I danni della malapolitica

Il moltiplicarsi di inchieste che riguardano episodi di corruzione politica fa emergere un quadro inquietante, tanto più nell’imminenza di importanti appuntamenti elettorali. Naturalmente vale per tutti la presunzione d’innocenza, e il profilo strettamente penale di queste vicende si definirà soltanto al termine dei procedimenti in corso. Da un certo punto di vista si potrebbe perfino rilevare un risvolto positivo di tali inchieste, in quanto dimostrazione di un’intrinseca capacità di reazione del sistema a livello giudiziario. Ma la sensazione è che, se gli episodi su cui si indaga sono così numerosi, i comportamenti illeciti abbiano una diffusione ben più ampia di quella che sta venendo alla luce.

Certo, bisogna evitare di cadere in semplicistiche generalizzazioni, che paradossalmente finiscono per annacquare le responsabilità personali e colpire i tanti amministratori onesti che pure ci sono e – ci ostiniamo convintamente a pensarlo – sono la maggioranza. Tuttavia, quando si attivano massicciamente gli anticorpi, vuol dire che c’è un’infezione in atto.

Purtroppo gli elementi già riferiti dalle cronache autorizzano a pensare che in molte situazioni ci si trovi di fronte a violazioni non marginali del Codice penale. Ma anche se in alcuni casi non si arrivasse all’accertamento di reati (il che, ovviamente, farebbe una grande differenza sul piano processuale), il senso complessivo del discorso non cambierebbe di molto: il malcostume nella gestione della cosa pubblica è di per sé un fenomeno in grado di ferire gravemente la vita democratica. Perché di questo si tratta.

L’antipolitica ha radici molteplici, ma non c’è dubbio che tra le sue cause corruzione e malcostume abbiano un posto di primo piano. Con un’incidenza doppiamente nefasta: da un lato hanno svilito il significato stesso del fare politica, riducendolo a pratica affaristica e di potere autoreferenziale; dall’altro hanno alimentato quella disaffezione, quell’affievolimento della tensione morale e quel senso di rassegnazione (di cui l’astensionismo è la manifestazione più macroscopica, ma non l’unica) in cui i comportamenti negativi trovano spazio per svilupparsi più agevolmente.

La malapolitica non può essere combattuta soltanto sul piano repressivo, come peraltro si continua a fare doverosamente, anche se non mancano i tentativi di delegittimare questa azione. Il suo contrasto richiede un recupero forte della partecipazione, che è impulso costruttivo rispetto al bene comune e anche forma efficace di controllo sociale, soprattutto preventivo.

La partecipazione, però, non può essere ridotta al momento elettorale, che pure è essenziale e decisivo. E non dipende principalmente dai meccanismi istituzionali, la cui importanza nessuno intende ovviamente sottovalutare. Resta il fatto che a livello regionale e locale – quello a cui si riferiscono principalmente le inchieste, non solo in questa fase – sono vigenti da molti anni sistemi che prevedono l’elezione diretta dei vertici.

Un assetto che ha fatto emergere leadership significative ma non è stato di per sé capace di far crescere la partecipazione né di garantire una migliore selezione della classe dirigente. La verticalizzazione del potere è una tendenza irreversibile della politica moderna, ma senza adeguati bilanciamenti, e soprattutto senza il concorso dei cittadini e delle loro formazioni sociali, rischia di produrre più danni che benefici.

di Stefano De Martis

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