Introducendo la liturgia delle Palme, il celebrante annuncia che “Gesù entra in Gerusalemme per dare compimento al mistero della sua morte e resurrezione”. Il Signore prepara con cura questo momento, mandando due discepoli nel villaggio di fronte a quello dove si trova per prendere un’asina e un puledro. Come i discepoli, anche noi siamo chiamati a preparare l’entrata gloriosa di Gesù: essi vengono mandati non da soli ma a due a due (Mc 6,7), nelle “città e nei luoghi dove stava per recarsi” (Lc 10,1).
Non si annuncia il Signore da soli ma insieme. È la comunità che “si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo” (Evangelii gaudium, 24). È quindi la comunità che evangelizza e che è chiamata ad andare avanti per preparare l’arrivo del Signore. Con quale atteggiamento dobbiamo portare agli altri Gesù? Come l’asina e il puledro che i discepoli sono andati a prendere. Quanto sarebbe stato più glorioso agli occhi del mondo un ingresso a cavallo, o meglio ancora in carrozza! Gesù ci sconvolge anche su questo aspetto. Il puledro è il figlio di un animale umile, “figlio di una bestia da soma” (Gn 49,11).
La scelta di un asino rappresenta l’orientamento di fondo di Gesù. Non è esibizionista, non sfoggia potenza, non si impone. Come l’asina, egli avanza lentamente, discretamente. La comunità cristiana è chiamata a essere come l’asina e il puledro che hanno portato Gesù, consapevole che in realtà è Lui che la porta. È infatti l’Agnello che si è immolato e ha preso su di sé il peso del nostro peccato. Lui cerca l’asina e il puledro, ovvero utilizza la nostra povertà per fare il suo ingresso nella gloria, e la trasforma, la redime con la sua misericordia. Gesù entra pertanto in Gerusalemme, come il Messia preannunciato dai profeti Isaia e Zaccaria: il Salvatore che porta la pace.
Il Vangelo stesso sottolinea che solo la folla festeggia la sua entrata; i capi non lo accolgono perché non lo riconoscono e non si aprono alla salvezza. Mentre infatti viene gridato “Osanna”, appare evidente il freddo rifiuto delle autorità: la città si interroga su chi sia quell’uomo a cui inneggia la folla e che viene acclamato figlio di Davide e ritenuto profeta. Dio ci ha lasciato liberi di accoglierlo o meno, ma, ogni volta che permettiamo a Gesù di entrare nella nostra vita, abbiamo l’occasione di sperimentare gioia e salvezza. Tutto ciò è negato a chi lo rifiuta. Accogliere o rifiutare la venuta del Signore è questione di vita o di morte, perché in lui “riviviamo” e scorgiamo la sua presenza dappertutto. “Tutto ciò che mi circondava mi parlava di Lui, il cielo mi parlava di Lui, la terra mi parlava di Lui, il mare mi parlava di Lui… Era come il Personaggio più importante che entrava nella mia vita e con cui avrei dovuto vivere per sempre” (Carlo Carretto).
La folla esulta e inneggia al suo Re manifestando tutta la gioia e venerandolo. “Stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami degli alberi e li stendevano sulla strada” (Mt 21,8). I mantelli che vengono stesi al passaggio di Gesù dalla gente che lo circonda sono un simbolo importante: sono un bene inalienabile. Anche nei pegni dati dai poveri il mantello non può essere preso o trattenuto per più di un giorno. Sta scritto nel libro dell’Esodo: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?” (22,25-26). Stendere il mantello sotto i piedi di Gesù vuol dire affidargli tutta la propria vita. Anche noi dovremmo stendere i nostri mantelli davanti a Gesù: niente infatti è più prezioso della sua amicizia!