A 39 anni dall’approvazione della legge 194 che regola l’aborto in Italia molte cose sono cambiate, come si può vedere dalla relazione che ogni anno il Ministero della Salute trasmette al Parlamento. Innanzitutto il numero degli aborti si è più che dimezzato: erano 234.801 nel 1982, quando si è registrato il valore più alto in Italia, e sono 87.639 nel 2015. Una diminuzione del 62.7%, confermata anche da altri indicatori che solitamente vengono esaminati: il tasso di abortività, cioè il numero di aborti per 1000 donne in età fertile, era 17.2 nel 1982, ed è 6.6 nel 2015, mentre il rapporto di abortività, cioè il numero di aborti per 1000 nati vivi, è sceso da 380.2 nel 1982 a 185.1 del 2015. Se poi consideriamo solo le cittadine italiane che hanno abortito, ne contiamo 60.384 nel 2015, con una diminuzione percentuale del 74.3% rispetto al 1982, quando l’apporto delle straniere era minimo.
Italia in controtendenza rispetto algi altri paesi europei
Fermo restando che l’unico numero accettabile di aborti procurati, cioè di soppressione di vite umane, è zero, le cifre appena dette sono comunque enormi ma in controtendenza rispetto a quelle di altri Paesi europei, dove negli anni il numero di aborti è cresciuto, o non è mai diminuito. E anche altri indicatori sono diversi: confrontando i dati internazionali con i nostri – come riportato nella relazione al Parlamento – si può vedere come, ad esempio, le minorenni italiane siano quelle che abortiscono meno, e anche per gli aborti ripetuti le italiane sono quelle che ne fanno di meno. Questo prova che non è la legalizzazione dell’aborto a ridurne il numero: se così fosse, in tutti i Paesi dove c’è una legge che lo consente avremmo dovuto avere lo stesso nostro andamento.
Diversi sono i fattori che hanno determinato questo calo italiano: innanzitutto demografici, a partire dal parallelo, enorme calo di nascite che si è avuto nello stesso intervallo di tempo. L’inverno demografico si riflette anche sulle gravidanze interrotte: meno concepimenti, meno nascite, e meno aborti.
L’aborto “chimico” sfugge alle rilevazioni
Negli ultimi due anni poi ha contribuito l’eliminazione della ricetta per la cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo”, classificata come “contraccettivo di emergenza”, che però può agire anche come antinidatorio, cioè precoce abortivo: dalle 7.796 confezioni vendute – con prescrizione medica – nel 2012 si è passati a ben 145.101 scatole nel 2015, quando a seguito di indicazioni europee la ricetta è solo per le minori. Poiché al momento dell’assunzione non si può accertare la presenza di un embrione se non è annidato, non è possibile quantificare il contributo abortivo di questa pillola.
Denatalità e diffusione dei cosiddetti “contraccettivi di emergenza” sono comuni anche ad altri paesi europei, dove però gli effetti non sono stati quelli avuti in Italia. E allora?
Il “monopolio” dello Stato riduce i margini di guadagno per i privati
Un motivo importante va ricercato nella mancanza di profitto nel “settore”: in Italia gli aborti non possono essere fatti a pagamento, come in altri ambiti, quando si va in qualsiasi studio privato medico di specialisti (es. il dentista). Le cliniche private autorizzate a effettuare aborti vengono rimborsate dallo Stato con quote stabilite, uguali su tutto il territorio italiano. Se si vuole incassare la stessa cifra, lo si può fare anche con altri “servizi”. Negli altri paesi europei la maggior parte degli aborti avviene invece in strutture private, con ampi margini di guadagno. Da noi non ci sono le cliniche affiliate alla Planned Parenthood, tanto per nominare un’organizzazione internazionale tristemente nota per l’“impegno” sul fronte abortivo. Non c’è spinta economica per l’aborto in Italia, insomma, a differenza di quanto accade, per esempio, per la fecondazione assistita, dove il mercato è fiorente e in aumento.
La contraccezione e la cultura che accoglie il figlio inatteso
Il mancato profitto non è l’unico motivo: andrebbe approfondito il diverso approccio italiano alla contraccezione, specie quella chimica. In generale, nonostante tutto, in Italia ancora resiste la famiglia, il che aiuta ad accettare un figlio inatteso, rispetto ad altri Paesi dove invece sembra essere un fenomeno in via di estinzione. Ma per quanto durerà questa “eccezione italiana”, considerando anche la recente legge sulle unioni civili, il simil matrimonio gay?
In Umbria più aborti e meno figli della media nazionale
L’Umbria segue a grandi linee l’andamento nazionale, discostandosi in alcuni punti in senso peggiorativo, purtroppo: tasso (7.2) e rapporto di abortività (252.8) sono più elevati delle rispettive medie nazionali, e al tempo stesso il tasso di fecondità (numero di nati vivi per 1000 donne in età fertile) è minore del dato nazionale: 28.4 rispetto a 35.4. Più aborti e meno figli della media nazionale, insomma, nella nostra regione. In generale, la donna umbra che ricorre più all’aborto è nella fascia di età fra 25-29 anni (il 23.3%) è nubile (53.1%, compresi i conviventi, il 38.1% è coniugato), ha una licenza media superiore (50.6%), e lavora (43.4%). Anche la percentuale degli aborti fra le straniere – 41.5% – è maggiore rispetto alla media italiana, 31.1 %: andrebbero esaminati i dati disaggregati per individuarne i motivi, ma questo andamento è un chiaro indice di situazioni particolarmente problematiche per le giovani donne straniere che arrivano in Umbria.