Don Elvio Damoli interviene nel dibattito contro la liberalizzazione delle droghe

La persona e non il farmaco al centro dell'azione di recupero

Dietro i dibattiti sulla liberalizzazione o meno delle droghe “si nasconde la questione economica”: è il parere di don Elvio Damoli, direttore della Caritas italiana, che interviene a proposito dei temi affrontati durante la Terza conferenza nazionale sulla droga in corso in questi giorni (fino al 30 novembre) a Genova. In contemporanea è stata organizzata anche una “contro-conferenza” di associazioni antiproibizioniste che non si riconoscono nel programma governativo. “Distribuire sostanze costa molto poco rispetto al costruire progetti – osserva don Damoli -; lasciare in carcere costa relativamente poco rispetto a mettere in piedi percorsi di integrazione; ridurre i danni, se diviene il solo e unico approccio terapeutico, costa nulla rispetto a evitarli del tutto o cercare di eliminarne le cause”. In realtà, precisa, “costa di meno nel breve periodo, nella percezione ragionieristica dello spazio di una finanziaria o di un bilancio comunale” mentre non si arriva a comprendere “che l’unica prospettiva ragionevole è investire risorse nel tempo”. “Non so quanto il mondo adulto dia segnali di presa in carico – denuncia don Damoli -, non so quanto riesca a farsi compagno dei propri ragazzi. Si ha l’impressione che l’indifferenza, l’omissione, la dimenticanza siano le cifre di questo rapporto. Il mondo adulto rimprovera ai giovani di essere schiacciati sul presente, sulle emozioni, sul consumo”. Ma la “volontà di accumulo del nostro sistema economico”, si chiede il Direttore della Caritas, “non riduce tutto, soprattutto la dimensione del nostro tempo, all”adesso’ e al ‘qui’?” “I giovani sono attesa e futuro – sottolinea -, in una parola la metafora della vita. E sembra che nessuno abbia il tempo e la volontà di impegnare risorse verso di loro”. Don Damoli ricorda che oggi viene definito “drogato” “solo la persona che fa uso di eroina” mentre chi “fa uso di altre droghe (ecstasy, cocaina, ecc.) non viene considerato tale”, attribuendo così alle nuove droghe “il vantaggio della loro apparente silenziosità”. La Caritas chiede perciò risposte integrate da parte delle strutture socio-sanitarie-assistenziali e un’azione di prevenzione e riabilitazione attuata attraverso l’ascolto delle persone. A mettere in luce “il rischio che tutto si riduca solo ad un dibattito tra proibizionisti e antiproibizionisti”, una “vecchia questione che non mette in luce i problemi e gli appelli più profondi dei giovani” è invece don Vinicio Albanesi, presidente del Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza). “Oggi i giovani stanno veramente male: miscelano tante porcherie, dall’alcool agli psicofarmaci. Sono sbandati, depressi. Abbiamo il terrore di avere una generazione di ragazzi psicologicamente compromessi”. Per questo motivo, precisa, “bisogna occuparsi della presa in carico dei ragazzi, dal momento dell’educazione in poi, ancora prima della prevenzione”. “Dai dati emersi dal nostro lavoro in tutta Italia – spiega don Albanesi – ci siamo resi conto che i ragazzi sono dispersi, non hanno riferimenti di nessun tipo. Da una parte si sentono inadeguati, dall’altra viene chiesto loro di essere efficienti. Concepiscono la vita come momento di grande divertimento, per questo ricorrono ad intrugli che non fanno bene alla loro identità e alla loro salute. I ragazzi si sentono abbandonati: quando facciamo lavoro di recupero troviamo delle ‘scatole vuote’. C’è una grossa sofferenza data da una mancanza di identità, della quale sono responsabili gli adulti, per aver inventato questa società di carriere brillanti, donne belle e luci splendenti, mentre nella realtà le cose vanno diversamente”. La richiesta del Cnca è allora “di investire di più sulla scuola e sulla famiglia” perché oggi “la scuola non si assume più la responsabilità dell’educazione e la famiglia è rimasta sola”. L’auspicio finale è “che la società degli adulti, comprese le parti economiche, cominci a reinvestire sui giovani, a non occuparsi solo di economia ma anche di educazione e di attenzione”. Secondo don Egidio Smacchia, presidente della Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche), bisogna “applicare la legge per l’intesa Stato-Regioni, svuotare le carceri affidando i tossicodipendenti alle comunità, porre la persona e non il farmaco al centro dell’azione di recupero sia nelle strutture pubbliche che private”. Ad oltre un anno dall’entrata in vigore della nuova normativa, fa notare il responsabile della Fict, “troppo poco è stato fatto per il reinserimento degli utenti sia nelle strutture pubbliche che nel privato sociale”. E anche il problema del sovraffollamento delle carceri, osserva, “potrebbe essere superato applicando le leggi esistenti”, ossia utilizzando “la misura dell’affidamento in prova ai servizi sociali attraverso l’inserimento in comunità terapeutica, per alleggerire la pressione sulle carceri, risparmiare in forma diretta ed indiretta da parte dello Stato, e garantire un ampia possibilità di recupero dei detenuti tossicodipendenti”. Oggi nelle carceri italiane vi sono circa 13.000 tossicodipendenti, di cui almeno 5.000 potrebbero seguire percorsi alternativi al carcere.

AUTORE: Patrizia Caiffa