Custodire l’umanità. Le conclusioni dell’arcivescovo Bassetti

Mons. Gualtiero Bassetti
Mons. Gualtiero Bassetti

Carissimi,

il mio intervento sarà soltanto un breve intervento conclusivo. Il mio compito, questa sera, si limiterà soltanto a tirare le fila di questi due giorni di riflessione che non esito a definire straordinari e sorprendenti: sia per la qualità degli interventi, che per la grande risonanza di pubblico che ha avuto questo incontro.

Per questo motivo non posso che iniziare ringraziando calorosamente tutti i relatori che hanno risposto con gioia a questo invito e che sono intervenuti su questo palco.

Non posso non ringraziare, inoltre, il pubblico numerosissimo che è venuto qui ad Assisi anche da fuori regione – dalla Lombardia, dal Friuli, dalla Toscana, persino dalla Sicilia! – e che ha dimostrato, in questa due giorni, un’attenzione costante: ho notato che moltissimi scrivevano prendendo appunti e sono tantissimi coloro che ci hanno già richiesto gli atti.

Voglio ringraziare, infine, tutte le associazioni e le realtà ecclesiali della regione che hanno aderito con entusiasmo a questa iniziativa. Un’iniziativa complessa e molto impegnativa che è stata realizzata soprattutto grazie allo sforzo progettuale di alcuni giovani intellettuali supportati, con grandissima partecipazione e competenza, da un gruppo di giovanissimi volontari, per lo più studenti, che hanno dato tutto se stessi per il successo di questa iniziativa.

E ringrazio, infine, non certo ultimo per importanza, il Signore che ha permesso tutto questo. Che ha fatto sì che, attraverso percorsi inattesi e inesplorati, per due giorni, qui ad Assisi, alcuni tra i più importanti intellettuali laici e cattolici del nostro Paese, e non solo, si incontrassero e dialogassero intorno alle parole di papa Francesco: “Custodire l’umanità. Verso le periferie esistenziali”.

Questo convegno, lo voglio dire subito a scanso di equivoci, non nasce dalla volontà di voler costruire una “società nuova” in cui si possano udire malcelate tentazioni neoguelfe. E soprattutto non nasconde nessuna pretesa di ingegneria sociale. Questo incontro è, invece, il frutto di un’assunzione di responsabilità da parte di quanti hanno la piena consapevolezza di vivere all’interno di un eccezionale e delicatissimo periodo di transizione storica. Oggi, stiamo vivendo un momento di passaggio epocale, caratterizzato da profondi mutamenti culturali, geopolitici ed economici che, velocemente e bruscamente, stanno ridisegnando la geografia morale e culturale del mondo in cui viviamo.

Molti degli interventi di questi giorni sono partiti proprio da questo assunto di fondo.

La grande narrazione del tempo presente è caratterizzata dal paradigma della “crisi economica” a cui si aggiunge quello dell’agonia e del “declino” del mondo occidentale. Un declino, secondo alcuni ineluttabile, i cui effetti sarebbero sotto gli occhi di tutti: il rallentamento della crescita economica e l’aumento dei debiti pubblici degli Stati si legano, inesorabilmente, con l’invecchiamento progressivo della popolazione e con l’aumento di comportamenti antisociali. Il magistero della Chiesa cattolica ormai da anni insiste, giustamente, nel ritenere che alla base di questa lancinante crisi economica si colloca una profonda crisi morale dell’uomo moderno.

Una “crisi etica”, “di fede” e, in definitiva, della “mancanza di significato e di valori”. È la crisi “dell’uomo che cerca di esistere solo positivisticamente, nel calcolabile nel misurabile” e che “alla fine rimane soffocato”. È la crisi dell’uomo moderno che ha cercato di farsi Dio di se stesso negando ogni forma di trascendente e rimanendo, alla fine, senza Dio e senza una prospettiva futura che non sia riassumibile nel godimento, qui e ora, dei beni materiali che il Mondo gli presenta davanti. È la crisi dell’uomo moderno, infine, che vive in un indefinito e opprimente presente, con sempre meno consapevolezza del proprio passato e della propria storia e, di conseguenza, con sempre meno capacità di proiettarsi nel futuro.

Questa scarsa consapevolezza del passato sta portando la nostra società a vivere, ormai, in una sorta di presente totalizzante e pervasivo. Un presente asfissiante che sta, di fatto, delineando una sorta di “società orizzontale” in cui si riverbera, sempre più, non solo l’assenza di una verticalità delle dimensioni interpersonali – in cui le funzioni e i ruoli, a partire da quello del padre e della madre vengono sempre più messi in discussione – ma, anche e soprattutto, la mancanza di un anelito a guardare in alto, verso il cielo, e nel profondo, nel proprio cuore.

Uno dei prodotti più eclatanti di questa condizione di sradicamento esistenziale, da cui deriva, in parte, questo stato di stagnazione sociale e di immobilismo gerontocratico, è la profonda incrinatura del “patto generazionale” che, da sempre, sta alla base della convivenza sociale. È la lacerazione di quello scambio fondativo tra le generazioni che è una condizione imprescindibile di sussistenza non solo per il cristianesimo ma, laicamente, per la stabilità della società.

Uno dei fattori più inquietanti, più preoccupanti e forse – lasciatemelo dire – anche più vergognosi di questa difficilissima crisi morale-economica è proprio questa rottura del patto tra le generazioni, tra i vecchi e i giovani, che di fatto sta scaricando dolorosamente il peso maggiore della crisi sui nostri figli e sui nostri nipoti. Nessuno di noi è immune da responsabilità. Ognuno di noi ha il dovere di domandarsi il perché di questa situazione.

I dati pubblicati ieri dall’Istat sul tasso di disoccupazione giovanile in Italia lasciano sgomenti: il 41% dei giovani non ha un lavoro. È il dato peggiore dal 1977 ad oggi.

Come non capire che dietro queste statistiche terribili si cela, non tanto e non solo una tecnicalità economica, ma un drammatico vuoto esistenziale, una funesta rottura antropologica nel rapporto di scambio tra genitori e figli?

Come capirete, si tratta, ovviamente, di un rapporto importantissimo, di un vincolo decisivo per il futuro dell’umanità. Un rapporto di reciprocità tra le generazioni, di scambio reciproco di esperienze e di opportunità, di diritti e di doveri che non può più essere quello attuale in cui ad una parte della società, quella adulta è stato garantito tutto – e forse anche di più – e ad una parte della società, quella giovane e femminile, non è stato garantito nulla, se non la precarietà della propria esistenza.

Questa consapevolezza della crisi morale-economica della nostra società non deve, però, in alcun modo, farci perdere la speranza e farci distogliere lo sguardo dalla bussola della nostra vita, che è sempre indubitabilmente Cristo.

Questo 2013 che ci stiamo lasciando alle spalle è stato, sotto molti punti di vista, un anno importantissimo e che ha mostrato al Mondo – lasciatemelo dire – l’irruzione potente e salvifica dell’azione dello Spirito santo nella vita degli uomini. Quando nel febbraio di quest’anno papa Benedetto XVI ha rassegnato le sue dimissioni, ha compiuto un gesto il cui significato è così grande che oggi, forse, noi riusciamo solo a sfiorarne i contenuti più importanti.

Lo voglio dire a bassa voce, senza particolare enfasi, ma in modo chiaro e netto: Benedetto XVI è salito sulla croce, spogliandosi di tutto se stesso e, ispirato dallo Spirito Santo, ha impresso una svolta epocale nella storia dell’umanità.

Quel gesto ha mosso la storia. Ed è stato un gesto di cui non si può non sottolineare l’umiltà, la libertà e la fede profondissima. Un gesto a cui noi oggi guardiamo con ammirazione, devozione e gratitudine. (e che forse merita un applauso?)

Un gesto, dicevo, che ha mosso la storia, che ha aperto strade nuove e inaspettate come l’arrivo di un nuovo pontefice “preso dalla fine del mondo” e che, tra le moltissime novità che si potrebbero sottolineare, ha preso, per primo, il nome del poverello d’Assisi, San Francesco.

Questo tempo, dunque, non è soltanto un tempo segnato dalla crisi economica, ma è indubbiamente un tempo favorevole, è un kairòs, un tempo nel quale accogliere la grazia di Dio. Un tempo che va compreso e che non va demonizzato. Sia per i credenti che per i non credenti. Per la Chiesa questo tempo è, indiscutibilmente, il tempo dell’annuncio. Un annuncio autentico e vigoroso della bellezza del Vangelo. Un Vangelo annunciato ai malati e ai bambini, ai poveri e alle famiglie. Un Vangelo annunciato, prima di tutto, agli ultimi. Una Chiesa che non annuncia il Vangelo è una Chiesa ritirata nelle stanze vuote di una mondanità spirituale che non produce frutto. Una Chiesa che evangelizza è, invece, prima di tutto una chiesa di popolo. E in questi due giorni, forse, abbiamo visto e toccato con mano questo popolo.

In questo particolare crinale della storia, dunque, la recente pubblicazione dell’esortazione apostolica post-sinodale Evangelii Gaudium assume un’importanza fondamentale. Un’importanza che si potrebbe sintetizzare attraverso un binomio che sta alla base di questo testo: l’evangelizzazione e la chiesa missionaria. È ora e adesso – in un contesto sociale segnato da una stagnazione paralizzante e da un immobilismo angoscioso – che infatti il Vescovo di Roma, in totale controtendenza, sta incitando con forza tutti gli uomini a mettersi in movimento, ad andare, ad uscire. Con una dinamicità che è un richiamo gioioso e non soffocante, rivolto prima di tutto alla Chiesa.

Una chiesa che per sua natura, dunque, non può non essere missionaria e che, soprattutto, deve avere “le porte aperte” per “uscire verso gli altri” e “giungere alle periferie umane”. Verso quelle periferie dell’esistenza, in cui le povertà materiali si assommano alle povertà relazionali, e verso quei luoghi dell’anima dove ogni persona sperimenta la gioia e la sofferenza del vivere, nella speranza che l’umano, di fronte all’ascesa quasi inarrestabile della tecnica, ritorni al centro della riflessione e della convivenza sociale.

Proprio per questo, nella sua Esortazione Papa Francesco c’invita ad aprire il cuore e la mente al grido di dolore, d’invocazione e talvolta persino di sconforto sconfinante nella disperazione che – muto o articolato – sale dai tanti, dai troppi, nostre sorelle e nostri fratelli che sono relegati brutalmente o con indifferenza nel “rovescio della storia” – nel buio, nel fango, nella palude della sofferenza, dell’ingiustizia, della povertà, del non-senso.

In Gesù Cristo, l’amore di Dio fa nuovo l’uomo perché Lui, Gesù, fa suo il grido, ogni grido, dell’umanità per rispondervi con la forza e la luce della vita che vince la morte, della libertà che vince ogni forma di schiavitù, della misericordia che vince l’offesa, della giustizia che sana il conflitto, della pace che estingue l’odio e la guerra.

La Chiesa altro non è che il piccolo gregge, il popolo viandante lungo i sentieri del tempo, nella compagnia con gli uomini e le donne fratelli e sorelle, votato non al proprio tornaconto, non all’acquisizione di qualsivoglia posto di prestigio, di rendita, di potere: ma al servizio della promozione di tutto l’uomo e di ogni uomo, con sguardo di amore preferenziale rivolto a chi abita le “periferie esistenziali” del mondo moderno.

La Chiesa, dunque, deve essere discepola di Gesù e null’altro: solo così serve l’uomo. E convertendosi sempre di nuovo a Lui, personalmente e comunitariamente, spiritualmente e pastoralmente, può gettare a piene mani il sale della verità e il lievito della fraternità in ogni angolo della nostra società. In questo cantiere vasto, magnifico e drammatico che è la vita, come discepoli di Gesù, non possiamo e non vogliamo essere spettatori ma protagonisti, fianco a fianco, con sincerità e condivisione, con tutti coloro che credono che l’ultima parola è quella dell’amore. E vivono per questo.