Uno degli scopi dell’Anno della fede è quello di celebrare le grazie e i frutti spirituali del Concilio Vaticano II, di approfondirne l’insegnamento per meglio aderire ad esso e di promuoverne la conoscenza e l’applicazione. Occorre farsi convertire dal Concilio, affrontando le sfide che ha lanciato; esso non costituisce un “mito”, ma rappresenta un evento pentecostale che ha ravvivato in tutta la Chiesa l’anelito alla missione e il dinamismo dell’evangelizzazione. La nuova evangelizzazione non è possibile senza un vero rinnovamento spirituale che domanda a tutti i battezzati di “dimorare nelle Scritture”. Non bastano operazioni pastorali estetiche, un semplice face-lifting: a cosa serve la facciata, se le fondamenta della fede sono fragili? L’avanzare del processo di “desertificazione” spirituale – ha tenuto a precisare Benedetto XVI in occasione dell’apertura dell’Anno della fede – impone a tutti uno sforzo formativo straordinario sul piano della maturazione della fede. Non si tratta solamente di un cammino verso l’interiorità e la profondità, e neppure soltanto un cammino indietro, di ritorno alle fonti; si tratta soprattutto del cammino degli uni verso gli altri. “Ecco – sottolinea il Papa – come possiamo raffigurare questo della fede: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con noi solo il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio sono luminosa espressione, come pure lo è il Catechismo della Chiesa cattolica”.
Il dinamismo spirituale e pastorale che ha trovato la sua espressione più universale e il suo impulso più autorevole nel Concilio ecumenico Vaticano II ci chiede di compiere un serio esame di coscienza, che per non essere superficiale deve rispondere a questo interrogativo: a quale delle sette Chiese dell’Asia Minore, di cui parla il libro dell’Apocalisse, si avvicinano le nostre comunità cristiane? Assomigliano di più alla Chiesa di Efeso (cf. Apoc 2,1-7), che ha il merito di essere perseverante ma ha abbandonato il suo amore di un tempo, oppure hanno gli stessi tratti somatici della Chiesa di Smirne (cf. 2,8-11) che, posta sotto il giogo della tribolazione, è chiamata a non temere, a rimanere fedele al Signore? La risposta a questo interrogativo rimane aperta anche perché le Chiese di Pergamo (cf. 2,12-17) e di Tiàtira (cf. 2,18-29) sembrano più vicine a noi, non tanto per la costanza con cui tengono saldo il nome del Signore, quanto perché non riescono a estirpare chi segue dottrine che conoscono le “profondità di Satana”. Chissà, invece, se ci è gemella la Chiesa di Sardi (cf. 3,1-6), che è creduta viva e invece è morta, oppure quella di Laodicèa (cf. 3,14-22) che non è né fredda né calda? Se è difficile rispondere a tutte queste domande proviamo a vedere se possiamo riconoscere come sorella maggiore la Chiesa di Filadelfia (cf. 3,7-13), a cui “Colui che ha la chiave di Davide” ha aperto una porta che nessuno può chiudere. Di quale porta si tratta? È quella della Parola, autentico “portale” della fede! L’apostolo Paolo insegna che “la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10,17). Come la qualità della fede è il frutto maturo dell’accoglienza riservata alla Scrittura, così la debolezza della fede dipende dal distacco dalla Parola o da un contatto superficiale con il Vangelo. Nutrirsi delle Scritture è per la Chiesa il compito primo e fondamentale.