Come se non bastassero i motivi di crisi nell’Europa di oggi – la crisi economica, la voragine dei debiti di alcuni Paesi fra cui l’Italia, i flussi migratori così difficili da gestire, i risorgenti nazionalismi – un altro colpo è venuto dal referendum britannico, che ha deciso l’uscita del Regno Unito. La cosiddetta Brexit. So bene che ci sono parecchi, in Italia come in altri Paesi europei, che lo vedono invece come un fatto positivo, un esempio da seguire. Però bisogna ragionarci freddamente sopra. L’unificazione culturale e morale dell’Europa era già cominciata quando Paolo di Tarso poteva vantarsi di essere cittadino romano e gli imperatori romani portavano i confini dell’impero dalle sponde dell’Atlantico al Danubio e al Mar Nero. Ma oggi trasformare quell’insieme di popoli, che hanno alle spalle tanti secoli di storia comune, in un organismo politico davvero unitario non è più solo una nobile idea; è una necessità. Gli orgogliosi stati europei – quelli che cent’anni fa ancora dominavano il mondo con le loro colonie e le loro armi – devono scegliere tra unirsi (in fretta) o scivolare ciascuno nell’irrilevanza, per finire a contare come il Paraguay (con tutto il rispetto per quest’ultimo).
L’intera Unione Europea (compreso ancora il Regno Unito, ventotto stati) conta esattamente mezzo miliardo di persone; la Cina e l’India, messe insieme, ne contano due miliardi e mezzo (cinque volte tanto) e ci stanno invadendo (non da oggi) con i loro prodotti tecnologici e il loro denaro; stanno comperando, loro e altri, anche le nostre grandi squadre di calcio, in tutta Europa. Sono i frutti della modernità e della globalizzazione. Non vi piace la globalizzazione? Prendetevela con Cristoforo Colombo. E con Guglielmo Marconi, che lanciò un segnale radio dall’Italia all’Australia: ai suoi giorni un miracolo, oggi si ripete miliardi di volte al giorno, ogni volta che tiriamo fuori di tasca il telefonino. Gli inglesi, si è capito, rimpiangono i tempi in cui a dominare il mondo erano loro (il loro impero durava ancora quando sono nato io, ma già Roosevelt e Stalin stavano preparando gli accordi di Yalta sopra la loro testa – e sopra la nostra). Molti, anche fra noi, dicono: che ha fatto l’Europa per noi? Bè: settant’anni filati senza guerre in Europa, dopo due devastanti conflitti nell’arco dei precedenti trent’anni. E poi uno sviluppo economico e sociale senza precedenti. Quello sviluppo che ha voluto dire non solo un relativo benessere e un innalzamento del livello dei consumi, ma soprattutto l’organizzazione dello “stato sociale”. Molti dicono di non amare l’Europa perché nei fatti non è l’Europa dei popoli, ma quella delle banche. Ma i soldi che stanno nelle banche sono, appunto, i soldi della gente comune che glieli ha affidati.
Si è visto che cosa succede quando una banca fallisce; e quando è successo tutti si sono lamentati perché lo Stato non aveva salvato le banche. Molti si lamentano perché la politica europea pensa solo all’economia; non è del tutto vero, ma infine è l’economia che permette e sostiene tutto il resto: l’assistenza sanitaria, l’istruzione, la cultura, le pensioni dei vecchi, l’accoglienza dei rifugiati. La seconda metà del Novecento ha illuso noi italiani e una buona parte degli altri europei che si fosse trovato il modo di rendere eterne le vacche grasse; ma come insegnava Giuseppe al Faraone, dopo le annate delle vacche grasse ci sono quelle magre e bisogna averci pensato prima. Gli stati europei, ognuno per conto suo, non possono riuscirci; insieme potrebbero. Per farlo però debbono essere ancora più uniti (non tornare indietro sulla via dell’unione, ma andare avanti): non abolire la Banca Centrale Europea, ma sottoporla a un Governo europeo effettivo e unitario, che adesso manca. Allora, forse, un giorno gli inglesi busseranno ancora alla porta.