Avvicinandosi oramai alla fine dell’anno liturgico, il lezionario ci fa compiere un cammino attraverso i capitoli che vanno dal ventiduesimo (quello che abbiamo toccato la scorsa volta) al venticinquesimo di Matteo, con un’incursione odierna al cap. 23. Diventa così difficile poter seguire il percorso narrativo del Primo Vangelo. Ci accontentiamo di commentare le singole pericopi, così come ci vengono ‘ritagliate’ dalla Liturgia, ricordando semplicemente che col brano di oggi siamo ancora nel contesto degli ultimi avvenimenti di Gerusalemme, in un acceso confronto tra Gesù e i suoi avversari.
I farisei sono tra questi, e, anzi, sono quelli verso cui Gesù si scaglia con maggiore veemenza. Si pensi solo ai sette “guai” rivolti contro di loro proprio nel seguito della nostra pericope. Le accuse che Gesù rivolge ai farisei (anche se i destinatari del discorso di oggi sono i discepoli, cfr. Mt 23,1) partono da una considerazione generale: ora (al tempo di Gesù) la dottrina, l’insegnamento sulla Legge, sono dettati dai farisei: sono essi che si sono seduti sulla cattedra di Mosè (23,2). Si tratta di un’affermazione negativa, di una critica? No, anzi: è una valutazione buona del ruolo dei farisei (così Hagner; per alcuni è forse l’unica di tutto il Vangelo di Matteo!).
È la descrizione di qualcosa che è accaduto e che viene riconosciuto da tutti, anche da Gesù. Tanto che “Matteo non accusa i farisei di essere degli impostori, dei maestri di menzogna: Tutte le cose che vi dicono, fatele e osservatele, e questa è, tra le raccomandazioni di Gesù, quella forse meno accolta dai cristiani. Matteo rimprovera loro di dire e non fare: di insegnare correttamente senza avere una prassi corrispondente, o con una prassi insufficiente. Meglio: di pretendere dagli altri quello che loro stessi non fanno” (Mello).
Quanto i farisei insegnavano aveva lo scopo di dare onore alla Legge, perché questa non rimanesse lettera “morta”, ma vivesse, e potesse essere messa in pratica così da poter osservare i comandi di Dio. Quest’operazione richiedeva studio, impegno, e anche capacità di distinguere i singoli casi e i precetti: il nome farisei, “perushim“, può anche significare coloro che “distinguono“, cioè “interpretano con acribia la Legge”. Come scrive un grande esperto di giudaismo: “I farisei avevano come massima preoccupazione che la rivelazione sinaitica rimanesse una linfa vitale per ogni generazione, fosse una guida sempre contemporanea. Per essi, quindi, la Torà non si riduceva al Pentateuco, ma comprendeva pure la tradizione orale (‘Torà che è sulla bocca’), rivelata anch’essa a Mosè sul Sinai come commento e interpretazione della Torà scritta, e trasmessa di maestro in discepolo nelle scuole e nelle accademie rabbiniche” (De Benedetti, Introduzione al giudaismo, Brescia 1999).
I farisei affermavano infatti che accanto alla Legge scritta esisteva una legge orale (chiamata poi Mishna) che era stata data simultaneamente a Mosè sul Sinai, e godeva della stessa autorità: “Al Sinai, Mosè ricevette la Legge orale e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero ai membri della Grande Sinagoga” (Aboth 1,1). È per questa ragione che l’interpretazione che i farisei davano della Legge li rendeva meno severi degli esseni o dei sadducei, che in modo più conservatore si attenevano solo alla Legge scritta: ad esempio, a differenza dei sadducei, i farisei credevano nella risurrezione dei morti e negli angeli. La seconda osservazione di Gesù ai farisei però non è elogiativa: i farisei insegnano bene, ma non vivono conseguentemente all’interpretazione che danno della Legge.
Si tratta di un richiamo forte alla coerenza, ma forse anche di una critica all’eccessivo rigore con il quale interpretavano alcune norme, per esempio quelle sul sabato: sarà Gesù stesso a proporre un nuovo modo di vivere i precetti, dicendo che “è il sabato per l’uomo”, e non viceversa (cfr. Mc 2,27). Ed ecco poi alcune accuse circostanziate sulle quali non possiamo soffermarci. Il senso delle parole di Gesù sembra però questo: far troppo caso alle minuzie (la dimensione dei tefillim o degli tzitzityot) può a volte far perdere di vista il cuore, il ‘centro’ della rivelazione di Dio, che è l’amore. Anzi, l’osservanza esteriore di tutte le Leggi può portare anche a ritenersi talmente giusti davanti a Dio, tanto da poter assurgere al ruolo di “maestri”, cioè alla pretesa di insegnare non solo con la dottrina, ma addirittura con la vita.
Matteo conclude il brano di oggi ricordando che solo il Messia d’Israele, Gesù, è il Maestro al quale possiamo guardare, non solo per come ha insegnato con le parole, quanto soprattutto per i gesti che ha compiuto. È un impegno per tutti noi credenti a tornare ancora una volta al Vangelo. Forse anche noi viviamo di leggi che ci costruiamo con le nostre mani e che ci rendono schiavi, e tante volte ci mettiamo in cattedra pretendendo di avere sempre ragione, fossilizzandoci così su dettagli inutili, dimenticando la carità.