Mettersi nei panni di uno dei 152 cittadini afghani giunti in Italia nei giorni scorsi grazie a un corridoio umanitario, sarebbe un esercizio empatico unico e intelligente, un vero e proprio elemento di crescita personale e sociale. Significherebbe cercare di capire quanta sofferenza, disagio e rischi si sono dovuti attraversare per fuggire da una condizione di privazione di diritti e libertà, di fame e costrizioni per giungere in un campo profughi pakistano che sembrava chiuso a ogni futuro.
Chiuso perché le frontiere degli Stati che potrebbero accogliere sono blindate e le possibilità di farcela sono scarsissime. Eppure quella dei corridoi umanitari, con operatori dislocati nei campi profughi; di viaggi e accoglienza senza oneri per lo Stato; di sistemazione diffusa in Italia, ovvero con numeri bassi e più gestibili di nuclei familiari, e l’avvio di percorsi personalizzati di integrazione, sembra essere la soluzione ideale. Riuscire a diffondere questo modello almeno tra tutte le nazioni Ue sarebbe l’ideale. Non ci si illuda: la folla umana che chiamiamo “fenomeno migratorio” proseguirà a premere alle porte delle nostre città. Dobbiamo scegliere tra la via dello struzzo che abbiamo preferito finora, e quella dell’accoglienza intelligente che ci suggerisce il modello dei corridoi umanitari.