Questa domenica celebreremo la festa dell’Ascensione: Gesù sale al Padre davanti agli occhi dei suoi discepoli, ancora increduli. Strana ricorrenza, quella che ricorda la Chiesa, chiedendoci di festeggiare quello che sembra a tutti gli effetti un addio!
In verità ci troviamo a una sorta di bivio. L’esperienza terrena di Gesù termina e prepara alla venuta dello Spirito e alla festa di Pentecoste. Si apre una nuova stagione per la fede di tutti noi. Non a caso, Luca nella prima lettura dagli Atti degli Apostoli con una brevissima descrizione: “Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”, liquida la straordinarietà dell’evento, preferendo concentrarsi sull’effetto che esso ha sui discepoli. Ce li descrive dunque mentre rimangono con il naso all’insù a fissare il cielo mentre Egli se ne va. Ecco allora che scatta il rimprovero dei due angeli che si fanno loro vicini: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare”.
Un richiamo che è per tutti noi, per tutte quelle volte che, alzando gli occhi verso l’alto, cerchiamo eventi straordinari, quasi ai confini del magico, per sentire il nostro Signore una presenza tangibile nella nostra vita. L’Invisibile di Gesù, che ci racconta oggi la Parola, è qualcosa di diverso. Ha a che fare con il mistero della fede, a cui fatichiamo ad aprirci fino in fondo.
Eppure, come direbbe il Piccolo Principe, “non si vede bene che con il cuore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi”. L’essenziale oggi, come allora per i discepoli, è pensare che Gesù è reale e visibile ancora qui, in terra, in ogni uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. Non dobbiamo guardare “in alto”, ma tra la gente. Non possiamo aspettare il suo ritorno sul monte dell’Ascensione, al chiuso della nostra comunità, protetti dalle certezze dei nostri piccoli gruppi; dobbiamo attenderlo nel mondo, tra i fratelli, in particolare tra gli ultimi e tra quelli che non hanno ancora conosciuto il suo amore.
Quindi la festa dell’Ascensione non è la celebrazione nostalgica di un’assenza, per quanto luminosa, bensì l’inizio di un tempo in cui tutti, comprese noi famiglie, siamo chiamati ad annunciarlo, perché il Gesù che oggi sembra farsi così lontano è in verità vicinissimo e abita in ogni fratello che incontriamo.
È stato così anche per gli undici apostoli, a cui il Signore, come leggiamo nel Vangelo di Matteo, ha detto: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”. Ci è stata data in eredità una missione, che prima di tutto comporta una partenza: “Andate”; non possiamo starcene ad aspettare che “i lontani” si avvicinino alle nostre chiese o alle nostre case. Siamo noi che dobbiamo andare incontro a loro, non semplicemente portando un annuncio, ma istaurando relazioni che siano, per quanto possibile, profonde e familiari. Gesù torna al Padre, compiendo un atto di enorme fiducia nell’uomo. Ha fiducia negli apostoli, come in ciascuno di noi, più di quanto ne abbiamo in noi stessi. Essere lievito per la sua amata Chiesa non dipende infatti solo dalle nostre capacità o dalla nostra fede, ma soprattutto dalla forza che ci viene dal lasciarsi portare da Lui e dal saperlo con noi “fino alla fine dei tempi”.
Che bella allora questa festa che sigilla l’Incarnazione, facendoci vedere la possibilità che anche la nostra umanità sia trasfigurata in cielo, assunta da e con il Figlio di Dio. Il Signore ci manda in missione così come siamo: le famiglie insieme ai sacerdoti e ai religiosi, ciascuno con le proprie ricchezze, ma anche con le proprie difficoltà; certi che, affidandoci a Lui, ogni limite può essere superato e trasformato in bene per la comunità.
La liturgia del tempo pasquale ci ha donato parole di gioia in abbondanza, e domenica in modo particolare sembra invitare a rallegrarci, perché il ritorno di Gesù al Padre ci dà un anticipo bellissimo di quell’eternità a cui tutti siamo chiamati.