C’è un comportamento particolare da parte di Gesù nel Vangelo di questa domenica. Lazzaro, suo amico, è malato e Marta e Maria, le sorelle, lo mandano a chiamare. Notiamo come questo atteggiamento sia comune anche al nostro modo di rapportarci con Dio. È legittimo affidarci al Signore nei momenti difficili: è Lui la nostra roccia e la nostra forza. Appresa la notizia della malattia di Lazzaro, Gesù non corre immediatamente da lui ma “rimase per due giorni nel luogo dove si trovava” (Gv 11,6). Si rivolge poi ai discepoli dicendo loro che Lazzaro si è addormentato, tant’è vero che inizialmente non lo capiscono. Sperano anzi che il normale sonno aiuti Lazzaro a ristabilirsi.
Il Maestro allora chiarisce ai discepoli che l’amico è morto, e continua con un’affermazione che sembra non adatta a quel particolare momento: “Sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate” (11,15). Ancora una volta Gesù utilizza un linguaggio che i discepoli non comprendono nell’immediato. Arrivato a Betania, il Signore viene accolto prima da Marta e poi da Maria che, pur in momenti diversi, gli si rivolgono con le stesse parole: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” (11,21.32). Le sorelle di Lazzaro non sono senza fede; anzi, Marta confessa che “qualunque cosa [Gesù] chiederà a Dio, gliela concederà” (11,23). Ecco allora che il Signore le promette per Lazzaro la resurrezione. “So che resusciterà nell’ultimo giorno” aggiunge Marta.
Parlare di vita eterna non è né semplice né tantomeno scontato. Maria e i giudei che la stavano consolando piangono, e tutto questo commuove Gesù. Mentre però gli altri si disperano perché tutto sembra finito e senza speranza, Gesù invece si commuove, cioè soffre umanamente per il distacco di un amico, di un discepolo amato, pur in una prospettiva di vita eterna. Quanto è importante la vicinanza del Signore nel dolore! Non crediamo in un Dio che ci evita le sofferenze, ma in un Dio che ci tiene per mano e le affronta con noi. In questo testo si rivela particolarmente l’umanità di Gesù; lo vediamo infatti “amare” Lazzaro e le sue sorelle, “commuoversi” e “turbarsi” quando vede la disperazione dei familiari e dei conoscenti, “piangere” davanti alla morte dell’amico. Nella prova ci stringiamo a Lui che ha condiviso in tutto – eccetto il peccato – la nostra condizione umana, e con la risurrezione, dopo la croce, ha attraversato la morte, ovvero ne ha fatto esperienza.
Quante volte, soprattutto in un lutto, “le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il De profundis, il grido, il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce… E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte?” (Paolo VI, omelia ai funerali di Aldo Moro). Gesù si reca al sepolcro di Lazzaro e chiede che la pietra che chiude la grotta venga rimossa, ma Marta si oppone: “Manda già cattivo odore, è lì da quattro giorni” (Gv 11,39). Anche se ha affermato poco prima che Gesù è il Cristo, davanti alla realtà umana sembra fermarsi, come se vedesse ogni speranza perduta. Ma il Signore le risponde: “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?” (11,40).
Potremmo prendere questa affermazione come una possibile chiave di lettura del testo. Se crediamo possiamo vedere la “gloria di Dio”, ovvero il suo manifestarsi in una vita capace di superare la morte. Occorre credere per vedere, non vedere per credere. Non si rivela, infatti, questa gloria di Dio soprattutto nel giorno di Pasqua quando, mentre tutto sembrava perduto e finito, il Signore risorge dalla morte? La fede di Marta è condizione necessaria per capire la resurrezione di Lazzaro, così come la nostra fede è indispensabile per riconoscere il Cristo risorto.