Narrato l’episodio che Francesco ritiene determinante, ecco la conclusione: “in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo”. Exire de saeculo: l’espressione di coloro che hanno rinunciato al mondo per vivere ad esempio una vita monastica.
Anche Francesco la usa, ma se il fine è per continuare a “fare misericordia” ecco che l’uscita dal mondo è un rientrarci con uno sguardo e una vita nuova. Quel “fare misericordia”, che volle in punto di morte lasciare come indicazione ai frati, certamente gli fece abbandonare l’attività del mercante, ma soprattutto quell’ideologia cavalleresca che lo spingeva a “sfondare” nella società acquisendo -oltre alla ricchezza che già possedeva in virtù del padre – anche un più elevato rango sociale diventando cavaliere ossia un nobile.
Ma tale distacco non lo condusse a dichiarare la vanità dell’esistente, pur non essendo assente nei suoi scritti il classico exemplum del decadimento finale nella morte, come si vede nel racconto del moribondo impenitente.
Pur con la presenza di tale richiamo, la sua esperienza spirituale non si conclude con un inno come il Dies irae – attribuito da certuni a frate Tommaso da Celano, primo biografo del Santo, e di cui il testimone più antico è un frammento conservato in Assisi nella Biblioteca francescana Chiesa nuova – in cui si proclama lo disfacimento di tutto il creato, ma con il Cantico di frate sole.
La misericordia rinnova le relazioni con le creature, ma prima di tutto tra le persone perché essa elimina la durezza e agisce con discrezione, anche in quei gesti ascetici, come ricorda lo stesso Francesco alla comunità di San Damiano poco prima di morire.
Il cambiamento avvenuto nella sua esistenza nel 1206 circa è narrato negli ultimi mesi di vita in una lettura di fede attestando Francesco che “il Signore dette” e “il Signore stesso condusse”.
In contemporanea il Cantico in cui – come si vede dagli appellativi usati – è nobilitata tutta la creazione inizia con una apertura a colui che è fonte di ogni bene: “Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedizione. Ad Te solo, Altissimo, se konfane, e nullu homo e’ ne dignu Te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le Tue creature”.
Questa centralità riconosciuta alla misericordia da frate Francesco nel Testamento allorquando narra dell’inizio della sua vita penitenziale però non è sfociato ad esempio nella fondazione di ospizi per malati – come nel caso del coevo Ordine di San Lazzaro – oppure dimorare per sempre nei lebbrosari. Anzi appena si costituì un gruppo si incamminarono per le regioni circostanti Assisi, quale la Toscana e le Marche, per esortare a rifuggire i vizi ed abbracciare un’esistenza virtuosa vivendo secondo la forma del Vangelo, ossia seguendo le orme del Signore Gesù.
Rimane aperta la domanda su cosa spinse Francesco a passare dal fare misericordia con i lebbrosi alla vita itinerante in una predicazione di tipo morale esortativa che al sopraggiungere di frati preparati, come ad esempio Antonio di Padova, sarebbe diventata dotta e quindi di tipo dogmatico sacramentale. Uno studioso come Raoul Manselli ebbe a scrivere che fu proprio la compassione vissuta con i lebbrosi che mise in moto l’Assisiate verso il dolore di ogni uomo e donna.