È la patologia neurodegenerativa più frequente: di Alzheimer soffre il 60-70% di tutti i soggetti affetti da demenza, un totale di 50 milioni di persone a livello globale, ma secondo l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) si tratta di numeri destinati a triplicarsi entro il 2050 a causa del progressivo invecchiamento della popolazione.
“Per l’Italia, Paese più vecchio al mondo con il Giappone, le demenze rappresentano un problema medico-sociale ogni giorno più grande”, spiega il geriatra Roberto Bernabei, presidente di Italia longeva, rete nazionale di ricerca del ministero della Salute sull’invecchiamento e la longevità attiva.
L’Alzheimer, “forma più prepotente e violenta”, oggi interessa “quasi 600 mila persone, il 5% degli over-65”, ma secondo le proiezioni elaborate dall’Istat per Italia longeva, nel 2030 “saranno colpiti dalla malattia ben oltre 2 milioni di pazienti, in prevalenza donne”.
Ad oggi manca una terapia specifica in grado di arrestare o far regredire la malattia. “Molte multinazionali – ha spiegato ancora Bernabei – si sono ritirate dall’agone, una molecola può costare fino a un miliardo di dollari di investimenti”.
Nell’attesa, ecco allora Chat Yourself, “assistente virtuale” che grazie al connubio di tecnologia e intelligenza artificiale è in grado di rispondere alle domande più comuni dei pazienti ai primi segni di disorientamento: “Come si chiama mia figlia?”. “Dove sono le chiavi di casa?”. “Ho preso le medicine?”. Chat Yourself (@chatyourselfitalia), disponibile gratuitamente su Facebook, è nato da un’idea di Y&R con il supporto tecnico di Nextopera e di Facebook, perfezionato grazie ad un team di geriatri, neurologi e psicologi. Sviluppato su Messenger e utilizzabile su smartphone, Chat Yourself è in grado di memorizzare informazioni personali restituendole su richiesta all’utente, che ha anche la possibilità di impostare notifiche personalizzate (ad esempio per ricordare di prendere i medicinali).
“L’Alzheimer comporta un lento e progressivo decadimento delle funzioni cognitive, dovuto all’azione di due proteine, la Beta-amiloide e la proteina Tau, che si accumulano nel cervello causandone la morte cellulare”, ha spiegato da parte sua Paolo Maria Rossini, direttore area Neuroscienze – Fondazione policlinico universitario “Agostino Gemelli” Irccs Università Cattolica, sottolineando l’importanza di una diagnosi precoce nei 500 centri Uva (Unità di valutazione per l’Alzheimer) presenti sul territorio. Lo abbiamo intervistato.
Professore, perché è così importante diagnosticare precocemente la patologia?
“Evidenze scientifiche ci dicono che l’attacco ai neuroni ed ai circuiti nervosi inizia almeno 15-20 anni prima della comparsa dei ‘tipici’ disturbi della memoria. Anni durante i quali l’aggressione al cervello lavora nel buio, i sintomi non si vedono perché il cervello aggredito è dotato di truppe riserva che sostituiscono i neuroni e i circuiti perduti. Intervenire in questa fase è altamente auspicabile proprio perché quel cervello ha ancora sufficiente plasticità e riserve per rispondere nel modo migliore alle terapie farmacologiche e non farmacologiche, alla correzione degli stili di vita che comportano rischio e al potenziamento di stili di vita che invece comportano protezione. Anche oggi, pur in assenza di farmaci realmente efficaci, la diagnosi precoce, addirittura pre-sintomatica è uno dei must che tutti i servizi sanitari del mondo stanno cercando di raggiungere. L’Italia è in prima fila in questa attività di ricerca con il progetto ‘Interceptor’, finanziato da Aifa e ministero della Salute”.
Come effettuare una diagnosi in assenza di sintomi di declino cognitivo?
“Mettendo insieme test neuropsicologici, che rimangono i pilastri di base, ad una serie di marcatori, cioè di altri test strumentali che vanno dalla puntura lombare per lo studio del liquor, alla Pet per vedere il metabolismo e il consumo di ossigeno e di zucchero nel cervello, ad un elettroencefalogramma un po’ particolare per studiare la connettività delle varie aree cerebrali, alla risonanza magnetica per segnare i volumi dell’ippocampo e delle varie centraline che controllano le funzioni cognitive, a uno studio genetico per vedere se ci sono fattori geneticamente determinati di rischio. Mettendo insieme questi marcatori più i test, si può già oggi avere una previsione accurata per oltre il 90% e dire ad una persona: ‘Guardi caro signore, anche se lei oggi sta bene nei prossimi 3 – 5 anni ha un rischio molto elevato di sviluppare la demenza e quindi è il caso di correre ai ripari’”.
Se le cause dell’Alzheimer sono ancora ignote e non esistono misure specifiche di prevenzione, Italia longeva indica alcune “strategie” per agire sui fattori di rischio e tenere e attivo il cervello: svolgere regolare attività fisica; seguire una dieta sana ed equilibrata; smettere di fumare; ridurre il consumo di alcol; prendersi cura del cuore, a partire dal controllo della pressione arteriosa; allenare la mente per favorire i meccanismi di plasticità cerebrale: leggere, fare cruciverba, giocare a carte o dama, visitare mostre e musei; mantenere una rete di relazioni sociali.
Oggi, 21 settembre, ricorre la Giornata per la lotta all’Alzheimer. Come già avvenuto negli anni scorsi, anche l’Umbria affronta il tema attraverso una serie di iniziative che proseguiranno anche nei prossimi mesi.
Giovanna Pasqualin Traversa