Sono passati esattamente due anni dalla morte di don Andrea. E noi siamo tornati come pellegrini, in questo luogo santo, per pregare, per ricordare e per attingere dalla ricchezza della sua testimonianza un nuovo vigore evangelico. In questo luogo, lontano dai nostri luoghi abituali, scendiamo nelle profondità della storia umana oltre che della testimonianza evangelica. Questa piccola chiesa si è aggiunta ai numerosissimi Calvari dei tempi moderni, uno dei luoghi santi ove i discepoli hanno effuso il loro sangue assieme a quello del loro Maestro. E noi siamo venuti qui con il cuore commosso, sapendo di stare in luogo alto di questa terra. Siamo in pochi, come erano pochi quel gruppetto di amici in quel lontano Venerdì santo fuori le mura di Gerusalemme per stare sotto quella croce. Sappiamo però che da quella croce continua a nascere una speranza nuova anche per noi. (‘) L’amore di Cristo è una forza irresistibile e giunge sino ai limiti estremi del mondo per portare a tutti la salvezza. È questo l’amore che ha guidato don Andrea sino in questa terra, e sino a dare la sua stessa vita. Quello di Gesù è infatti un amore che non conosce confini, né quelli geografici né quelli dei cuori. È un amore che non consce limiti. Di questo l’amore abbiamo ancora tutti bisogno. Noi siamo venuti per contemplare questo amore, per coglierne la grandezza, per nutrircene e viverlo. E anche a noi viene oggi concessa come una visione. Mentre ricordiamo la morte martiriale di don Andrea, le parole dell’Apocalisse, scritte da Giovanni non lontano da questa terra, aprono anche a noi uno spiraglio nel cielo. E possiamo scorgere don Andrea accolto nel numero sconfinato dei ‘nuovi martiri’ dell’ultimo secolo, e dell’inizio di questo terzo millennio, nei quali Giovanni Paolo II vedeva già realizzata l’unità dei cristiani e ‘ potremmo aggiungere ‘ dell’intera famiglia umana. (‘) Questa piccola chiesa, lontana dai nostri luoghi abituali e in certo modo sperduta, resta un santuario da custodire e da proteggere perché la testimonianza di don Andrea possa continuare a interpellarci e a muovere i nostri cuori. Se essi ‘ come scrive l’Apocalisse ‘ ‘stanno davanti al trono di Dio’, è bene che noi li abbiamo davanti a noi. Ci aiutano a stare alla presenza di Dio. In un mondo in cui è facile essere travolti dai venti della superficialità e del consumismo perbenista, in un mondo in cui è sempre più difficile un amore che vada oltre i confini del proprio piccolo mondo, la testimonianza martiriale di don Andrea e dei tanti martiri di questo nostro tempo ci mostra quell’amore gratuito e senza limiti che è la stella polare che può illuminare gli uomini a non precipitare nella notte buia dell’amore solo per se stessi e per i propri confini. Don Andrea, con la sua morte, ci mostra come essere cristiani oggi, come essere preti in questo nostro tempo, come vivere il Vangelo senza aggiunte, nella sua povertà e nella sua forza dirompente. Benedetto XVI, rivolgendosi ai seminaristi del Seminario romano pochi giorni dopo la morte, indicava don Andrea ad esempio per il presbiterio diocesano: ‘Abbiamo il luminoso esempio di don Andrea, che ci mostra da una parte, l’interiorità della propria vita con Cristo e, dall’altra, la propria testimonianza per gli uomini in un punto realmente ‘panperiferico’ del mondo’ È una testimonianza che ispira tutti a seguire Cristo, a dare la vita per gli altri e a trovare proprio così la Vita’. E, lo scorso anno, venendo pellegrino in Turchia, al santuario di Meryem Ana Evì, lo ricordava assieme a Maria: ‘Con salda fiducia cantiamo, insieme a Maria, il Magnificat della lode e del ringraziamento a Dio, che guarda l’umiltà della sua serva. Cantiamolo con gioia anche quando siamo provati da difficoltà e pericoli, come attesta la bella testimonianza del sacerdote romano don Andrea Santoro, che mi piace ricordare anche in questa nostra celebrazione’. Don Andrea è venuto in questa terra da credente, sapendo che il Signore lo accompagnava. Sapeva che veniva in una ‘terra santa per ebrei, cristiani e musulmani’. E diceva che era ‘necessario entrarvi in punta di piedi, con umiltà, ma anche con coraggio’. Vi è giunto con quel senso di debito che l’Occidente deve all’Oriente: il debito verso una terra da cui l’Occidente e la stessa Roma hanno ricevuto il Vangelo. Ed è ancor più significativo ricordare don Andrea in questo anno del bimillenario di san Paolo. L’apostolo, figlio di questa terra, l’ha lasciata per portare il Vangelo sino a Roma. All’inizio della Lettera ai Romani scrive: ‘Sono quindi pronto’ a predicare il vangelo anche a voi di Roma’ (Rm 1, 15). Don Andrea, con un cammino inverso, è venuto qui come a pagare quel debito di riconoscenza che anche Roma deve verso l’Apostolo. Don Andrea pensava che era urgente tornare qui per attingere direttamente dalla fonte la forza del Vangelo che aveva cambiato Roma e il mondo. Non voleva infatti che la sua fosse una scelta personale. Insisté presso il cardinale Ruini perché venisse a nome della diocesi di Roma. Nel 2000, prima di lasciare Roma, scriveva così ai parrocchiani: ‘Andando io vorrei (se Dio lo vorrà) attingere e consegnare anche a voi un po’ di quella luce antica e darle nello stesso tempo un po’ di ossigeno perché brilli di più. Sento questo invito, che affronto a nome della Chiesa di Roma, come uno scambio: noi abbiamo bisogno di quella radice orginaria della fede se non vogliamo morire di benessere, di materialismo, di un progresso vuoto e illusorio; loro hanno bisogno di noi e di questa nostra Chiesa di Roma per ritrovare slancio, coraggio, rinnovamento, apertura universale’. Don Andrea resta un testimone dell’ecumenismo tra l’Oriente e l’Occidente. Ed è anche testimone e un martire del dialogo tra le religioni e tra i popoli. ‘La mia missione è il dialogo tra le fedi’, ripeteva spesso. Sapeva che qui avrebbe incrociato sia l’ebraismo che l’islam. E scelse come missione quella di essere un ponte, proprio mentre questo mondo sembra perseguire una recrudescenza di conflittualità. Non è il conflitto tra civiltà che salva, ma l’incontro franco e saldo a cui spinge l’amore cristiano. Don Andrea non aveva l’esaltazione di un fanatico ma la passione di un uomo che si lascia guidare dal Vangelo dell’amore. È stato il Vangelo di un amore mite e senza violenza che lo ha guidato nella sua vita in Turchia. Le parole della sua ultima lettera, che hanno il sapore di un testamento, lo descrivono: ‘Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere ‘signori’ della casa, a farsi ultimo per risultare il primo, in un Vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina con il potere, è un vantaggio da non perdere. È un ‘vantaggio’ che può sembrare svantaggioso e perdente, e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo. Diceva san Giovanni Crisostomo: ‘Cristo pasce agnelli, non lupi’. Se ci faremo agnelli vinceremo, se diventeremo lupi perderemo. Non è facile, come non è facile la croce di Cristo, sempre tentata dal fascino della spada’ Ci sarà chi voglia essere presente in questo mondo mediorientale semplicemente come cristiano, sale nella minestra, lievito nella pasta, luce nella stanza, finestra tra muri innalzati, ponte tra rive opposte, offerta di riconciliazione?’. Sono parole che non dobbiamo smarrire. Soprattutto in quest’ora dobbiamo raccoglierle e conservarle perché bagnate dal suo sangue, dalla sua testimonianza martiriale. L’eco straordinaria che ha avuto la sua morte ha mostrato il bisogno che tutti abbiamo di parole come queste, di una sensibilità come questa. In esse c’è l’eco di tutto il Vangelo. E la sua vita è stata riassunta dalla sua morte martiriale. Era in preghiera, con la Bibbia aperta tra le mani, mentre venne colpito. È l’icona che don Andrea, o meglio che il Signore lascia a ciascuno di noi, che lascia alla Chiesa diocesana di Roma e che resta come un dono preziosissimo a questa terra che resta crocevia di culture, di civiltà, di fedi. La morte di don Andrea è una di quelle testimonianze che scende nel profondo della storia e la muove verso il regno di pace, di giustizia e di amore che ha mosso i suoi primi passi proprio di qui, da questa terra e che ha irrorato le innumerevoli strade di questo nostro mondo.
“Diede la vita per amore”
Omelia in ricordo di don Andrea Santoro, ucciso in Turchia due anni fa, tenuta nel luogo stesso del martirio da mons. Vincenzo Paglia
AUTORE:
' Vincenzo Paglia