Il vero male è l’indifferenza” ripeteva instancabile Madre Teresa in tutti i suoi incontri pubblici. Quasi a sottolineare che, se il male è una presenza con la quale l’umanità è chiamata a confliggere, di fatto è l’indifferenza della maggioranza a permettere al male stesso di sedimentarsi, di diffondersi e di crescere. In questo senso la “globalizzazione dell’indifferenza” – come Papa Francesco ha stigmatizzato il fenomeno esteso che caratterizza ancora di più il nostro tempo – rappresenta essa stessa un male che va contrastato con tutte le forze in campo, se vogliamo “conquistare la pace”. Due termini antitetici, indifferenza e pace, per non restare vittime dell’ambiguità secondo la quale l’inerzia delle mani conserte, l’ignavia, l’inoperosità, l’omissione o il disimpegno non si rendono complici della violenza, dell’ingiustizia e della sofferenza.
Ed è particolarmente interessante che il Papa punti l’attenzione su questo sentimento globale non soltanto nei confronti della guerra e del terrorismo, ma anche di “situazioni di ingiustizia e grave squilibrio sociale, le quali, a loro volta, possono condurre a conflitti o, in ogni caso, generare un clima di insoddisfazione che rischia di sfociare, presto o tardi, in violenze e insicurezza”. Sembra un’eco profonda della definizione di pace che già la Gaudium et spes, esplicitamente richiamata anche nel Messaggio, proponeva al n. 78: “La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita opera della giustizia”.
Molto spesso l’indifferenza – ancorché generata dall’ipertrofia di un certo tipo di informazioni da cui siamo quotidianamente raggiunti e sommersi – è anche il frutto della falsa considerazione secondo la quale ci si trova di fronte a problemi talmente grandi e guidati da poteri tanto forti da sentirsi, a livello individuale, totalmente impotenti e incapaci di apportare alcun contributo alla soluzione. È invece proprio questa mentalità, questo atteggiamento che siamo chiamati a contrastare in maniera determinante.
Era il 1994 quando giunse in Italia Jodie Williams, attivista statunitense che aveva dato origine a una campagna per la messa al bando delle mine antiuomo. Aveva già incontrato rappresentanti di organizzazioni sociali e di movimenti per la pace in altre nazioni, ma volgeva particolarmente la sua attenzione all’Italia perché, purtroppo, tre aziende attive all’epoca nel nostro Paese costruivano ed esportavano mine di ultima generazione che mietevano vittime soprattutto nei Paesi più poveri del pianeta. Ricordo che al suo appello rispondemmo solo in quattro rappresentanti tra organizzazioni di cooperazione internazionale e movimenti di base. C’era chi considerava che non servisse a molto puntare l’indice contro un certo tipo di arma, ma che si dovesse contestare l’intero sistema della guerra e la produzione di materiale bellico. Non mancava chi ci faceva notare che la produzione di quegli ordigni di morte garantiva occupazione e lavoro, oppure coloro che – realisticamente – non vedevano la classe politica abbastanza attenta e vigile da inserire nell’agenda del dibattito un tema non “notiziabile” e impopolare.
Ostinatamente attivammo una campagna che di lì a tre anni (1997) condusse a una legge italiana che definitivamente metteva al bando la produzione, il commercio e l’uso delle mine, e convertiva al civile le aziende senza un solo licenziamento. A livello internazionale, in quello stesso anno si giunse al Trattato di Ottawa che stabiliva una moratoria, e al premio Nobel per la pace.
Le stesse considerazioni si potrebbero fare per la campagna per la cancellazione del debito dei Paesi del Sud del mondo, o per quella contro la privatizzazione dell’acqua. Gli esempi non mancano. Se il torpore delle coscienze dell’indifferenza globale viene vinto dalla volontà della solidarietà, e della solidarietà internazionale, prendiamo consapevolezza di poter concorrere a costruire un mondo migliore secondo il sogno del Dio della pace.
Né va dimenticato che nel nostro Paese l’indifferenza troppo spesso ha assunto i connotati dell’omertà e della “zona grigia” che ha favorito e fatto crescere il predominio delle mafie e dell’illegalità. Anche in questo caso, chi ha saputo vincere l’indifferenza ha proposto leggi più efficaci, ha dato inizio a percorsi di educazione alla legalità democratica, si è fatto prossimo ai familiari delle vittime, ha sostenuto chi denunciava gli estorsori perché malaffare e corruzione non ricevessero alcuna copertura, contiguità e complicità. Anche grazie a quelle scelte la cultura della legalità è cresciuta in Italia e in altre aree del mondo.
Il Messaggio per la Giornata mondiale della pace indica obiettivi, prassi e strumenti che sono praticabili e perseguibili perché essenziali per la pacifica convivenza in senso più profondo e più pieno della semplice assenza di guerra. Si tratta ad esempio dell’impegno per garantire a tutti lavoro, terra e tetto, l’accesso ai farmaci e al diritto alle cure necessarie, condizioni umane per i detenuti, un’accoglienza dignitosa ai migranti… Una pace che richiede “artigiani” creativamente capaci, appassionati e determinati a cooperare al progetto del Dio della pace per l’umanità.
Passo dopo passo, con lo stile feriale e semplice di chi non si è rassegnato all’impermeabilità al dolore del mondo e sa ancora commuoversi (e muoversi) davanti alle lacrime che chiedono pane, dignità e pace.