Ci accostiamo al testo del battesimo di Gesù partendo dalla voce di Dio Padre che proclama: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”. Sono parole piene di tenerezza e di soddisfazione paterna che ogni figlio amerebbe sentirsi dire. Affermazioni come: “Sono fiero di essere tuo Padre; sei il figlio che ho sempre desiderato; sei un dono speciale” sono parole che hanno il potere di aprire il cuore e di creare intimità; spengono il rancore, rafforzano l’autostima, spingono a migliorare e fanno emergere tutto il potenziale razionale ed emotivo di colui che ascolta.
La paternità rappresenta uno degli aspetti più impegnativi e appaganti della vita di un uomo; eppure, soprattutto oggi, sembra una realtà piuttosto confusa, se ne parla poco e in maniera impropria. L’amore paterno non s’improvvisa, è un compito concreto che s’impara in famiglia da un uomo che sa amare la propria moglie più della sua stessa vita, che sa servirla senza asservirla e che sa lasciarsi servire senza entrare nel servilismo. Amore e servizio sono il binomio inscindibile di ogni relazione affettiva. Anche Cristo ama il Padre facendosi “servo” ma come figlio e non come schiavo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”.
La buona pedagogia insegna che dalla qualità dell’amore/servizio che gli sposi si scambiano fra loro dipende la futura capacità o incapacità dei figli di amare e di essere amati. Si tratta di un amore incondizionato che sa amare la persona reale e non quella ideale; non è un amore calcolato, centellinato, ottenuto e rivenduto a condizione che tu sia amabile, gentile, ubbidiente, comprensivo, efficiente, simpatico, accogliente; che non mi deludi, che rispetti le regole, che mi fai sentire orgoglioso, che realizzi i miei progetti. Ti amo se tu mi ami. Dio non ama così!
Gli uomini puntano il dito, Dio Padre custodisce; noi accusiamo, il Padre difende; noi critichiamo, il Padre comprende; noi disapproviamo e disprezziamo, il Padre consola, incoraggia e salva. Quanto c’è da imparare dall’Amore divino! “Non griderà né alzerà il tono… non spezzerà una canna incrinata…”. Di solito si parla del dovere di amare Dio, del comandamento che impone di amare Dio, dimenticando che a dare origine a tutto: alla vita, alla Scrittura, alla Chiesa, alla morale cristiana, alla salvezza e ogni altra cosa non è l’amore per Dio, ma l’amore di Dio. “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo” (1Gv 4,19).
Non siamo stati creati per fare, ma per ricevere. “Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?” reclama il Battista. Sì, è proprio così! La Buona Notizia è questa: Dio non è Colui che domanda o che comanda, ma è il Dio che dona. Giovanni comprende che solo imparando a ricevere si è in grado di dare, non c’è altro modo di realizzare il diritto sulla Terra. Gesù s’immerge nel Giordano e scompare per qualche istante sotto le acque del fiume, impregnandole di Spirito santo, così come farà sulla croce nel momento passeggero della morte: “chinato il capo, emise [effuse] lo Spirito” (Gv 19,30). Questo è il battesimo di sangue e la prima Pentecoste con cui si compie la salvezza e si realizza la promessa: “Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me; come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,37).
Una lettura simbolica e sponsale di questi passi evangelici s’impone da sola: nell’acqua e nel sangue gli antichi Padri indicano il “battesimo di fuoco” con il quale “la nuova Eva” cioè la Chiesa viene rigenerata nascendo dal costato di Cristo, nuovo Adamo. È così che “si adempie ogni giustizia”, non per merito di opere e nemmeno per il giudizio, ma per la giustificazione mediante la fede (Ef 2,8-9). Essere giustificati significa essere “resi giusti” da Cristo morto e risorto per noi. La salvezza non si compra, si riceve senza alcun merito. “Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto”, è da Lui benedetto, stimato e amato come un figlio.