“La Chiesa cattolica oggi trova ancora nel Concilio Vaticano II il luogo della sua unità”. La riflessione è di Alberto Melloni, ordinario di Storia del cristianesimo all’Università di Modena – Reggio Emilia, titolare della cattedra Unesco sul pluralismo religioso e la pace dell’Università di Bologna, e segretario della Fondazione per le scienze religiose “Giovanni XXIII” di Bologna. Giovedì 24 gennaio Melloni ha tenuto una conferenza al Collegio Borromeo di Pavia dal titolo “La Pentecoste del Concilio”. Il Ticino, settimanale della diocesi di Pavia, ha incontrato il docente alla vigilia di quell’appuntamento.
Professor Melloni, perché questo titolo per l’incontro al “Borromeo”?
“Quando Papa Giovanni XXIII ha convocato il Concilio Vaticano II, si è collocato in maniera diversa rispetto a un ‘giudizio sul tempo’. Normalmente, nella storia della Chiesa latina, ma anche della Grande Chiesa, i Concili sono stati riuniti in occasione di momenti critici, periodi di difficoltà o di grandi eresie. Invece il Concilio Vaticano II non è stato convocato per combattere un ‘nemico’ o una dottrina sbagliata, ma per essere una nuova Pentecoste: per dar modo, cioè, alla Chiesa di reimparare a parlare le lingue dei popoli e a farsi intendere. Mi sembrava che la figura della Pentecoste potesse interpretare l’intenzione di Giovanni XXIII e, in qualche modo, qualificasse la struttura e la natura del Concilio Vaticano II”.
Il Concilio Vaticano II rappresenta ancora un evento universale che la Chiesa ha vissuto e continua a vivere. Restano ancora aperte, nonostante i 50 anni trascorsi, alcune situazioni che meritano di essere approfondite. Che cosa deve essere ancora attuato del Concilio?
“Sono molte le cose del Concilio che non sono state attuate. La più importante di tutte è la collegialità episcopale, cioè la dottrina che stabilisce che il vescovo per diritto divino acquisisce un potere sulla Chiesa universale che lo rende responsabile della condotta della stessa Chiesa sotto il Papa, che è anche vescovo di Roma. Dell’applicazione e della crescita della collegialità episcopale non c’è traccia nella Chiesa cattolico-romana di oggi: è un percorso ancora tutto da compiere. Nonostante questo, il Vaticano II ha rappresentato un grande momento d’incremento della collegialità fra i vescovi, perché ha restituito loro un’autorevolezza che non avevano prima di questo evento”.
Il Concilio Vaticano II è stato considerato la “primavera” della Chiesa. Quello spirito può essere ricreato oggi, a distanza di 50 anni?
“C’è un punto in cui i lefebvriani hanno ottenuto un successo nella loro azione, producendo però un grande danno: sono riusciti infatti a ingenerare nel dibattito pubblico l’idea che la Chiesa cattolica sia divisa a metà. Secondo questa impostazione, metà Chiesa sarebbe contenta del Concilio e l’altra metà ne contesterebbe gli esiti. In realtà, questa è una rappresentazione che non corrisponde alla realtà. La Chiesa cattolica oggi trova ancora nel Concilio il luogo della sua unità. C’è qualche piccola minoranza protestataria, che si lagna di cose a volte molto infondate e a volte meno, ma il Vaticano II rimane il centro del discorso ecclesiastico. Lo sanno benissimo tutti coloro che oggi vivono il cattolicesimo romano: il Concilio rappresenta davvero quel momento di ‘primavera’, un’esperienza di freschezza evangelica e di rinnovamento. È un dato incontrovertibile e molto significativo”.
Che significato ha la scelta di Papa Benedetto d’istituire l’Anno della fede in coincidenza con il 50° anniversario del Concilio Vaticano II?
“L’anno del Concilio è diventato anche l’Anno della fede per la ragione semplicissima, e fondamentale, che il Vaticano II è stato una grande professione di fede nella guida di Dio sulla Chiesa e in quella di Dio sulla storia. Il Concilio ha combattuto i profeti di sventura e se l’è presa con quelli che vedevano la modernità come il grande nemico contro cui misurarsi, e non semplicemente il tempo in cui il Vangelo deve risuonare. Detto questo, mi auguro che per la Chiesa tutte le stagioni siano Anni della fede, e non solo quella che stiamo vivendo, altrimenti non ci sarà speranza per il futuro”.