L’affermazione carica di passione di don Angelo Maria Fanucci, che ho voluto a titolo di questo mio intervento, è nella sua introduzione alla seconda edizione del manoscritto del secolo XII della Vita di S. Ubaldo scritta dall’amico Giordano, ritrovato e criticamente curato dall’accademico francese, Francois Dolbeau, nella Biblioteca Universitaria di Bologna nel 1977. L’affermazione, che parrebbe ingenuamente entusiasta e anche partigiana, è, invece, quanto tutta la documentazione che abbiamo attestata delle festa dei Ceri, al di là di tutte le ipotesi sulle possibili loro origini e parentele. A cominciare da quanto ci è detto dal capitolo sesto o “Liber extraordinariorum” dello Statuto vecchio del Comune di Gubbio del 1338. Vale la pena di trascrivere per esteso la sesta rubrica, che sarebbe poi interessante fissare a memoria. “A onore del beato Ubaldo stabiliamo che ciascuna università del Comune la quale conti 25 famiglie, nella vigilia della festa di S. Ubaldo mandi il suo sindaco con un cero alla stessa chiesa (di S.Ubaldo), del peso di tre libbre di cera; quelle inferiori a 25 famiglie portino un cero di due libbre dividendone la spesa per rata e con questi ceri accesi i sindaci di ciascuna villa ed università della città di Gubbio. E ciò si faccia la sera della vigilia nel campo del mercato e ciascun operaio delle singole arti con i loro capitani si trovino nel campo del mercato prima di salire al monte e partino dal detto campo e vadano giubilanti e lieti (iubilantes et gaudentes) per le piazze della città e ciascuno porti i ceri accesi in mano fino alla chiesa del Beato Ubaldo. E l’arte degli scalpellini, degli asinai e dei commercianti con le loro arti affini facciano i Ceri grandi portandoli alla detta chiesa e lasciandoveli come è stato fino ad ora (ut hactenus consuetum est). Quegli poi che appartenesse a diverse arti porti e vada col cero dell’arte con la quale ha più lavorato…Si aggiunge che i collegi dei giudici e dei notai, dei medici e degli speziali nonché dei mercanti, i cavalieri e tutti i nobili di Gubbio siano tenuti ad andare la mattina della festa predetta con doppieri accesi insieme con i signori Podestà, Capitano, Gonfaloniere e Consoli del popolo al monte predetto…”. Si tratta di deliberazioni dell’autorità comunale con cui si disciplinano “ad reverentiam Beati Ubaldi” (in onore di sant’Ubaldo) le luminarie che in suo onore si tenevano già la vigilia e il giorno della festa: 15 e 16 maggio. Che non si tratti di una innovazione è chiaro dal momento che si codifica quanto fino allora si faceva: “ut hactenus consuetum est”. Il tipo di tali onoranze si lega strettamente al culto popolare del Patrono come si espresse subito dopo la morte del Santo, consistente in festosi e gioiosi pellegrinaggi con candele accese (luminarie), come riferiscono le due Vite di Sant’Ubaldo scritte dai contemporanei Giordano e Teobaldo. Dalle quali si desume anche che il culto spontaneo del popolo eugubino precedette il culto ufficiale della Chiesa, anche se il testo delle due prime vite era già entrato nei lezionari monastici e canonicali prima della canonizzazione, come è attestato dal fatto che proprio negli antichi lezionari del secolo XII sono state ritrovate. E come non vedere una continuità nella forma gioiosamente entusiasta delle onoranze in quel “vadant jubilantes et gaudentes per plateas civitatis” con quanto Papa Celestino III aveva notato e accolto nella bolla di canonizzazione con il non rituale avverbio “hilariter” (allegramente). Successive deliberazioni dell’autorità comunale apportano aggiunte e correzioni allo statuto del 1338, ma senza alterarlo sostanzialmente. Si sviluppa nel tempo la forma delle macchine lignee di sostegno e trasporto dei tre Ceri grandi, in cima ai quali, al posto del grande cero da offrire a sant’Ubaldo furono issate le statuette dei tre patroni delle tre Università: sant’Ubaldo, san Giorgio, sant’Antonio Abate. Ciò è da collegarsi alla più radicale riorganizzazione della festa che si ebbe a cominciare dai decreti del vescovo Mariano Savelli (1561-1599) il quale, dopo aver partecipato al Concilio di Trento intraprese decisamente l’azione di riforma della diocesi, che trovò “in molti disordini”, dopo cento anni di disastroso abbandono da parte dei vescovi, fatte poche eccezioni. A rianimare la devozione a sant’Ubaldo, nello spirito dell’autentica fede cattolica, egli introdusse la sera della vigilia della festa, il 15 maggio, una solenne processione religiosa con il quadro di sant’Ubaldo. Il nuovo Statuto del 1624 ha canonizzato le innovazioni. A causa dell’importanza data alla Processione venivano accorpate le due luminarie della vigilia e della festa in un’unica manifestazione la mattina del 16 maggio. Solo dopo la Processione della vigilia, le tre arti dei pietraioli, dei merciai e dei contadini trasportavano con tre pesantissime macchine lignee i tre grandi ceri, finchè in seguito, alleggerite le macchine e sostituiti i ceri di cera in cima alle macchine con le statue dei Santi protettori delle tre arti, il pellegrinaggio dell’offerta della cera si trasforma in una processione di corsa. L’occupazione francese non riuscì ad abolire la festa dei Ceri per l’opposizione tenace della città ma certamente ne cominciò a contaminare lo spirito devozionale con accentuazioni laicistiche che furono di fatto rimarcate nello spirito antipapalino che caratterizzò gli avvenimenti risorgimentali fino all’ingresso di Gubbio nel Regno Unito d’Italia e nella Regione Umbria, il che è attestato dalle vicende che contrassegnarono gli episcopati di Sannibale e di Lazzarelli in particolare. Grande fu peraltro l’impegno della Chiesa eugubina nel ‘900 per purificare il culto popolare di sant’Ubaldo a cominciare dal vescovo Nasalli Rocca per continuare con i suoi successori fino ad oggi. Ne rimane meno raggiunta la Festa dei Ceri nel clima culturale della secolarizzazione in cui gli aspetti vitalistici, che pure fanno parte della natura spontanea e popolare della Festa, tendono a far dimenticare e quindi a contraddire lo spirito originale. Che, mi pare, potrebbe trovare un aiuto a riemergere, anche da una operazione culturale condotta seriamente in collaborazione “da chi è investito del dovere di garantire che la festa si svolga nel rispetto dei valori che ne costituiscono l’anima più vera e profonda”. Potenzialità non mancano come si può desumere da iniziative valide quali la pubblicazione in lingua italiana e francese dell’importante lavoro critico di Dolbeau sulla Vita di sant’Ubaldo di Giordano, e il parallelo lavoro critico che si sta preparando sulla seconda fonte, quella di Teobaldo; l’ottimo lavoro di Mario Belardi su “I Ceri di Gubbio: storia millenaria ed evoluzione moderna della festa”; l’avviata sistemazione delle Memorie Ubaldiane presso la Basilica di Sant’Ubaldo da parte di una Commissione istituita dall’Amministrazione comunale; l’auspicata ripresa dei lavori del Centro Studi Ubaldiani da parte della diocesi, ecc. Tutte iniziative (ce ne sono anche altre) che non tendono a soffocare l’originalità della Festa ma ad arricchire di contenuti veri la straripante emotività.
“Da sant’Ubaldo in poi, i Ceri sono eugubini, e basta!”
Un intervento del vescovo di Gubbio, mons. Pietro Bottaccioli, sulle origini della Festa dei Ceri
AUTORE:
' Pietro Bottaccioli