da evitare il default.
Banche serrate, supermercati vuoti, pensioni non pagate, ospedali chiusi rischiano di essere lo scenario greco delle prossime settimane, con conseguente instabilità politica, preludio di sommovimenti civili che nessuno può augurarsi.
È dunque nero il futuro della Grecia? Non per forza. Le dimissioni del ministro delle finanze Yanis Varoufakis – sacrificato dall’amico Tsipras – sono un segnale della volontà di trattare con l’eurogruppo una via d’uscita equa e ragionevole.
Del resto, i mercati in fibrillazione e la montante marea populista, che ha cantato vittoria in tutta Europa assieme ai convenuti di piazza Syntagma, indicano ai governanti europei prudenza e, in fin dei conti, la necessità di una soluzione che tiri fuori la Grecia dal precipizio.
“Non lasceremo andare Atene alla deriva”, ha dichiarato il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, uno dei “falchi” del rigore e alter ego della cancelliera Angela Merkel.
Grecia e Ue, dunque, costrette nuovamente a negoziare e a trovare presto un punto di incontro di lunga scadenza: che apra linee di solidarietà verso Atene e che ottenga, dal Pireo, quella responsabilità – sinonimo di vere riforme e, purtroppo, altri sacrifici per il popolo greco – finora promessa e mai mantenuta.