Il duro mestiere del profeta

“Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”, esclama san Paolo dopo aver accolto le parole pronunciate dal Signore: “Ti basta la mia grazia”. San Paolo, come Ezechiele e il Salmista fungono da ‘profeti’ del Signore, ma tutti e tre, secondo quanto si ascolta dalla Parola di Dio di questa XIV domenica del T.O., hanno a che fare con i propri limiti e con le incomprensioni altrui. Rispondendo a delle presunte provocazioni, san Paolo fa presente alla comunità di Corinto alcune sue personali e delicate questioni quali l’essere stato soggetto agli attacchi del diavolo nella sua carne. Paolo ha raggiunto sì le alte vette della dimensione mistica (“rapito fino al terzo cielo”), ma perché non “montasse in superbia” ha sperimentato la debolezza dell’essere creatura e questo lo ha portato a non fare affidamento sulla sua persona, ma permettendo che nella sua persona dimorasse “la potenza di Cristo”. Così l’autore del Salmo 122, rifacendosi alla situazione degli israeliti dopo il ritorno dall’esilio babilonese, periodo in cui hanno patito il disprezzo e gli oltraggi dei pagani, presenta al Signore la supplica degli israeliti che Gli chiedono pietà perché sono “troppo sazi dello scherno dei gaudenti, del disprezzo dei superbi”. Anche il profeta Ezechiele incontra le fatiche di avere a che fare con un popolo difficile, una “genìa di ribelli”. Il brano è tratto dal capitolo 2, capitolo che descrive la chiamata di Ezechiele da parte del Signore. Secondo i dati biblici, Ezechiele ha esercitato la sua attività a Babilonia tra i suoi connazionali esiliati, ma è anche vero che alcuni passaggi (come quello del brano che ci riguarda) evidenziano la sua presenza in Palestina. La sua missione è stata svolta cioè in ambedue le realtà. È considerato un profeta ‘insolito’, perché chiamato non solo ad esprimersi con la parola, ma anche con atteggiamenti (es. migrante) e gesti (es. mimica dell’assedio di Gerusalemme). È il profeta che assiste a visioni,come quella dei quattro esseri viventi (che saranno ripresi per la simbologia degli evangelisti), delle ossa aride che rivivono, del tempio da cui scaturisce un fiume, ed altre ancora, ma soprattutto è il profeta che annuncia che l’Antica Alleanza sarà sostituita dalla Nuova Alleanza non tanto in virtù del ritorno a Dio da parte del popolo, quanto per dono gratuito di Dio.

Ezechiele ha tutte le caratteristiche tipiche del ‘profeta’: lo Spirito del Signore (“uno spirito entrò in me”), la prontezza (“mi fece alzare in piedi”), l’ascolto (“ascoltai colui che mi parlava”). Nonostante tutto questo, la missione incontra resistenze e incomprensioni, ma a queste lo ha preparato il Signore stesso dal momento in cui lo ha investito dell’‘incarico’.

Infatti, senza risparmiarsi, l’autore sacro mette in bocca al Signore aggettivi pesanti per descrivere coloro verso i quali Ezechiele dovrà esercitare la sua attività profetica. In soli tre versetti, i destinatari dell’annuncio profetico sono definiti “razza di ribelli”, “figli testardi”, “dal cuore indurito” e “genia di ribelli”, espressioni che ritornano in altri ambiti veterotestamentari e che significano non solo la chiusura mentale, ma anche e soprattutto l’egoismo.

Presentata in questo modo, la missione sembrerebbe inutile, e infatti non viene avviata tanto per la riuscita (che comunque ci sarà perché il Signore libererà gli esiliati), ma perché sappiano “almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”. E di ‘profeta’ ci parla anche la pagina del Vangelo secondo Marco. Il contesto è quello di Gesù che con i discepoli si trova nella sua patria, è sabato e insegna in una sinagoga. È specificato che “molti” ascoltando erano (letteralmente) “meravigliati” per la sua sapienza e per i suoi prodigi. Segue poi la domanda: “Non è costui il carpentiere?”.

Soffermiamoci su questa domanda perché su altri elementi di questo brano (o paralleli) abbiamo già sostato. Il sostantivo greco teknes si traduce più letteralmente con ‘carpentiere’ o ‘artigiano’ intendendo cioè uno che costruisce, ripara, installa… non solo legno, ma anche altri materiali. L’espressione non è quindi da intendere come relativa ad uno che fa un lavoro modesto, ma ad uno che si occupa in modo artigianale e con competenza di più ambiti.

Soprattutto, è da considerare che ‘carpentiere’, nella produzione letteraria rabbinica significa anche ‘istruito’. Può riferirsi sia all’artigiano che all’esperto di Torah o a tutte e due. Le consuetudini giudaiche volevano infatti che lo studioso di Torah svolgesse anche un lavoro manuale. Ritornando quindi a Gesù, l’espressione ‘carpentiere’ non è da pensare come denigratoria, ma è da ritenere come qualificata, pur tuttavia il suo insegnamento trova il rifiuto della sua gente! Questo stato di cose non permise a Gesù di fare numerosi miracoli, ma la sua missione non si arrestò perché comunque “impose le mani a pochi malati e li guarì”. Seppur Gesù abbia vissuto l’umana delusione dell’“incredulità” dei suoi, l’attività profetica continua e genererà i suoi frutti. Come Ezechiele e Paolo, anche il cristiano di sempre è profeta e, se non conosce qualche sconfitta, forse non è un profeta secondo il cuore di Gesù; ma non per questo deve scoraggiarsi, anche perché “il vero profeta è un uomo di speranza” (Papa Francesco 17.04.2018).

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA
Libro di Ezechiele 2,2-5

SALMO RESPONSORIALE
Salmo 122

SECONDA LETTURA
II Lettera ai Corinzi 12,7b-10

VANGELO
Vangelo di Marco 6,1-6

 

AUTORE: Giuseppina Bruscolotti