di Daris Giancarlini
Il vocabolario dell’Enciclopedia Treccani definisce il rancore come “sentimento di odio, sdegno, risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato nell’animo”. Di recente il Censis, l’istituto che si occupa a scadenze fisse di ‘fotografare’ lo stato d’animo del Paese, ha reso noto che la ripresa economica, anche se stenta, in Italia è arrivata, ma che il sentimento prevalente è proprio quello del rancore. Una parola che non si legge di frequente, e neanche si sente pronunciare spesso. Quasi un termine desueto, forse più consono a descrivere un atteggiamento che riguarda rapporti fra poche persone, e non tendenze sociali. Invece la novità è proprio questa: che il rancore ormai è un tratto caratteriale della maggioranza di noi italiani . Basta avere a che fare con i cosiddetti social per rendersi conto che dietro le espressioni dilaganti di disprezzo del prossimo si può trovare soprattutto rancore; ma nei confronti di chi, o di che cosa? Il Censis una risposta la dà: si è fermato l’ascensore sociale, quel meccanismo che consentiva anche alle classi sociali meno fortunate di aspirare, e spesso di riuscire a conseguire, una posizione migliore. E quindi di guardare con fiducia al futuro. Se la foto dell’Italia scattata dal Censis è realistica, se è dunque il rancore a governare le esistenze di molti di noi, allora è perché non c’è speranza di futuro. Non c’è per i giovani che un avvenire lo devono costruire, non c’è per i 50enni espulsi dal mercato del lavoro, non c’è per chi aspira, e giustamente, a migliorare le condizioni della propria famiglia. Il vocabolario Treccani propone una frase per spiegare il significato di ‘rancore’: “Il suo sordo rancore, a lungo nascosto e frenato, esplose improvvisamente”. È a questo effetto di un tale stato d’animo generalizzato che dovrebbe pensare chi si occupa della cosa pubblica. Prima di alimentarlo, il rancore.