Palermo, una grande e nobile città, una capitale europea e mediterranea con una ricchissima storia, ha più volte offerto lo spettacolo di realtà e tendenze contrapposte, con avvenimenti tragici che hanno avuto un enorme peso sulla storia del nostro Paese. Dopo la tragica fine di Falcone e Borsellino, la città ha cominciato a sviluppare una lotta decisa e aperta alla mafia e a ogni forma di sopruso, sfacciata o coperta. In questi giorni è al centro delle cronache perché un suo illustre e stimato cittadino, che risponde al nome di Roberto Helg, 78 anni, presidente della Camera di commercio e vice presidente della società Gesap che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino, nonché cavaliere del lavoro, è stato rinchiuso in carcere perché trovato con le mani nel sacco. Ha preteso una mazzetta di 100 mila euro per favorire il rilascio di una concessione per un punto di ritrovo all’interno dell’areoporto di Palermo. Normale fattaccio di corruzione, si dirà. Ne avvengono tanti e ovunque, non solo a Palermo.
Sappiamo di Milano, di Roma e di tante altre realtà pubbliche e private. Il popolo italiano onesto sembra quasi rassegnato, limitandosi a passeggere indignazioni. D’altronde, che cosa potrebbe fare? Coltivare e incentivare la denuncia da parte non solo delle vittime dei soprusi, ma di tutti quelli che sanno che sono venuti a conoscenza di fatti delinquenziali? Promuovere la delazione, come accadeva nella Repubblica di Venezia dove era stata aperta nel palazzo ducale una buca in cui ogni cittadino poteva infilare lettere anonime di denuncia? Così si creerebbe una “politica del sospetto” di tutti contro tutti, e una grande, forse impossibile, fatica a discernere il vero dal falso. Ma nella vicenda di Roberto Helg la cosa che più sconvolge è che fino al giorno prima era considerato un paladino dell’onestà, un teorico della lotta contro la mafia e ogni altra forma di malaffare; era l’uomo che invitava le vittime a denunciare i loro aguzzini. I giornali hanno riportato abbondanti stralci di discorsi da lui pronunciati con enfasi e visibile partecipazione emotiva, dando l’idea di essere l’uomo più convinto e deciso nella strategia della moralizzazione della Sicilia e dell’intero Paese.
Ricordate quanto scritto nell’ultimo numero de La Voce? “Giù la maschera”. Ci siamo. Ma non basta. Dobbiamo purtroppo dire che, oltre ad avere una maschera, queste persone sono al buio dentro se stesse, persone “perse”, con una coscienza chiusa nella gabbia della menzogna, detta – prima che a chiunque altro – a se stessi. Il danno che provoca una vicenda come questa è la diffusione della sfiducia. Non c’è da credere più a nessuno e a niente, le parole sono gusci vuoti di sincerità e di verità. Un danno morale e psicologico che frena la crescita umana, soprattutto nei giovani, e quindi anche un danno sociale.
A questa storia voglio accostarne però un’altra, brevissima, che pochi conoscono ed è un paradigma della bontà e onestà sommersa che spesso solo il buon Dio conosce. Un giovane funzionario del Congo, in un posto di responabilità, avrebbe dovuto dare il via libera a una grande partita di riso avariato da immettere nel commercio. Si è rifiutato anche dopo promesse e minacce. Si chiama Floribert Bwana-Chui, aveva 21 anni; è stato ucciso a Goma, in Congo, dopo essere stato atrocemente torturato. Non ha ceduto alle lusinghe e alle promesse. È considerato un santo. Apparteneva, da laico, alla Comunità di Sant’Egidio. Chi volesse saperne di più può trovare notizie cercando in Rete “Partita di riso avariata”. Il fatto è avvenuto nella notte tra l’8 e il 9 giugno 2007. Di fronte a questo giovane africano, martire della fede e dell’onestà, o meglio, della fede operosa che genera virtù e santità, c’è da vergognarsi per le grandi e piccole forme di falsità e compromesso della vita. E nello stesso tempo si è indotti a non darsi per vinti, ma continuare ad avere speranza.