Come era prevedibile, i referendum di domenica 12 giugno hanno avuto esito nullo: non si è raggiunto il numero di votanti richiesto dalla Costituzione. Adesso i promotori si lamentano perché attribuiscono questo esito alla malafede di altri; così hanno detto, fra gli altri, Salvini e Calderoli. Dovrebbero piuttosto dare la colpa a se stessi. Hanno preteso di sottoporre a referendum proposte arzigogolate e oscure, riferite per di più ad argomenti (come la carriera dei magistrati e il modo di eleggere i membri del Consiglio superiore della magistratura) dei quali la maggior parte dei cittadini sa poco o nulla, e non è interessata saperlo.
Di più, gli stessi promotori non si preoccupavano di spiegare bene il senso e gli effetti delle loro proposte, anzi facevano in modo di confondere ancor più le idee. Come è avvenuto, del resto, anche per altri referendum del passato. C’è stato – in questa occasione ma anche prima – un uso improprio, o addirittura un abuso, dello strumento del referendum. Come si fa a pretendere che decine milioni di elettori italiani decidano se è bene o male che un magistrato che si vuole candidare alle elezioni interne per il Csm debba presentare le firme di almeno 25 colleghi? Moltissima gente non sa nulla del Csm, o al più ne ha appena una vaga idea.
Non sa che i circa 9 mila magistrati eleggono ogni volta 20 rappresentanti; non si rende conto che, con questi numeri, chiedere a un candidato di avere le firme di appoggio di 25 colleghi non è un sopruso, e che comunque abolire questa regoletta non cambia, di fatto, nulla. Come si fa a mettere a referendum una questione come questa? In ogni caso, si illude chi, magari in buona fede, crede che le scelte politiche si possano semplificare fino al punto che si possano risolvere con un sì o un no, al di fuori di ogni contesto e di ogni bilanciamento. Perché ogni sì che si dice a una qualsiasi proposta produce, lo si voglia o meno, un no a tante altre richieste non meno giuste. La democrazia diretta, a colpi di referendum, è illusoria.