Percezione diffusa è che stiamo vivendo un tempo di profonda transizione: un “mondo” sta per finire, senza che se ne sia ancora delineato uno nuovo. Questa fine comporta la crisi di tutte le istituzioni, con le loro norme, conoscenze e valori. È come se la barca dell’umanità occidentale si fosse avviata verso il largo ed ora giungesse la tempesta: non si vede l’arrivo e si è ormai lontani anche dal porto. Tutte le realtà, le funzioni ed i ruoli sociali si trovano coinvolti in questo passaggio, e tutti hanno una duplice tentazione. La prima è di sciogliere tutte le vele, cercando di raggiungere la nuova destinazione prima possibile. Ma questa scommessa si basa sulla certezza di essere sulla rotta giusta e di saperla seguire. È la superbia tipica di tutti i rivoluzionari, sempre certi di sapere ricostruire il mondo nuovo, e perciò per nulla intimoriti di distruggere quello che c’è. La seconda tentazione per i tempi di crisi è quella dei nostalgici del passato, che vogliono tornare al porto di partenza. Anch’essi vivono la superbia di sapere la rotta, mentre tornare indietro a tutta forza è altrettanto rischioso che andare avanti. L’arte di cui c’è bisogno in questi momenti è quella di navigare nella tempesta. Tenere l’equilibrio, stando ben attenti a tutti i segnali che possono indicare la rotta, dando ascolto all’istinto di tutti i marinai: ognuno può avere l’intuizione giusta. Ricordare il passato, che è saggezza, ma aprire gli occhi a tutto ciò che è nuovo, perché da quanto si vede giungere si può indovinare la via dell’approdo. E soprattutto, spesso serve a poco guardare indietro o avanti; è guardando in alto che le stelle, per quanto apparentemente lontane dal nostro mondo, possono dare l’indicazione giusta. Una stella non gonfia le vele, non indica la rotta senza un occhio saggio che sappia riconoscerla. Certo, una stella è preziosa in tempo di crisi, ma lascia tanto della tragicità e della responsabilità del decidere. Cosa c’entra tutto questo con il prete? Molto più di quello che pensiamo, perché anche la Chiesa occidentale, che vive nel mondo, sta attraversando questa situazione e ne è partecipe. La Chiesa non si identifica certo con i preti, in essa però i preti svolgono un ruolo importante: proprio in questi tempi di dubbio ed incertezza, in questi tempi di paura, si ricorre più a loro, se ne richiede la vicinanza, si percepisce l’impoverimento di una comunità senza preti, o peggio con preti stanchi e demotivati. In questa nave sta anche al prete di aiutare tutti a fare una serie di scelte basilari. Qui è la sfida e la bellezza oggi di essere prete. La prima scelta è quella che con le ultime forze Giovanni Paolo II ripeteva con insistenza: “Non abbiate paura!”. Annunciare il Vangelo della resurrezione è sostenere la Chiesa ed il mondo contro la paura. La paura è sempre una pessima consigliera: invita a cercare ovunque dei nemici, fa leggere come minacciosa ogni azione degli altri, blocca ogni slancio generoso. Il prete oggi è l’annunciatore del Vangelo contro la paura, contro la paura dell’altro, contro la paura della vita, contro la paura del dono generoso di sé. Di tali preti c’è un grande bisogno in un tempo di crisi, ma non si può recitare un tale ruolo, c’è solo un modo per viverlo: l’essere in persona Christi. L’espressione latina classica è agere in persona Christi, cioè agire, operare. In questo tempo più che mai, in cui ogni giorno l’agire del prete deve cercare la verità ed il bene con tanta umiltà e senza poter seguire schemi e programmi già fatti, non basta agire, ma bisogna essere. Bisogna che il rapporto del prete con la persona di Cristo sia profondo, sostanziale, essenziale. Vissuto fin nell’intimo, senza nessuno spazio lasciato al privato, alla vita propria, al divertimento come divèrtere, come allontanamento dal proprio essere e dal senso di ciò che si è. Oggi un prete non può vivere da funzionario ad ore. Credo che nel mondo di oggi si possa essere preti solo essendo dei mistici. Ciò non vuol dire essere persone con la testa per aria, ma persone che sperimentano il contatto con Dio, con tutta la concretezza di una fede che può dire: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… noi lo annunciamo anche a voi” (1Gv 1,1). Se c’è questo, se c’è questo atteggiamento di fede profonda ed assoluta, è ancora possibile essere preti nel mondo di oggi, ha ancora senso e ne avrà sempre di più. Solo così si può indicare, nella nave del mondo in tempesta, la luce delle stelle, che mostra ad un occhio limpido ed attento il giusto cammino. Papa Benedetto nella catechesi di mercoledì 14 aprile ha spiegato l’essere in persona Christi, che caratterizza il prete, con grande limpidezza di pensiero. “Il sacerdote rappresenta Cristo. Cosa vuol dire, cosa significa ‘rappresentare’ qualcuno? Nel linguaggio comune, vuol dire – generalmente – ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, parlare e agire al suo posto, perché colui che viene rappresentato è assente dall’azione concreta. Ci domandiamo: il sacerdote rappresenta il Signore nello stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo Corpo vivo, e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante in essa. Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione. Pertanto, il sacerdote che agisce in persona Christi Capitis e in rappresentanza del Signore, non agisce mai in nome di un assente, ma nella Persona stessa di Cristo risorto, che si rende presente con la sua azione realmente efficace”. Il prete è perciò presenza, anzi trasparenza di Cristo presente nella sua Chiesa e davanti ad essa. Una vocazione esaltante e crocifiggente al tempo stesso, perché il prete più efficace, più vero, più realizzato è quello che lascia più di tutto trasparire il Cristo, il prete che “di suo” non mette nulla. Che scompare sempre di più dietro le quinte, per lasciare tutto il palco a Gesù. Per i preti di oggi, di questo mondo di protagonisti e di “prime donne”, la virtù fondamentale è perciò l’umiltà. Abbiamo bisogno di preti umili, non falsamente umili, ma così coscienti di sé e di Dio da essere trasparenza serena di Lui in mezzo al mondo. Solo un tale prete può attuare ciò che il Papa continua ed insegnare nella stessa catechesi e di cui il mondo di oggi ha grande bisogno: “Le tre azioni del Cristo risorto, che oggi nella Chiesa e nel mondo insegna e così crea fede, riunisce il suo popolo, crea presenza della verità e costruisce realmente la comunione della Chiesa universale”.
Chi è il prete?
In chiusura dell’Anno sacerdotale, una riflessione del Rettore del Seminario umbro
AUTORE:
Mons. Nazzareno Marconi, Rettore del Seminario regionale