Mio nonno sul mignolo della sua mano ossuta aveva una bozza tonda e dura. Noi, piccoli e curiosi, la toccavamo con timore perché sapevamo che sotto la pelle c’era il pallino di un’arma che lo aveva ferito quando era al fronte per la guerra del 15/18. Non raccontava molto di più, ma tanto bastava per collocare una persona amata nell’inferno di una guerra che poi avremmo studiato a scuola.
Oggi ricordare i 100 anni della fine della Prima guerra mondiale per i più giovani è un esercizio di storia lontana dal vissuto personale. Il 4 novembre è la Festa dell’Unità nazionale raggiunta con l’armistizio firmato il 4 novembre 1918 che segnava la resa dell’Impero austro-ungarico e il coronamento del sogno risorgimentale dell’unità nazionale con l’annessione di Trento e Trieste.
Il 4 novembre è anche la Giornata delle Forze armate che di quella guerra commemorano il sacrificio di tanti giovani chiamati alle armi e mai più tornati a casa. Anche nel più piccolo comune d’Italia si commemorano i Caduti in guerra e si rende omaggio al Milite ignoto, a quel soldato senza nome che dal 4 novembre 1921 riposa a Roma all’Altare della Patria: uno dei tanti, troppi soldati rimasti sui campi di battaglia senza nome, senza tornare nelle tante, troppe famiglie che piansero i loro figli, fratelli, padri, partiti per il fronte e mai più tornati.
In tutta Europa, in tre anni, morirono milioni di persone (le stime vanno dai 10 ai 15 o forse più) tra militari e civili. Papa Benedetto XV il 1 agosto 1917 scrisse ai “capi dei popoli belligeranti” per chiedere “quanto prima” la cessazione “di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage”.
L’appello non fu ascoltato ma questa espressione risuonò profetica per tutto il XX secolo ed ancora oggi è drammaticamente attuale.
Cento anni dopo i vescovi della Comece, la Commissione degli episcopati dell’Ue hanno scelto di cominciare la loro assemblea plenaria di autunno (dal 24 al 26 ottobre) da Ypres, la città belga tragicamente celebre per essere stata teatro di uno dei primi attacchi chimici della storia e dove si sono combattute due delle battaglie più sanguinose del primo conflitto mondiale.
“La pace è una missione” ha detto mons. Jean Kockerols, vescovo ausiliare di Bruxelles, parlando davanti a tanti piccoli alunni nella cattedrale di Ypres. “Pace significa non essere mai indifferente ai bisogni dell’altro, significa imparare a conoscerlo, a rispettarlo e amarlo. Quando si ama c’è posto per il perdono e la riconciliazione. La pace è un dono di Dio. Quando ci impegniamo per la pace siamo più forti”.
E al termine dell’assemblea i vescovi europei hanno rivolto un appello ai cristiani e a tutte le persone di buona volontà “al discernimento, alla responsabilità e alla piena partecipazione alla vita politica, a lavorare insieme per il bene comune, costruendo ponti di dialogo e promuovendo un’Europa inclusiva capace di sviluppare pienamente persone, famiglie e comunità”.
La pace, dicono i vescovi, è un bene prezioso, da non dare mai per scontato. Dopo le “inutili stragi” del secolo scorso l’Europa da nome geografico è diventato un progetto di pace, con un percorso di unificazione inedito perché basato su forme di collaborazione che dal piano economico si sono sempre più estese al piano istituzionale. Questa Europa, l’Europa della pace, è il futuro che vorremmo consegnare ai nostri figli.