di Angelo M. Fanucci
E venne la stagione dei campi di lavoro. I miei studenti del Mse (Movimento studentesco eugubino) e io ci vergognavamo un po’ che i nostri coetanei lavoratori fruissero di un solo mese di ferie, mentre le ferie reali degli studenti e dei professori, qui a Gubbio, duravano molto a lungo: dai Ceri ai Santi, diciamo.
E allora cominciammo a inanellare, d’estate, un campo di lavoro dopo l’altro: quindici giorni qui ad aiutare certe suore che restauravano il loro convento, quindici giorni là a dare una mano agli scout che battevano il grano per una poverissima famiglia contadina… quindici giorni di grande impegno, anche fisico, a beneficio di questa o quell’iniziativa sociale.
Iniziative che spesso non costituivano una rispostaa necessità vere, e ci esponevano a pericoligratuiti. Una volta a Burano (la zona montuosa che si stende fra il nordest della provincia di Perugia e il sudovest della provincia di Pesaro Urbino), cieravamo offerti di aiutare una famiglia a falciarel’erba.
Famiglia povera, ma non imprudente. Quando il capofamiglia vide come uno dei nostri ragazzi impugnava la falce fienara (quella ad amplissima lama ricurva, in mano alla Morte scheletrica, rappresentata non come una “sorella”, ma come la giustiziera per antonomasia) per evitare spargimenti di sangue, gliela tolse di mano: “Perché ’nno state a casa, cocchi, ché fate meno danni?”.
Poi, nella primavera del 1970, al liceo Mazzatinti, durante l’intervallo delle ore 11 (insegnavo Italiano e Latino al corso B), apparve Ermanno Bei. Era il figlio di quel Giuseppe Bei Clementi, detto “Amabilino” a onta del suo reale spessore politico che lo volle più volte sindaco di Gubbio, e con onore, a parte la devozione per san Giuseppe Stalin.
Ermanno frequentava – avrebbe dovuto frequentare – l’Istituto tecnico industriale, ma molte mattinate le passava al Bar moderno, appena un passo sopra il “Mazzatinti”.
Quella mattina lo sguardo smaliziato di Ermanno cadde su un articolo del Corriere della Sera e pensò ben di farmelo conoscere: a pagina 3, la pagina culturale (N.B.!), Giuliano Zincone riferiva con entusiasmo sui quattro-cinque giorni bellissimi che aveva passato nella Comunità di Capodarco, anche se era pessimista sul suo futuro: “Mangia minga el panetùn!”, non arriva a Natale.
I contenuti dell’articolo non erano eccezionali. Zincone non aveva colto l’anima di quella comunità, e aveva intitolato il suo réportage Lavorano per sentirsi vivi, ma mi aveva ugualmente provocato. Dissi a me stesso: “Vado e vedo”.