Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento si apre con la predicazione di Giovanni il Battista nel deserto della Giudea. Questo avvenimento avviene in un luogo molto suggestivo e, a tutt’oggi, chi vi si addentra dal monte di Gerusalemme e dalle colline della Giudea è costretto a scendere sotto il livello del mare per raggiungere questa parte di terra dove il fiume Giordano scorre presso una spaccatura, come una ferita, a ricordarci il costato di Cristo dal quale uscì sangue e acqua. Anche dal punto di vista geografico, dunque, lo scenario di questo episodio evangelico ci dice qualcosa sulla vita spirituale. Anzitutto che il cammino di conversione, più che una salita, è una discesa; non è un “aggiungere”, piuttosto un “togliere” quello che non serve, che sfigura, che maschera e appesantisce. La rivelazione del peccato avviene a latitudini profonde: “è dal di dentro – insegna Cristo -, cioè dal cuore di tutti gli uomini, che escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganni, sregolatezze, invidie, calunnie, superbia, stoltezza.
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo” (Mc 7,20-23). Con Gesù l’etica s’interiorizza e il cuore diventa il centro della vita morale; per vincere il peccato si deve andare alla sua radice, alla motivazione e al desiderio che spingono a compiere l’azione cattiva. Gli antichi Padri spirituali si esercitavano a “spezzare” la propria volontà dicendo “no” a pensieri, sentimenti, parole e azioni che non fossero pienamente evangelici. Questo è il primato paolino dell’uomo spirituale, mosso dall’amore per Cristo, su quello psichico dominato invece dalle pulsioni e dalle passioni: la conversione etica segue quella ontologica e non il contrario! Non sono le “opere buone” a darci un “cuore buono”, è lo Spirito santo che suscita in noi “gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù” (Rom 15,5).
San Francesco d’Assisi chiamava la strada della conversione “penitenza”, cioè via del cambiamento che, per il Poverello di Cristo, non significava semplicemente “fare le penitenze” ma arrendersi totalmente all’Amore del penitente, che è altra faccenda! Il grido del Battista: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” non è dunque un “fai da te” in senso pelagiano basato sullo sforzo volontaristico, è un atto di fede nel Signore che si esprime concretamente nel coraggio di fidarsi di Lui e in quello di affidarsi alla Chiesa attraverso la quale “Egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto” (Salmo responsoriale).
Dopo il peccato originale, il cuore della creatura si è come deteriorato e diviso, non è più in grado di amare con le sue sole forze, e ogni ferita della vita rappresenta il segno indelebile e doloroso di questa spaccatura terrificante avvenuta in noi. Le ferite naturali possono essere considerate tre: quella della nascita, le ferite affettive e quella della morte. Tutte le altre ripercorrono idealmente questi passaggi naturali della vita attraverso la morte. Solo la grazia di Dio può trasformare ogni ferita in una porta che si apre oltre il nostro buio per lasciar passare lo “spirito di sapienza, d’intelligenza, di consiglio, di fortezza, di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2).
Con la Sua presenza in noi cessa infatti ogni pianto: i matrimoni rifioriscono, i consacrati si riaccendono, si sbloccano le relazioni stagnanti e riparte la vita spirituale. Toccati dal “dito di Dio” proprio là, dove più siamo trasfigurati dal peccato, impariamo ad accarezzare, senza graffiare, anche la ferita del nostro prossimo. “Chi opera la misericordia non ha paura della morte perché la guarda in faccia toccando le ferite della vita” ha detto Papa Francesco nel suo discorso del 27 novembre. Non esistono casi irreparabili, tutto è possibile a chi crede, “Dio può suscitare figli ad Abramo anche dalle pietre” e da un “tronco spezzato può far fiorire un germoglio” se solo lasciamo che le nostre ferite diventino feritoie per il Cielo e non mura invalicabili dell’orgoglio e del rancore.