di Angelo M. Fanucci
Il punto di partenza è riconoscere le differenze come rivelazione di Dio, questa, secondo il preposto dei Gesuiti, è la premessa necessaria per relazionarsi con quel mondo davanti al quale Dio ci ha collocati per lavorare alla crescita del Regno. Una posizione che lascia sconcertati tutti coloro che non hanno ancora introiettato uno dei punti chiave del Concilio ecumenico Vaticano II, e ragionano ancora con gli strumenti che ci ha messo a disposizione il Concilio di Trento. Nelle lettera settimanale che la mia associazione, il Gibbo, spedisce da poco meno di dieci anni, mi sono arrabattato a seguire passo passo il cammino che le fede della Chiesa ha percorso per acquisire quel principio del primato della coscienza che, a partire dal Rinascimento, le chiedeva la cultura laica, quella schietta, quella che è davvero in ricerca, e non rifiuta di acquisire nuove verità anche se non è stata lei a farle proprie. È stato un cammino lungo e difficile, dal Sillabo di Pio IX (1864) alla Gaudium et spes del Vaticano II. Un cammino le cui luminose conclusioni teoriche, proprio perché esso è costato tanta fatica, non sono digeribili come acqua di sorgente, e tanto meno assimilabili, capaci di inserirsi tra le categorie che noi credenti medio/mediocri abitualmente utilizziamo per conoscere la verità.
La differenza come rivelazione di Dio. Dio non crea rapporti standard; non fa le cose in serie; la sua misericordia si rivela come infinita, ed è letteralmente infinita. Soprattutto nel fatto che Egli, fin da quando decide di vararla “ne lo gran mar dell’essere”, con ogni sua creatura instaura un rapporto assolutamente unico, originale, irrepetibile, dotandola di una fisionomia che è sua e solo sua. E io, Chiesa del Dio di Gesù, nel momento in cui incontro questa creatura, devo essere cosciente di non trovarmi di fronte a una tabula rasa,ma a un soggetto che già vive in osmosi con Dio.
Come dicevano i teologi medievali, Dio crea in quanto comunica alla sua creatura l’ unum, il verum e il bonum: la forte coesione che la tiene insieme e la spinta altrettanto forte ad aprirsi alla verità che le viene da fuori e alla donazione che la fa uscire da sé.
Papa Francesco, quando incontra uno shintoista, o un confuciano, o un animista, ecc., non gli dice quello che gli direbbe sant’Agostino (“convertiti, ricevi il battesimo e salvati l’anima; e se in giro non c’è nemmeno una goccia d’acqua… mi dispiace per te”), ma coglie quello che Dio, creandolo, ha deposto in lui.
Certo, così il proselitismo ha fatto un passo indietro rispetto al riconoscimento delle differenze come rivelazione di Dio. È stata una scelta sbagliata? No, era la scelta che i tempi chiedevano – i tempi di Dio, cioè la maturazione degli approcci culturali. La scelta giusta.
E chissà che avrà provato Eugenio Scalfari, quando s’è reso conto che i decenni di militanza laica, con i quali pensava d’avere colpito al cuore la Chiesa, ne avevano preso a calci la buccia!