Come viene rappresentata la Chiesa nel dibattito pubblico? La stampa, in particolare, come sceglie di raccontare la religione e in quali circostanze? Un gruppo di ricercatori dell’Università di Perugia ha preso in esame alcuni quotidiani nazionali per capire quando e in che termini le testate d’informazione parlano di Chiesa.
I primi risultati parziali della ricerca coordinata da Rita Marchetti, docente di sociologia dei media digitali pressol’Università di Perugia, sono stati presentati presso l’Università di Perugia negli appuntamenti de “I mercoledì di Scienze politiche” il 6 marzo. I dati saranno pubblicati sul numero 10 de La Voce in uscita il 15 marzo. Di seguito riportiamo l’intervento del card. Gualtiero Bassetti all’evento di presentazione.
“Gentili professori, cari studenti,
vi ringrazio dell’invito che mi avete rivolto: per me, è sempre un piacere e un onore entrare in un’aula universitaria. Penso infatti – e l’ho detto più volte – che l’Ateneo di Perugia è un patrimonio prezioso di tutta la comunità cittadina. Un patrimonio da difendere, da valorizzare e da promuovere con tutte le forze per il bene di Perugia e dell’Umbria.
Non mi addentrerò, ovviamente, sui risultati della ricerca, ma vorrei limitarmi ad una breve riflessione sul tema oggi in discussione che è di grande interesse. Vorrei soffermarmi su tre concetti a mio avviso fondamentali del rapporto tra religioni e media: ovvero, il messaggio, il territorio e il dibattito pubblico nel mondo contemporaneo.
Da sempre, infatti, sin dalle origini, seppur in modo molto diverso, la Chiesa ha comunicato un messaggio. Anzi, cito dal prologo di Giovanni, “In principio era il verbo, il verbo era presso Dio” e poi aggiunge “il verbo si fece carne”. La buona novella rappresentata dal cristianesimo si potrebbe riassumere dunque nel messaggio stesso. Ma non solo. Da sempre la Chiesa ha posto attenzione al modo di comunicare: penso, per esempio, all’utilizzo del volumen nell’antichità, ma anche, in tempi più recenti, all’utilizzo della fotografia, della radio, della carta stampata.
I contenuti e il modo di comunicare un messaggio, dunque, rivestono per la Chiesa un’importanza fondamentale. Perché, di fatto, risponde ad un principio valido per tutti i secoli: ovvero che comunicare una notizia, o meglio, annunciare al mondo un messaggio è sempre una forma di carità.
È una forma di amore verso il prossimo, che esprime due realtà: in primo luogo, esprime sempre una relazione con l’altro, perché ogni comunicatore parla e si relazione con un pubblico e non rimane mai solo con se stesso; in secondo luogo, comunica un messaggio la cui portata ci sovrasta sempre perché, a ben guardare, nessun comunicatore è l’unico proprietario del messaggio ma è, fin dei conti, un medium, un mezzo di trasporto, un luogo di amplificazione. Detto in poche parole: tutti noi ogni volta che comunichiamo, dobbiamo rispondere ad una regola non scritta caratterizzata da due elementi: la carità e la responsabilità.
Per questo motivo, Papa Francesco ha parlato non solo della promozione di una comunicazione costruttiva che possa favorire un’autentica “cultura dell’incontro”, ma anche dell’importanza dello “sguardo” con cui guardiamo la realtà e del modo con cui la raccontiamo e la divulghiamo.
Uno dei modi con cui da molto tempo la Chiesa guarda e racconta la realtà – e vengo al secondo spunto di riflessione – è l’attenzione al territorio, attraverso una comunicazione che potremmo definire di prossimità. Nel 2017 abbiamo celebrato il centenario dei settimanali diocesani in Italia. La Chiesa italiana, da molto tempo, dunque, ha a cuore la presenza mediatica sul territorio e ha a cuore i media diocesani, attraverso i quali diffonde il suo messaggio in molte case.
I settimanali diocesani hanno sempre rappresentato e continuano a rappresentare un presidio importante sul territorio dove la Chiesa locale vive ed opera, e dove ha la possibilità di esprimersi liberamente e di raggiungere le famiglie e le persone. Si tratta di un’esperienza importante che mette in luce la capillarità con cui le testate diocesane sono presenti nel nostro Paese e che rappresenta un’occasione unica per raccontare un territorio che conoscono, e lo conoscono perché lo abitano in prima persona.
Al di là di ogni retorica sul territorio – oggi molto di moda – questa esperienza comunicativa, apparentemente ai margini del dibattito pubblico, è in realtà estremamente importante per comprendere le molte modalità con cui la Chiesa si esprime e la complessità del rapporto tra religione e media.
Questa comunicazione di prossimità che si esprime sul territorio, infatti, è in primo luogo un mandato di carità verso le periferie esistenziali e fisiche del nostro Paese, ma è anche, in secondo luogo, un modo di agire sul territorio che non consiste soltanto nel fare informazione ma, addirittura, anche nel fare formazione. Ovvero coltivare il senso di comunità ben oltre l’appartenenza ecclesiale e in definitiva, contribuire a costruire quelle identità cittadine che rappresentano, da sempre, la tradizione civica dell’Italia e una parte importantissima della nostra storia.
Questa attenzione al territorio – e vengo al terzo punto – non è altro che un angolo visuale particolare con cui guardare al dibattito pubblico del mondo contemporaneo. Un dibattito che senza dubbio si sviluppa soprattutto sui quotidiani nazionali e sui media digitali. Nella ricerca che presenterete ho visto che avete analizzato 5 giornali cartacei e 5 testate che pubblicano esclusivamente su internet. Si potrebbero fare molte considerazioni sulla presenza della religione su questi media. Ne vorrei sottolineare soltanto due che a me sembrano particolarmente importanti.
La prima riguarda il processo di banalizzazione o, meglio, di stereotipizzazione della religione sui grandi media nazionali. Un processo ovviamente assente nei settimanali diocesani e forse minore anche nei giornali locali dove, per esempio, il rapporto con le feste patronali o con alcune tradizioni cittadine è vissuto in modo più diretto e con molta attenzione e rispetto verso la cronaca di queste feste.
Invece, ho la sensazione che l’esigenza del racconto, al tempo stesso, veloce, sintetico e spettacolare, dei grandi media nazionali contribuisce alla costruzione di questo processo di stereotipizzazione della religione che non solo non aiuta a comprendere il messaggio veicolato, ma addirittura lo rinchiude dentro a dei canali narrativi che spesso sono dei veri e propri recinti comunicativi. Dei recinti in cui è molto difficile cogliere il significato profondo del messaggio ed è ancor più ostico affrontare un dibattito.
La seconda considerazione che vorrei fare riguarda, invece, il cosiddetto “effetto Papa Francesco” sul dibattito pubblico. La popolarità del pontefice su cui molto si dibatte – anche con critiche feroci – rappresenta senza dubbio un elemento di riflessione cruciale per comprendere il rapporto tra religione, media e spazio pubblico.
La mia età e anche la mia esperienza pastorale mi permettono di avere memoria di molti pontefici del XX secolo: soprattutto di quelli che hanno vissuto la cosiddetta “modernità” e di coloro che hanno avuto un rapporto intenso con i nuovi mezzi di comunicazione. Mi riferisco in particolare a Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Tutti e quattro, seppur con esiti diversi, sono stati dei papi che hanno utilizzato i media e che sono stati raccontati dai media.
Tutti hanno subito critiche e apprezzamenti pubblici. Ognuno ha costruito una sua narrazione del pontificato. E l’opinione pubblica ha avuto atteggiamenti diversi con i papi a seconda del periodo storico e dell’argomento in questione. È notissima, per fare un solo esempio, la vicenda biografica di Paolo VI: dopo la pubblicazione dell’Humanae vitae finì di colpo, è stato scritto, “la luna di miele” tra il papa bresciano e i media.
Tra le moltissime questioni che si possono sollevare, la domanda che oggi mi pongo e che vorrei porre anche agli studiosi: quali sono le peculiarità di Francesco rispetto agli altri Papi? Chiarisco meglio: le maggiori differenze tra l’attuale pontefice e chi lo ha preceduto sono rappresentate dall’evoluzione del sistema dei media – mi riferisco, soprattutto, ai social network – oppure sono legate alle diverse personalità dei pontefici?
Naturalmente, come capirete, la riflessione sul dibattito pubblico è un tema che si riferisce direttamente anche al sottoscritto, al ruolo della Conferenza episcopale italiana e ai temi oggi maggiormente discussi: penso per esempio al tema dei migranti, il cui scarto tra realtà e percezione meriterebbe un convegno a parte, oppure al tema della povertà. Ma mi fermo qui.
E mi permetto di concludere con un semplice invito a mio avviso di grande importanza per chi studia e riflette sulla comunicazione: abbiate amore per la verità. “Amare la verità – ha detto papa Francesco – vuol dire non solo affermare, ma vivere la verità, testimoniarla con il proprio lavoro”. Parlare oggi di verità in un’epoca storica che alcuni hanno definito addirittura della “post-verità” potrà sembrare desueto. Ma io ritengo, invece, che sia di grandissima importanza: per il futuro e lo sviluppo della nostra società”.