È difficile parlare di Dio, perché per noi resta un mistero. Gesù, quando ce ne parla, lo chiama Padre per farci capire che la sua natura è l’amore, la sua funzione è quella di donare la vita. Lo chiama Signore, per indicare la sua sovranità sul mondo e sulla storia, come creatore e padrone del mondo. Davanti a Lui noi siamo piccole creature, totalmente dipendenti dalla sua cura amorosa. Questi sono termini e paragoni umani che ci danno appena un’idea di ciò che Dio è veramente. Resta il “mistero” una parola derivata dalla lingua greca e che alla base ha il termine muein che significa “fare silenzio”. Davanti a Dio la nostra parola tace perché non adatta a dirlo e a contenerlo interamente. Se presumesse di farlo, scoppierebbe o diventerebbe ridicola. Il mondo dove Dio abita è del tutto diverso dal nostro; noi siamo come ciechi che non riescono a immaginare o descrivere il mondo in cui pure sono immersi; siamo come sordi che non sanno gustare le armonie di un concerto perché manca loro la capacità di sentire. È del tutto vano descrivere ai ciechi i colori che non vedono e ai sordi i suoni che non odono.
Gesù, nel rivelarci il mistero di Dio nel quale viveva, aveva solo pochi poveri concetti umani, e quelli ha usato. Non ha mai adoperato il termine “Trinità”, perché era troppo astratto per i suoi ascoltatori, abituati al linguaggio concreto di ogni giorno. Avrebbero capito che Dio era un numero da contare fino a tre, una cifra che moltiplicava la sua natura, e questo contraddiceva la loro fede in un solo Dio. In realtà, quella di Dio è una matematica nuova in cui tre è uguale a uno, perché non indica divisione, ma solo unità ricca e varia. La formula più completa usata da Gesù e da Paolo è quella concreta di “Dio Padre, Figlio e Spirito santo”. Dio unico in tre persone, un famiglia dove il Padre genera un Figlio e ambedue si amano con un amore che li unisce così forte che diventa una terza Persona, lo Spirito santo. La Trinità è divenuta una formula di fede con la quale noi cominciamo e finiamo ogni nostra preghiera, ed esprimiamo nel segno di croce che ci facciamo spesso. È una professione di fede riassuntiva di tutta la rivelazione evangelica su Dio. Gesù risorto la usa nel Vangelo di oggi a conclusione delle sue apparizioni, come a riassumere l’intero suo insegnamento: “Fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”.
Non ci ha rivelato questo mistero per mettere in difficoltà il nostro modo di ragionare, ma per farci capire ciò che Dio è per noi. Non un Dio solitario e lontano, ma un Dio vicino, un Padre che ci dona il Figlio inviandolo nel mondo a morire per noi e a risorgere il terzo giorno; e con il Figlio ci manda il suo Spirito per comunicarci la sua stessa vita divina. Il Figlio e lo Spirito sono come le due mani che Dio protende verso di noi per un abbraccio d’amore senza limiti. San Paolo descrive questo abbraccio divino nel saluto ai cristiani di Corinto, lo stesso che noi usiamo all’inizio della messa: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito santo siano con tutti voi” (2 Cor 13,13). Contemporaneamente, l’unicità del nostro Dio è espressa dallo stesso apostolo così: “Un solo Dio padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Gal 4,6).
Il Vangelo di oggi ci porta in Galilea, sopra un monte dove Gesù ha dato appuntamento ai suoi apostoli. Quella montagna richiama spontaneamente alla mente il monte delle Beatitudini, dove Gesù rivelò il cuore del suo insegnamento, e il monte Tabor, dove Gesù manifestò il suo splendore di Figlio di Dio anticipando la gloria della sua risurrezione. Nell’apparizione oggi descritta, che certamente non fu l’unica in Galilea (Mc 16,7), sembra voler richiamare, come in una panoramica dall’alto, l’insegnamento che aveva impartito loro in quella sua terra. È una specie di ripasso, prima della definitiva missione nel mondo. Poi Gesù traccia una chiara linea di continuità tra l’insegnamento suo e quello degli apostoli inviati dopo di lui. L’incontro ha tutta la solennità e l’autorevolezza di un mandato divino: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate, dunque…”.
I discepoli sono affascinati come sul Tabor e reagiscono prostrandosi davanti a lui con la faccia a terra (Mt 17,6). Nello stesso tempo però in alcuni di loro si affaccia il dubbio. Avevano conosciuto e seguito per quelle strade un Gesù uomo tanto diverso, lo avevano visto morire; ora se lo trovano risorto e trasfigurato dalla gloria divina. Era spontaneo domandarsi se fosse proprio lui, quello di una volta. Gli apostoli sono uomini come noi e come noi conservano sempre, anche nel pieno della fede, un angolo dal quale fa capolino ogni tanto il dubbio. È così umano! Il discorso fatto da Gesù è diviso in tre parti: all’inizio c’è la descrizione della sua potenza divina su tutto il mondo, cielo e terra; segue poi la missione degli Undici; infine è espressa la garanzia della permanente presenza e assistenza di Gesù nella Chiesa di tutti i tempi. L’incarico affidato alla Chiesa è formulato con quattro verbi: “andate, fate discepoli, battezzate, insegnate”.
Tutto deriva dal potere che il Figlio ha ricevuto dal Padre al momento della risurrezione. La sera di Pasqua, nel cenacolo, Gesù aveva detto: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). Tutto viene dal Padre e passa attraverso il Figlio e lo Spirito santo. La missione ha ormai per confini il mondo, non è più limitata alla Galilea come una volta (Mt 10,5). Essi ormai devono edificare la comunità facendo discepoli tutti i popoli. Questa aggregazione universale avviene mediante il battesimo, che è la porta d’ingresso da cui tutti devono transitare. È un battesimo dato “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”, una formula in uso nell’antica chiesa di Palestina e di Siria, come ci attesta la Didachè, un manuale liturgico diffuso già al tempo apostolico nell’anno 90 circa, che dice:”Battezzate così: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo” (Did. 7,3).
“Battezzare nel nome” è indicazione di appartenenza: i credenti appartengono ormai a Dio, sono sua gelosa proprietà. Ma la formula indica anche la comunione intima nella quale entra il battezzato: diventa membro della famiglia di Dio Padre, Figlio e Spirito. Avviene nel battesimo cristiano ciò che avvenne al Giordano (Mt 3,16s). Anche là le tre Persone divine erano unite e presenti. Così il credente diventa tempio della Trinità santissima, casa del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Per questo, al termine del suo discorso Gesù garantisce la sua presenza nella Chiesa e in ciascuno di noi per sempre. Dato poi che le tre Persone divine sono indivisibili, con Gesù è presente il Padre e lo Spirito. È la certezza più consolante che la festa odierna ci dona.