Quando la curva dell’emergenza sanitaria in discesa incrocerà la curva dell’emergenza sociale in salita, a quell’incrocio potrebbe verificarsi la rottura del sistema. Lo ha messo nero su bianco il Copasir, organo del Parlamento che controlla i servizi segreti, a proposito delle conseguenze che la pandemia potrebbe avere sul tessuto sociale ed economico in Italia. C’è anche questo genere di preoccupazioni, alla base delle sollecitazioni, esterne e interne a Governo e maggioranza. Progettare una ripartenza di quel ‘sistema’ che il Copasir considera a rischio collasso.
Quando riaprire? E come?
Il dibattito su questo argomento (quando riaprire? E come?) è acceso e a tratti contraddittorio, in quanto suscettibile di spinte spesso divergenti e inconciliabili. Così come lo era stato quello su quando e quanto ‘chiudere’. La sostanza del confronto – scremato da inevitabili, quanto inopportuni e incongruenti politicismi – appare quella tra le ragioni, ineludibili, della scienza, e quelle della politica.
In questo lungo ‘frattempo’ al quale ci sta sottoponendo un virus inaspettato e sconosciuto, le storiche distanze tra scienza e società appaiono notevolmente ridotte, se non azzerate. Quella scienza da sempre, in Italia, ‘cenerentola’ dal punto di vista della destinazione delle risorse necessarie a portare avanti il livello di ricerca tipico dei Paesi che si vogliano dire civili.
Ora che le decisioni della politica sembrano dipendere in modo praticamente totale da quelle di virologi, microbiologici e altri scienziati e ricercatori, il rischio che si profila è che la scienza e le sue verità sul virus diventino una sorta di paravento dietro il quale i ‘decisori pubblici’ si rifugiano per coprire le loro incertezze e tentennamenti. È ovvio che per la scienza – nel caso particolare, per la medicina – la vita e la salute delle persone è il principale obiettivo da conseguire. La politica agisce su uno spettro più ampio, occupandosi della svolgersi della vita in tutti i suoi aspetti. Ricerca compresa.
E tra le caratteristiche dell’agire politico, una delle più rilevanti è quella di compiere scelte. Così, quando chi gestisce le sorti del Paese pensa al dopo-pandemia, si suppone che lo faccia tenendo ben presente, prima di tutto, quell’incrocio (che potrebbe essere funesto) tra curva dell’emergenza sanitaria in discesa e curva dell’emergenza sociale in salita.
Spinte a ripartire ne arrivano da più parti.
Molte mosse da interessi particolari, di vario genere e non sempre nobili. Ma altre hanno come molla la legittima preoccupazione che si ponga il quesito, tranciante, tra scegliere se morire di virus o di fame.
“Non possiamo immaginare mesi e mesi con un blocco come quello di oggi. La politica deve saper governare gli eventi, non subirli” ha detto la ministra delle Pari opportunità e della famiglia, Elena Bonetti. Sollecita dall’interno della compagine governativa uno sforzo di progettazione che, soppesando rischi e pericoli, sappia dimostrare – non soltanto con la quantità di risorse finanziarie che serve alla ripartenza – quel cambio di passo, anche psicologico, che dopo tante settimane di ‘fermo’ l’intera collettività si aspetta.
Le basi nel dopo-virus
Quello che si chiede ora alla politica è soprattutto una visione in base alla quale, riuscendo a decrittare il significato e l’essenza di quanto sta accadendo (prima di tutto con l’ineludibile supporto della scienza), si possano mettere le basi per delineare un disegno complessivo della società in Italia nel dopo-virus.
Una società dove magari le leggi vengono applicate in modo efficace e immediato. Dove la burocrazia sia concepita non come un intralcio ma come un supporto alla costruzione del benessere collettivo. Dove i supporti tecnologici siano all’altezza di un Paese evoluto. E dove il lavoro abbia la dignità che merita.
Molti si chiedono da dove ripartire: “da zero” mi sembra la risposta più sensata.
Ci vuole coraggio, responsabilità e una visione. Altrimenti la politica, quella che negli ultimi anni ha cercato soprattutto consenso nel breve termine promettendo la luna, avrà dimostrato – pericolosamente, per una democrazia – la propria inutilità.
Daris Giancarlini