Immaginate l’Amazzonia. Un fiume – Rio Solimoes – che si riversa nel Rio delle Amazzoni. Una città lungo il fiume che porta il nome del luogo dove Cristo è nato. Un popolo indigeno – i Ticuna – che la abitano non so da quando. E avrete Belem do Solimoes. L’ho visitata nel corso del viaggio missionario che mi ha portato, con una delegazione diocesana, in quelle lontane terre. Ci siamo arrivati dopo una navigazione fortunosa. La paura è stata subito lenita dal sorriso dei Ticuna. Ho imparato al volo qualche loro parola. L’ho usata all’inizio della messa ed è scrosciato un applauso, in un crescendo di simpatia. La liturgia, poi, tutta una festa, tra canti gioiosi, mani battute, movimenti danzati. L’indomani, il previsto incontro con la comunità, in una “sala” coperta da una tettoia di foglie artisticamente intrecciate. Il rappresentante – in un portoghese un po’ stentato a noi tradotto da fra’ Paolo, il cappuccino alla nostra guida – ci ha parlato con orgoglio della cultura ticuna. Il bello, per me, stava per arrivare. Fra’ Paolo ci ha avvertiti che i Ticuna riservano agli ospiti di riguardo un gesto di amicizia che non è educato rifiutare. Detto, fatto: in un batter d’occhio, due mature signore si impossessano del mio viso come fosse una tela di pittore, e cominciano a disegnare, con un liquido oscuro, qualcosa che mi fa pensare a baffi e ghirigori. Nelle intenzioni delle pittrici, dovevo evocare una pantera. Entravo così vistosamente nel mondo ticuna. Sono stato al gioco, tanto più che non potevo guardarmi allo specchio (hanno pensato gli amici a fotografare il tutto). Pensavo fosse un pittura leggera, i cui segni sarebbero scomparsi alla prima sciacquata di viso. Il panico mi ha preso quando mi è stato detto che quel “capolavoro” sarebbe sì andato via, ma molto lentamente.
Non giorni, ma settimane. Lascio immaginare. Ho temuto l’imbarazzante impatto con l’Italia, di ritorno con una faccia così conciata. Tra il serio e il faceto – cercavamo di incoraggiarci a vicenda tra membri del gruppo sottoposti allo stesso rituale – ho cominciato a meditare. Un modo di esorcizzare la tensione. Ho pensato alla bellezza del paesaggio – il “polmone della Terra” – in quell’equilibrio ambientale e umano che noi facciamo tanta fatica a conservare. Mi è venuto in mente Papa Francesco, con il suo incalzante invito ad uscire dalle nostre nicchie paludate, per andare verso le periferie – e qui eravamo ai confini del mondo – magari con il rischio, parola di Papa, di qualche “incidente”. Ho cominciato a riflettere sull’inculturazione dell’annuncio cristiano: oggi i missionari, prendendo le distanze da qualche errore del passato, la fanno con cura. Ho pensato infine – e il pensiero mi ha dato vero sollievo – che a “incidenti” di questo tipo si è esposto il Figlio di Dio, quando è venuto alla luce a Betlemme, caricandosi dei “tatuaggi” (non tutti artistici) della nostra umanità. Fino alla “inculturazione” della sua morte nel paradossale convergere di autorità ebraiche e potere romano. Dal Golgota si apre l’abbraccio universale che arriva fino ai i Ticuna dell’Amazzonia, ma, prima ancora, deve esprimersi nella nostra capacità di accostarci con amore alle molteplici “diversità” quotidianamente alla nostra portata, in una situazione storica che ormai rende i “diversi”, immigrati e non, tanto vicini. È l’ora, per dirla ancora con Papa Francesco, di una “cultura dell’incontro”, importante almeno quanto l’ossigeno e il verde della foresta amazzonica.
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Ulteriori informazioni sul sito della Diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino