Il Vangelo di questa XV domenica ci presenta la prima delle “parabole del regno” del testo di Matteo. La lettura che daremo di questo brano sarà molto influenzata sia dalla nostra esperienza come genitori che dal servizio che facciamo alla Chiesa attraverso l’Azione cattolica. Entrambe queste esperienze hanno l’educazione e la formazione come compiti fondamentali, perciò l’aspetto educativo sarà il punto di vista da cui analizzeremo il brano.
Il racconto si sviluppa in tre parti: nella prima, dal versetto 3 al 9, Gesù narra la parabola e mette al centro della narrazione il seme; nella seconda, dal versetto 10 al 17, risponde alla domanda dei discepoli sul perché egli parli in parabole; nella terza, dal versetto 18 al 23, Gesù spiega il racconto mettendo al centro dell’attenzione il terreno su cui il seme cade.
Nei primi versetti del racconto viene presentato un seminatore che potrebbe sembrare disattento a dove getta il seme, sembra anzi che abbia diviso in parti la semente per gettarne volutamente un po’ in ogni tipo di terreno, anche nel suolo che non dà garanzie di portare frutto.
La parabola invita i genitori, ma anche le nostre comunità, a non fermarsi nel loro compito educativo-formativo ogni volta che sembra che manchino le condizioni. Quante volte omettiamo di seminare perché “con questi ragazzi / queste famiglie è tempo perso”? Anche quel seme che potrebbe sembrare sprecato il seminatore lo getta comunque, come del resto fa Gesù quando parla a un uditorio che non comprenderà i misteri del Regno (Mt 13,11) ma resta oggetto della predicazione del Signore. La speranza che un giorno qualcuno possa capire è sempre presente e giustifica questo “spreco”. L’atto educativo che Gesù opera attraverso la parabola ci indica una seconda attenzione: l’educazione deve essere rispettosa dell’umano, deve fornirgli ciò che può capire in quel momento, deve mettere in azione e formare la coscienza sempre di più e meglio. Indicazione fondamentale per tutta la nostra società, non solo per genitori e comunità cristiana; ci sembra infatti che, soprattutto nei confronti dei più piccoli, si stia cercando di bruciare le tappe per farli crescere il più velocemente possibile, proponendo loro argomenti che difficilmente riescono a capire bene, generando così confusione e incomprensione.
La seconda parte del testo prende il via dalla domanda dei discepoli. Porsi delle questioni, porgerle al Signore, produce, nel testo e nella vita di ognuno di noi, un approfondimento di quanto abbiamo compreso. Sono le domande a cui cerchiamo di dare risposta che portano a compimento i processi educativi: questo dovrebbe farci riflettere su cosa proponiamo in molti nostri incontri che, più che suscitare domande, cercano di ammaliare, facendo ricorso a discorsi che puntano in misura esagerata sull’aspetto emotivo.
La terza sezione del nostro brano mette al centro il terreno e il motivo per cui esso può portare o non portare frutto. I terreni, ovvero le persone, che non educhiamo alla profondità (strada e sassi) non riescono a far attecchire la pianta; chi non formiamo a discernere l’essenziale (rovi) farà nascere – insieme alla pianta buona – anche quelle cattive, che finiranno per soffocarla. Al terreno buono è chiesto un dinamismo: accogliere nel profondo il seme della Parola e custodirlo. Non esiste paragone migliore per la dinamica educativa. Una volta seminato, viene il tempo della cura e dell’attesa per il seminatore (comunità o genitori), che potrà aiutare a togliere qualche rovo e avere fiducia che, al tempo opportuno, anche se per lungo tempo non si vedranno spuntare piantine, il seme germoglierà e porterà frutto.
La parabola ci aiuta anche a mettere a tema la verifica pastorale di quanto facciamo nelle nostre comunità / associazioni. Sembra che, alcune volte, ci troviamo davanti a terreni / proposte che hanno poca profondità, che puntano tanto sull’emozionale, che danno frutti che non durano nel tempo; altri sono così preoccupati da tante cose che soffocano la parte buona, facendo crescere tanto altro; ma ci sono anche molti terreni buoni.
Questo non significa che dobbiamo smettere di seminare sui primi due terreni, ma che dobbiamo lavorare per farli diventare terreno migliore.