Il Vangelo di oggi è in stretta continuità con quello di domenica scorsa. Solo che alla presentazione del Figlio da parte del Padre si sostituisce qui la presentazione da parte di Giovanni Battista. Ancora una volta sentiamo risuonare la voce del Precursore sulle rive del Giordano, questa volta a commento delle parole dette da Dio stesso dopo il battesimo di Gesù. Scopriamo così l’origine della formula liturgica che sentiamo proclamare dal sacerdote poco prima della comunione in ogni messa. Per l’evangelista Giovanni, il Battista è il primo testimone del Verbo di Dio fatto carne. Troviamo questo suo compito intrecciato con quello del Verbo addirittura nel prologo del quarto Vangelo. È un testimone umile, disinteressato, coraggioso, entusiasta, come dovrebbe essere ogni cristiano.
La sua professione pubblica di fede è posta all’inizio del cammino liturgico per dire a tutti noi che non basta credere nel cuore e pregare in forma privata: è necessario testimoniare coraggiosamente la propria fede con la parola e la vita, in un mondo che ha rifiutato Gesù o lo ha ridotto a uno dei tanti capi religiosi apparsi nella storia; in un mondo che ha ridotto al religione ad un semplice fatto privato senza incidenza sociale. È tempo di gridare forte la propria fede, senza fanatismi, con umiltà, ma anche con coraggio. Guai a chi si vergogna di Gesù (Mt 10,33). L’indicazione temporale “il giorno dopo” si riferisce al battesimo di Cristo, che però Giovanni non descrive e che ci è stato invece raccontato da Matteo domenica scorsa. L’evangelista sembra contare sette giorni prima di raccontarci le nozze di Cana, che è così il miracolo del sesto giorno della settimana, quello in cui Dio creò l’uomo e la donna (Gn 1,26-31).
È il giorno del primo segno della nuova creazione, compiuto a Cana con il dono del vino nuovo donato ad un coppia di sposi. Il Verbo di Dio, che aveva creato il mondo (Gv 1,2-3), ricomincia dalla coppia umana, uomo e donna, come nella prima creazione. Matteo, nel racconto del battesimo, ci faceva capire che il Battista conosceva Gesù già prima che venisse da lui al Giordano; infatti voleva negargli il battesimo perché non lo riteneva adatto ad uno più grande di lui, esistente prima di lui, capace di battezzare con lo Spirito (Mt 3,14). Oggi Giovanni l’evangelista ci informa che il profeta precursore sapeva per rivelazione molto di più sulla persona e il destino di Gesù che veniva verso di lui. Naturalmente le sue affermazioni rispecchiano la fede esplicita dei primi cristiani, che aveva interpretato e arricchito la testimonianza del Battista.
Questa visione cristiana dei tempi apostolici appare già nel prologo del quarto Vangelo, dove ci viene detto: “Venne un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce” Giovanni gli dà questa testimonianza e proclama: “Ecco l’uomo del quale ho detto: Quello che verrà dopo di me è avanti a me, perché era prima di me” (Gv 1,6-7.15). Egli può dunque tracciare un ritratto di Cristo al centro della fede cristiana. Nel brano di oggi, il Battista indica con il dito Gesù definendolo “l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Che cosa intendeva dire con l’immagine dell’agnello? Nella tradizione giudaica del tempo si parlava di un agnello vittorioso che avrebbe distrutto, negli ultimi tempi, il male del mondo. La sua mansuetudine contrastava con la violenta cattiveria degli uomini, eppure alla fine ne usciva vincitrice.
Quella tradizione ha ispirato certamente la figura dell’agnello come appare nell’Apocalisse: un agnello vivo, che porta i segni della sua immolazione, assiso in trono con Dio; tiene in mano il libro del piano salvifico di Dio, chiuso da sette sigilli perché misterioso (Ap 5,6 ss). L’agnello di Dio è il rivelatore unico e autorizzato dei segreti di Dio. Per molti Padri orientali, la figura dell’agnello è ricavata dalla profezia di Isaia che presenta il Servo del Signore come un agnello mansueto davanti ai suoi carnefici: “Maltrattato, si lasciò umiliare; era come agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori” (Is 53,7). È il brano profetico spiegato in senso cristologico dal diacono Filippo al ministro etiope della regina Candace sulla via di Gaza (At 8,29-35).
Quel Servo-Agnello “è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità, per le sue piaghe siamo stati salvati, il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di tutti noi” (Is 53,5-6). È detto che “egli porta” i nostri peccati, li prende su di sé per espiarli e cancellarli. È stato osservato che il verbo usato qui è phérein (portare) e non aìrein (togliere) come in Giovanni. Ma ambedue i verbi traducono lo stesso originale ebraico nasâ, che significa sia prendere che togliere. C’è chi ha pensato che il Battista parlando di Gesù abbia usato il termine aramaico talya, che significa contempora- neamente sia “servo” che “agnello”. I Padri latini, a questa figura del Servo del Signore, aggiungono quella dell’“agnello pasquale”, immolato dagli ebrei al momento della partenza dall’Egitto.
Al tempo dell’Esodo l’agnello non ebbe significato sacrificale, ma solo liberatorio: il suo sangue servì per indicare le case degli ebrei salvati e le carni furono consumate nella cena nella notte della partenza. Ma al tempo di Gesù l’agnello pasquale, da consumare nella cena, veniva immolato nel tempio e il suo sangue veniva versato ai piedi dell’altare, due segni inconfondibili del suo carattere sacrificale commemorativo. L’evangelista ci ricorda che, mentre nel Tempio venivano sacrificati gli agnelli (era il 14 del mese di Nisan), Gesù era issato in croce, trattato come agnello pasquale al quale era proibito rompere le ossa (Gv 19,33.36). I soldati infatti non gli ruppero alcun osso, ma lo trafissero con una lancia. Questo collage di figure messe insieme dalla tradizione ebraico-cristiana viene posto in bocca al Battista nella sua presentazione di Gesù che oggi leggiamo. È un quadro grandioso, dentro il quale va posta anche la preesistenza di Cristo e la sua qualità di Figlio di Dio: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.
Affiorano qui le parole dell’inno che aprono il vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo e il Verbo era con Dio” (1,1). Il Battista indica Gesù come l’uomo in cui abita lo Spirito: “Ho veduto lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui”. L’evangelista lo presenterà come la sorgente dello Spirito, come “acqua viva che zampilla verso la vita eterna” (4,14; 7,37-39). Infine, al culmine della sua confessione ormai totalmente cristiana, dice: “Ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. La stessa confessione di Natanaele di Cana (1,49). Ne risulta una confessione cristiana limpida che risale alla tradizione apostolica e che ogni credente è tenuto anche oggi e professare e testimoniare: Gesù è colui che cancella il peccato del mondo, inteso come forza malefica che avvelena le coscienze e la società; è colui che esiste prima del tempo perché è eterno come Dio; è il regno di Dio, cioè la presenza personale della signoria di Dio nel mondo; in lui risiede lo Spirito santo come in una sorgente che zampilla; in una parola, è il Figlio di Dio. Questa è la nostra fede, quella che gridiamo al mondo!