Due detti di Gesù nel Vangelo di Luca di oggi. Il primo – sulla fede – è la risposta ad un intervento degli apostoli (“Aumenta la nostra fede”, Lc 17,6). Il secondo, più esteso e quasi in forma di piccola parabola, è centrato sul servizio che devono dare i “servi inutili” (Lc 17,7-10). “Aumenta la nostra fede”. La domanda dei Dodici ci porta alla mente una situazione simile, che troviamo nel Vangelo più antico, quello di Marco. In questo, subito dopo il racconto della trasfigurazione, il padre di un ragazzo posseduto si rivolge a Gesù chiedendogli la liberazione del figlio, dicendogli: “Credo, aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24; alla lettera: “Credo, vieni in soccorso alla mia incredulità”). Il Signore gli risponde non con parole, ma con il miracolo, esorcizzando lo spirito impuro.
Il Vangelo di Matteo racconta lo stesso episodio ma lo amplifica, aggiungendo la reazione dei discepoli (che Marco non ci tramanda), e registrando le stesse parole di Gesù che ascoltiamo oggi: “Allora i discepoli, accostatisi a Gesù in disparte, gli chiesero: ‘Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?’. Ed egli rispose: ‘Per la vostra poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile'” (Mt 17,19-20). Anche Marco conserva comunque lo stesso logion di Luca. Il contesto lì però è diverso, e riguarda l’episodio del fico infruttuoso: “Gesù allora disse loro: ‘Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato'” (Mc 11,22-23).
Fede e miracoli. Insomma: qualsiasi sia il contesto in cui le parole di Gesù sono registrate; che si debba spostare un gelso (Luca) o un monte (Marco e Matteo), il messaggio sembra chiaro, e riguarda ciò che – proprio come una leva – permette che lo “spostamento” avvenga: la fede, grande anche solo quanto un granello di senapa. Ciò che conta infatti non ne è la quantità, ma le sue qualità. Ogni miracolo, come lo spostare le montagne, presuppone la fede, così come quelli compiuti da Gesù la presupponevano nel bisognoso che gli si trovava dinanzi. Può sembrare strano, ma “il miracolo è di per sé un segno ambiguo, nel senso che può sviare da una religiosità pura e disinteressata e portare verso atteggiamenti di calcolo egoistico o di spettacolarizzazione e in definitiva verso forme di idolatria.
L’ambiguità risulta anche dal fatto che, storicamente, i miracoli non sono serviti a convincere i capi del popolo ebraico, ma addirittura risultarono praticamente inutili anche per i discepoli più intimi come i Dodici, visto che alla fine tutti lo abbandonarono vigliaccamente. Ciò spiega perché Gesù di norma chieda la fede prima del suo intervento, poiché dopo essa non è più garantita (cfr. Lc 17,11-19: su dieci lebbrosi guariti, solo uno tornò per ringraziare)” (R. Penna, Il Dna del cristianesimo, San Paolo). Ma dei dieci lebbrosi ascolteremo e parleremo la prossima domenica…Servi inutili. Passiamo alla seconda parte del nostro vangelo, e vi troviamo ancora una breve parabola, o similitudine. Anche qui facciamo fatica con il linguaggio biblico, che ci presenta una realtà che noi consideriamo negativa (essere servi o schiavi) ma che in senso esclusivamente religioso – in rapporto a Dio – è invece positiva (Maria stessa, nel Vangelo di Luca, si proclama la schiava del Signore, cfr. Lc 1,38).
Mi piace, e la riporto, l’interpretazione che dei nostri versetti dà Fitzmyer: “Il discepolo di Cristo, che è un servo o uno schiavo, e che ha portato a buon fine il suo compito, può considerarsi solo come un servo inutile. Anzitutto, perché la condotta di tale discepolo nell’adempiere il suo ufficio non gli garantisce necessariamente la salvezza; dopo aver fatto tutto ciò che gli competeva, il discepolo deve ancora riconoscere che il destino che lo aspetta è una grazia. E poi perché non c’è alcun spazio per potersi vantare di qualcosa”. Luca, continua Fitzmyer, formula con una parabola quello che l’Apostolo scrive: in Rm 3,27-28 (“Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! … Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge”) e Ef 2,9 (“Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene”).
La fede per servire. Ci resta da vedere se esiste un collegamento tra il detto precedente di Gesù, su cui ci siamo soffermati all’inizio, e questa parabola. Gesù sta istruendo coloro che lo seguono. Al discepolo è richiesta una fede grande, che non può altro che essere domandata di continuo a Dio. Quanta fatica e quanto impegno devono avere i cristiani per fare ciò che fanno, spesso a rischio della propria vita, e poi, tornando a casa dopo essere stati tutto il giorno nel campo, dover riconoscere che si è salvati non perché si è stati bravi o si sono ottenuti dei risultati, ma perché è Dio che salva. Tutti i meriti – anche quelli legittimamente ottenuti – devono essere ricondotti a Dio misericordioso e salvatore.