Le nostre comunità vivono abitualmente di sovrabbondanza sacramentale, nel senso che offrono notevoli opportunità di accesso ai riti, con un rischio: la “sacramentalizzazione della pastorale”. Nel senso che, alcune volte, la celebrazione rischia di essere l’unica attività pastorale.
Un recente articolo di Settimana sintetizza così: “Bulimia eucaristica e anoressia di Parola”. Soprattutto nel tempo di Quaresima vengono concentrate molteplici iniziative, quali ad esempio la benedizione delle famiglie e quant’altro. Un attivismo pastorale che porta i parroci anche ai limiti della resistenza fisica. E ora?
Con le parole del profeta Daniele, ci facciamo compagni di viaggio di tante situazioni di estrema debolezza e impossibilità celebrativa. Daniele (3,24-45) descrive l’esilio del popolo Dio, che non ha più né profeti, né sacerdoti, né luoghi dove offrire il sacrificio.
Come rimanere legati al proprio Dio?
Come esprimere la gratitudine?
Come implorare il suo intervento e la sua misericordia? In queste condizioni?
La fede è capace di essere creativa e sintonizzarsi con il cuore stesso di Dio, che, seppure ci ha dato strumenti mediatori di grazia (i sacramenti), non lega la sua presenza e la sua azione agli strumenti che Lui stesso ci ha dato. Allora, sempre con le parole di Daniele, possiamo anche noi comprendere che possiamo essere accolti da Dio se ci mettiamo davanti a Lui con il cuore contrito e con lo spirito umiliato (Dn 3,39), senza la mediazione di olocausti o “celebrazioni varie”.
Questa sarà la nostra celebrazione “in Spirito e Verità” e a Lui gradita. Anzi questa nuova situazione che ora viviamo ci fa scoprire il vero volto di Dio, per una sincera sequela: “Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito, perché non c’è confusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto” (Dn 3,40-41).
La “buona battaglia” da affrontare nei tempi prossimi
Ora, in questa situazione di “esodo”, abbiamo la possibilità di fare chiarezza sulla nostra fede. Per alcuni sembra un esilio punitivo, ma è in realtà una condizione di grazia. Questo “deserto sacramentale” diviene il luogo della prova, ma anche il luogo dell’intimità.
Anche le nostre comunità vanno aiutate a ritrovare il senso profondo della fede in una situazione che può diventare anche una palestra dello Spirito per combattere la “buona battaglia” da affrontare nei tempi prossimi. Nei quali si intravvede una Chiesa più piccola, con meno “potere” sulla società, minore potenza economica, con pochi sacerdoti, meno celebrazioni, un vero e proprio “dimagrimento sacramentale”.
Chissà che non ci renda più agili nell’uscire e annunciare la gioia del Vangelo! Una condizione privilegiata più volte riproposta nella Parola di Dio e che Papa Francesco ci propone in Evangelii gaudium, ma chi l’ha fatta propria?
La celebrazione eucaristica quotidiana “senza” il popolo, ma più intensamente “per” il popolo.
In questa particolare Quaresima, i parroci cercano di essere vicini alle proprie comunità con una rinnovata creatività pastorale. A partire da una necessità: la celebrazione eucaristica quotidiana “senza” il popolo, ma più intensamente “per” il popolo. In essa non manca la preghiera particolare per i defunti per i quali non è stato possibile celebrare la messa esequiale. La celebrazione della liturgia delle ore come forte intercessione per il popolo affidato.
In un tempo in cui gli stessi parroci sono costretti a rimanere in canonica, si sperimenta un desiderio di comunità più forte, si percepisce la propria parrocchia come una famiglia più grande; allora il cuore accende la memoria di volti e situazioni nelle quali il Signore è passato.
Questo desiderio di prossimità feconda una fantasia pastorale costretta a misurarsi con l’impossibilità di una presenza ordinaria. Scaturiscono iniziative di varia natura, dall’utilizzo dei social sia per la celebrazione eucaristica sia per la liturgia delle ore, alla telefonata personale e, perché no, modalità diverse di presenza di prossimità, con alcuni segni sacramentali: benedizioni in prossimità delle case, preghiere con altoparlanti montati su automobili.
Sulla base di questo lavorìo nascosto e non pubblicizzato, ma ben visibile dalla nostra gente, risulta più facile stigmatizzare le critiche di chi “accusa” la Chiesa di sottostare passivamente ai decreti del Governo. In nome della “vera fede”, i sacerdoti che rispettano le indicazioni date loro dal Vescovo e dalle autorità civili sono bollati come non disponibili al “martirio della fede”.
Accuse e critiche che rivelano una visione di Chiesa fuori dall’orizzonte della complessità, e soprattutto fuori dalla prospettiva storica dalla quale la Chiesa ha sempre saputo tirar fuori cose antiche e cose nuove (Mt 13,52).
In tale visione, la tendenza a esaltare i “bei tempi della fede che furono” si salda spesso con il facile giudizio, quando non diventa disprezzo nei confronti di Papa Francesco. In realtà, questa “fronda” – non certo sotterranea – non accetta la condizione di “esodo” e di imperfezione, di finitudine e di limite, che si supererà solo alla fine dei tempi.
Vive di nostalgia, non cogliendo la profezia che questo tempo nasconde; si sente in esilio, rivendicando come propria una “patria” – la Chiesa – per la quale però non è disposta a lavorare; e così facendo, disconosce il messaggio evangelico della perenne novità che ha portato Gesù.
Don Andrea Rossi