di Michele Falabretti*
A Panamà, capitale dello stato panamense, il clima è caldo: quello meteo, ovviamente, ma anche quello della gente che arriva e che accoglie. La parrocchia di Santa Maria di Guadalupe ha preparato per gli italiani un’accoglienza straordinaria: tutti i giovani sono accolti nelle famiglie e questo vuol dire che non dormiranno in situazioni posticce o di emergenza e soprattutto le case che li accolgono sono fatte di famiglie giovani piene di un grande spirito di ospitalità. I panamensi sono un popolo mite e sereno: sorridono sempre. Sembra sempre che sappiano di essere non all’altezza delle situazioni (effettivamente un incontro internazionale di questa portata è per loro un azzardo più che una sfida), ma non per questo si arrendono. Anzi, si mettono di impegno e provano a superare qualunque ostacolo.
Sempre con il sorriso sulle labbra. Li guardo e un po’ li invidio: non avremmo bisogno anche noi, in Italia, di ritrovare in ogni luogo e qualunque cosa facciamo, un po’ di serenità nell’affrontare il nostro lavoro, i nostri impegni, le nostre relazioni? Pensavo che loro ci guardano con ammirazione, perché veniamo da ciò che considerano l’origine e il cuore della fede: il Mediterraneo (su cui affaccia la Terra Santa), Roma (la tomba di Pietro e la Sede del Papa). Ma anche noi finiamo per ammirare loro: per quella freschezza, quell’entusiasmo, quella disponibilità nell’accogliere la fede, nel cercare di sentirsi coinvolti e di manifestarla.
Questa notte è arrivata una telefonata alle tre: due ragazze urlavano al telefono perché c’erano degli insetti nella stanza. Va bene: non siamo abituati agli scarafaggi sotto al letto. Ma veniva giù il mondo e pretendevano di uscire di casa e che gli trovassimo una nuova sistemazione. Ovviamente serviva solo un po’ di calma: avevano bisogno di essere rassicurate. Questa mattina la questione appariva molto più piccola. Però un pensiero l’ho fatto: a grandi competenze tecnologiche, questi ragazzi stanno contrapponendo grandi fragilità.
La vita reale (sì, questa volta scrivo proprio “reale”) diventa una montagna da scalare appena si presenta un gradino da superare. È interessante portare i ragazzi dall’altra parte del mondo, perché lo sguardo sulla natura, sulla cultura, le tradizioni e le abitudini di altri uomini aprono loro orizzonti diversi e sorprendenti. Pensavo che – di per sé – non ci sarebbe bisogno di portarli dall’altra parte del mondo: basterebbe aiutarli ad aprire gli occhi ogni giorno, ad alzare gli occhi dallo smartphone. Se solo anche noi, come loro, non avessimo gli occhi incollati a un piccolo schermo.
In questi giorni stiamo vedendo la bellezza della disponibilità. Di fronte a un problema non si scoraggiano e non si lasciano prendere dall’ansia: sorridono e si mettono a risolvere la questione.
Questo sento proprio che a noi italiani manca, l’abbiamo perso per strada. Cent’anni fa siamo venuti dall’altra parte del mondo a risolvere un problema a cui nessuno aveva saputo trovare una soluzione: il dislivello degli oceani. Abbiamo portato qui le chiuse di Leonardo. Cent’anni dopo hanno usato la stessa tecnologia per il raddoppio del canale e sono venuti in Italia a chiedere di costruire le paratie. Perché siamo così scoraggiati nell’affrontare la vita quotidiana a casa nostra?
Perché non crediamo più di potercela fare? Penso alla società, alla politica e ovviamente anche alla Chiesa che (Vangelo nel cuore) avrebbe più di una ragione per continuare a seminare speranza con sempre maggiore efficacia.
* responsabile della Pastorale giovanile Cei