L’hanno definita la terza fase della crisi economica che attanaglia il mondo da quando scoppiò la bolla immobiliare a Wall Street, sei anni fa. Dopo appunto il tracollo americano, in buona parte già assorbito, e la crisi dell’euro, i cui riflessi si fanno ancora sentire qui in Europa, sta arrivando l’onda (pesante) dei problemi che stanno attraversando alcune delle economie cosiddette “emergenti”: Brasile, Turchia e India in primis. E in un mondo globalizzato, i problemi di Rio de Janeiro e Ankara sono pure problemi per noi.
La miccia l’ha innescata l’Argentina, un Paese che si era risollevato dal crack del 2001, ma è stato gestito politicamente ed economicamente così male che le condizioni per un nuovo default ci sono ormai tutte. E l’Argentina è pure un mercato di esportazioni per le merci brasiliane, il potente vicino di casa che non corre più come un tempo, quando con i Brics (Cina, India e Sudafrica) trainava il mondo.
Ma la miccia argentina s’innesca su una bomba costruita, come sempre, da certe economie occidentali, Usa in primis, che in questi sei anni hanno inondato il mondo di carta moneta stampata per colmare i propri debiti pubblici e rianimare le (loro) economie. Una valanga di soldi dati a costo zero, e da allora impiegati un po’ ovunque alla ricerca di rendimenti: dal rand sudafricano alla lira turca, dalla Borsa di Shanghai all’immobiliare di Mumbai. Ma da qualche settimana è partita la manovra inversa, sempre dalla Fed americana: l’eccesso di liquidità va riassorbito, il credito facile sarà meno facile.
Ecco quindi che i soldi scappano dagli scenari più incerti (Turchia), fragili (India), gonfiati. Meglio rifugiarsi nei titoli in euro (compresi i Bot italiani, mai così bassi nei rendimenti), facendo sprofondare più di un Paese emergente, costretto a svalutare pesantemente la propria moneta per cercare di attrarre capitali in fuga.
Si dirà, cinicamente: dopo qualche anno di vacche grasse, tocca a loro sperimentare quelle magre… A parte il fatto che in molti casi le avevano sperimentate già nel passato, e pesantemente, le difficoltà di certe economie rischiano di essere le nostre (cioè dell’Italia) per due motivi.
Anzitutto l’Italia in questi sei anni è rimasta a galla per aver esportato a man bassa in mezzo mondo. Se pure certi mercati si raffreddano, c’è poco da stare allegri, visto che gli Usa non sono ancora fuori dalla crisi e l’Europa naviga a vista. E poi c’è una paura di fondo. I soldi sono “emotivi”, si muovono anche in base a timori, entusiasmi, panico. Se l’Occidente, pro domo sua, comincia a fare la gara ad attrarre queste colossali masse finanziarie, l’Italia può essere concorrenziale con Germania, Usa, Gran Bretagna o addirittura la Spagna?
No, perché i suoi titoli rendono poco (il “vantaggio” di avere uno spread basso) rispetto alle preoccupazioni che da troppo tempo gravano sul nostro sistema-Paese: debito pubblico spaventoso, economia che non si riprende, dirigenza politica inadeguata.
Quest’ultima non è una considerazione nostra né oggettiva: è quanto si pensa a Berlino così come tra i grandi investitori mondiali. Gente che ci misura con i numeri e i fatti, e vede i primi costantemente negativi e i secondi sostanzialmente assenti. Nel momento in cui ci considereranno più vicini all’Argentina che alla Germania, scapperanno – di nuovo – dai nostri titoli di Stato. Un film già visto nel 2011, con una trama da brivido.