di Daris Giancarlini
“Perché voto?” ma poi anche “per chi voto?” sono due dilemmi di spessore consistente, in vista delle elezioni del 4 marzo. Il perché si voti se lo dovranno chiedere quel 60-70 per cento di italiani che continuano a credere nell’importanza di recarsi alle urne, nonostante la parabola in apparente, inarrestabile discesa del criterio della rappresentanza, in un Paese come il nostro dove è la Costituzione a sancire che “la sovranità appartiene al popolo”. Ma la domanda sulla ricerca di motivazioni per tracciare un segno sulla scheda se la dovrebbe porre anche quel 30-40 di astensionisti che da tempo hanno scelto di non esercitare questo loro diritto: perché, se si tratta di politica, nessuna scelta deve essere mai definitiva, ma sempre ponderata rispetto al contesto storico in cui si viene chiamati al voto. Le elezioni le vincono non le idealità alte e giuste, ma il senso comune, quello che fa riferimento ai problemi più intensamente percepiti e alle ricette per affrontarli. Forse è per la mancanza di queste ‘ricette’ che in così tanti non credono più nel principio della rappresentanza? Tra le motivazioni per la scelta astensionista, la principale è proprio la sfiducia verso il voto, seguono la protesta verso i partiti e l’assenza di una forza in cui riconoscersi.
Motivazioni mica da poco, sulle quali l’intero panorama dei partiti in lizza dovrebbe riflettere in maniera seria e approfondita… ma non sembra che stia avvenendo. E chiamando in causa i partiti e i loro candidati, si evidenziano tutte le sfaccettature del quesito ‘per chi voto’. Sondaggi di questi ultimi giorni dimostrano come anche la strada delle promesse mirabolanti stia perdendo peso, nella conquista di qualche punto in più di consenso.
Anche i più affezionati al sistema democratico e alla sua più alta espressione, quella del voto, sembrano mostrare un certo distacco nei confronti della diffusa patologia politica di spararla più grossa del proprio avversario per conquistare consensi. Forse hanno trovato condivisione gli appelli alla ‘sobrietà’ e alla ‘serietà’ arrivati in primis dai vescovi italiani, con il loro presidente, card. Gualtiero Bassetti, che non ha esitato a definire ‘immorale’ il vezzo dei partiti di “lanciare promesse che già si sa di non riuscire a mantenere”. Ecco un criterio che, approssimandosi al voto, potrebbe tornare utile: d’accordo verificare i programmi e valutare quello che si dice, per esempio, su lavoro, famiglia e giovani. Ma soppesare soprattutto se quanto viene prospettato sia serio e ispirato dal senso di responsabilità. Questo è il minimo che un cittadino elettore deve pretendere da chi chiede di rappresentarlo: proprio per ridare senso e spessore al concetto stesso di rappresentanza. E futuro alla democrazia.