Se l’opera delle nostre menti e delle nostre mani si sfalda così rovinosamente, insieme a migliaia di persone di ogni età, ignare e innocenti, come è accaduto a Kathmandu, capitale del Nepal, nei giorni scorsi, che cosa è l’uomo, cosa vale la sua vita, la sua azione nel mondo? Domande angoscianti, che salgono dal profondo dell’anima.La risposta, oggi come da sempre, viene proprio dalle mani, ancor prima che dalla mente. I nepalesi hanno cominciato subito a scavare, a mani nude, per salvare qualcuno rimasto sepolto vivo sotto le macerie. Ma non è il mito di Sisifo, colui che porta un masso in cima al monte per vederlo di nuovo rotolare a valle e, per vendetta degli dèi, doverlo riportare ogni volta in cima, senza sosta. Non è così. Il senso è quello di riparare ciò che è rovinato, ri-costruire ciò che è crollato con sistemi diversi, più sicuri; ridare serenità alle famiglie e alle persone, rimettere in moto ciò che è stato bloccato, riprogettare un mondo più a misura della sicurezza e della tranquillità. Un cantiere di lavoro immenso da progettare secondo una concezione della natura meno ingenua e primitiva, non rifiutandosi di cimentarsi con il Mistero e pregare per la vita divina delle anime. Si deve operare una trasformazione del modo di concepire la “natura”, che preferiamo considerare e chiamare “creazione”.
Non va considerata un’entità fissa e affidabile, ma un organismo vivente, imprevedibile, perché in grandissima parte sconosciuto, e inoltre imperfetto e sofferente: “La creazione geme e soffre” e l’uomo con essa, in attesa della nascita di un mondo nuovo (Romani 8,22). Al centro di tale prospettiva c’è l’uomo e il suo lavoro. Oggi, nella data di uscita di questo giornale, è il 1° maggio, Festa dei lavoratori. Una festa importante e dovuta, per ragioni evidenti che qui non possiamo elencare. Basti ricordare che tutto ciò che esiste di umano nel mondo è fatto dalle mani di lavoratori ignoti, dal loro sacrificio, dal loro sudore; spesso sono vittime e schiavi, alle origini della civiltà e in certi casi anche oggi, quando dobbiamo lamentare il disagio di chi non ha lavoro e quindi manca del necessario e – come ribadisce Papa Francesco – della dignità. In Italia su questo tema siamo in pieno dibattito. Serpeggia e si diffonde perfino la disperazione. In una nota dei Vescovi del Veneto si legge che, a causa della crisi, in Italia si siano suicidati 150 tra lavoratori e imprenditori. Il lavoro incide così tanto nella vita delle persone. Nel cristianesimo è esaltato fino ad essere il mestiere del Figlio di Dio.
Non è da pensare, quindi – come si è fatto in passato -, che questa festa sia di parte, che appartenga alla Sinistra contro i ”padroni” e contro la Chiesa, come avrebbero voluto i socialisti di fine Ottocento e come hanno interpretato i cattolici per tanto tempo. Il superamento di tale barriera è venuto con Pio XII quando, nel 1955, ha istituito per il 1° maggio la memoria di san Giuseppe lavoratore, invitando i cattolici a entrare in pieno nella valorizzazione del lavoro a livello popolare, come era già stato fatto a livello di dottrina sociale cristiana. Il lavoro non è solo strumento per il bene comune della società, ma è un bene comune della società, e tutti devono fare la propia parte fino in fondo: gli enti pubblici e la politica in primo piano, poi i privati, mettendo a frutto le risorse come opportunità per lo sviluppo e inserire energie fresche e creative nella comune costruzione della Città degli uomini. Oggi, in piena crisi, si sta ripensando il lavoro in tutti i suoi aspetti. Un compito delicato e difficile. Si deve fare un cambiamento, con coraggio e prudenza, perché il mondo cambia, i mercati cambiano, i consumi e i sistemi produttivi cambiano. Ciò che non deve cambiare sono i valori del lavoro, connessi con la dignità dell’Uomo, evitando la cultura del degrado e dello “scarto” che lo farebbero ripiombare nella sua primitiva, selvaggia disumanità.