“La paternità di Abramo come presupposto del dialogo tra monoteismi”: con questo intervento intendiamo partire dall’espressione “figlio/figli di Abramo” per trattare della speciale paternità del Patriarca. In quale senso tale espressione e tale concetto viene usato nei testi delle Scritture ebraiche e cristiane, e cosa ne discende per la Cristologia e il dialogo con la religione ebraica?
Paternità umana
La paternità di Abramo può essere vista anzitutto sul piano dell’esperienza umana. In questo modo, si sottolineano immediatamente le caratteristiche che fanno di lui un modello di vita piena, “icona e testimone di profonda umanità”.
Abramo poi è anche il primo essere umano – nel racconto di Genesi – a dialogare con la propria moglie. Nella tradizione giudaica, si mette in rilievo proprio quell’apprezzamento di Abram a Sarài [o Sara, ndr], che ogni donna vorrebbe sentirsi dire dal proprio coniuge: “Tu sei una donna di aspetto avvenente” (Gen 12,11). Sarài, tra l’altro, secondo il racconto genesiaco, doveva avere ormai 65 anni (cfr. 17,17), eppure Abram la trova bellissima
Paternità spirituale
Abramo è il primo esempio di fede in Colui che sarà poi chiamato “il Dio di Abramo”, e infatti egli per primo nella Bibbia, è soggetto del verbo “credere”, nel senso di “affidarsi” a YHWH: “E Abramo credette YHWH” (Gen 15,6). Da Terach, un padre politeista iconoclasta – secondo l’interpretazione giudaica – nasce un figlio credente.
Ecco perché si può parlare di una speciale paternità di Abramo, che è tale proprio in rapporto alla fede. Abramo è modello, dunque “tipo” o, appunto, “padre” di ogni persona che abbia fede in Dio.
Paternità secondo la carne
Se Paolo ha particolarmente insistito sulla paternità spirituale, non si deve dimenticare che esiste un’altra dimensione della paternità di Abramo, relativa alla sua generatività fisica, ovvero, come scrive sempre Paolo “secondo la carne” (Rm 4,1).
Negli inni del Magnificat e del Benedictus, Gesù è presentato come “figlio di Abramo”. Essere figlia o figlio di Abramo (Lc 13,16; 19,9) costituisce una grande dignità. Dobbiamo aggiungere quanto Gesù dice ai suoi interlocutori di Gerusalemme, nel capitolo 8 del Vangelo secondo Giovanni: “So che siete discendenza di Abramo” (v. 37).
Gesù, dunque, usa l’espressione “figlio/a/i di Abramo” come la userà a suo riguardo l’evangelista Matteo. È a questo tipo di discendenza secondo la carne che Matteo si riferisce all’inizio del suo Vangelo, quando parla di Gesù, “il Messia, figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt 1,1).
I due piani, quello della paternità secondo la carne e quello della fede, però, non devono essere confusi, e non solo nel caso di Gesù. Pur non accettando tutto il ragionamento di J. L. Ska (“Abramo nel Nuovo Testamento”, su La Civiltà cattolica 3613), riteniamo che la sua conclusione possa essere accolta: “Abramo ha una doppia paternità: anzitutto è padre per la fede – dei circoncisi e dei non circoncisi – ed è padre del popolo ebreo secondo la carne. Le due paternità non si escludono, ma la paternità secondo la fede precede quella secondo la carne, quindi è più importante”.
Naturalmente, questa è l’impostazione cristiana, ma si ritrova anche nelle parole profetiche del Battista, che relativizza l’importanza del legame familiare con Abramo. Discendere da lui secondo la carne non è sufficiente, né perfino necessario (Mt 3,9; Lc 3,8).
Implicazioni per il dialogo
Essere “figli di Abramo secondo la fede” è ciò che permette il dialogo tra le tre religioni monoteistiche. Ma essere “figli di Abramo secondo la carne” – categoria che pertiene all’ebraismo – è un punto di differenza, di distinzione, che non può essere assimilato ad altri o svalutato.
Solo l’Israele di Dio – quello da cui viene anche Gesù secondo la carne –, solo il popolo ebraico di oggi, quello che si autocomprende a partire dalle sue Scritture sacre, può legittimamente rivendicare una speciale discendenza. Non dovrà vantarsene, ma si dovrà partire sempre da questo punto per riconoscere che questo popolo – secondo le Scritture che accomunano ebrei (la Bibbia ebraica) e cristiani (Nuovo Testamento) – è il popolo che Dio ha scelto.
Su questa appartenenza secondo la carne può far leva ogni rivendicazione della cosiddetta “terza ricerca” su Gesù. Una delle più evidenti accentuazioni di tale ricerca è proprio quella riguardante la sua ebraicità, ovvero la sottolineatura di questo aspetto, l’appartenenza etnica al popolo di Israele, tramite la discendenza da Abramo.
“Nessuna generazione cristiana – afferma Paolo Sacchi – può alterare il dato irrinunciabile della sua ebraicità, e Gesù, nel suo percorso storico, non ha mai inteso superare l’ambito religioso del suo ebraismo: non ha mai postulato qualche cosa che lo portasse al di là di esso”.
Tale discendenza di Gesù da Abramo secondo la carne però deve essere ulteriormente specificata. Nel Nuovo Testamento, infatti, si trova un’ulteriore precisazione, quando Paolo distingue tra “i figli della carne” e non più semplicemente quelli a cui abbiamo accennato sopra, i figli secondo la fede, bensì “i figli della promessa” (Rm 9,8). Su questo punto dobbiamo essere precisi.
Anzitutto, sappiamo dall’esperienza umana che essere genitori o figli solo in senso naturale, secondo il diritto naturale, non è mai sufficiente. Una madre può dimenticarsi dei propri figli (cfr. Is 49,15), e addirittura Abramo può dimenticarsi del suo popolo (Is 63,16). Allo stesso modo, i figli possono dimenticare di essere tali: è quanto accade se ci si allontana dal Padre (cfr. parabola del “figlio prodigo”).
In secondo luogo, riprendendo l’opposizione di Paolo (Rm 9,7-8) tra figli “della carne” e “della promessa”, si deve dire che alcune spiegazioni di questo testo non sono convincenti. Dire ad esempio, come scrive Sandro Penna, che “non basta discendere fisicamente da Abramo per essere considerati suoi veri figli”, ripropone semplicemente una opposizione vero/falso (qual è l’opposto di “vero”? “Meno” vero?) che non sembra essere presente nel pensiero di Paolo. Quando l’Apostolo parla di figli della carne o della promessa, presume che essi siano comunque davvero figli.
Non basta nemmeno dire – sempre con Penna – che “Ismaele, l’altro figlio di Abramo (il primo!), fu escluso dall’eredità delle benedizioni spirituali”. Il bravo esegeta, giustamente, deve ritoccare in seguito questa affermazione specificando che “ciò non significa che Ismaele sia totalmente escluso da ogni benedizione divina, poiché al contrario egli è destinatario di alcune di esse (cfr. Gen 17,20; 21,13.18) tanto che anche a lui viene assegnata una discendenza di 12 tribù (Gen 25,13-16)”. A leggere bene la storia di Abramo, tra l’altro, si vede che il problema non riguarda solo Ismaele: Abramo ebbe, oltre al primogenito Ismaele da Agar, e Isacco da Sara, anche Zimran, Ioksan, Medan, Madian, Isbak e Suach dalla seconda moglie Keturà (Gen 21,1-2). In totale, dunque, otto figli, dei quali uno solo, però, secondo Genesi 18,10, è il figlio della promessa: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”.
Il paradosso
Quale teologia si potrà estrarre da una frase paolina o da testi simili che riguardano, come nella Lettera ai Galati 4,21-31, la contrapposizione tra i figli della donna libera, Agar, e quelli della schiava, nati, appunto, secondo la carne (il primo) e secondo la promessa (il secondo)?
Figli di Abramo lo si può essere al modo di coloro che vedono in lui un “padre dell’esperienza umana”; oppure come “figli nello spirito”, riconoscendo Abramo come padre nella fede, come lo sono i cristiani (e lo erano per Paolo i cristiani provenienti dai pagani); oppure “figli secondo la carne”, come lo è l’Israele popolo di Dio; oppure, ancora, “figli secondo la carne”, ma non nel senso della promessa, come lo sono i figli di Ismaele.
Davanti all’imperscrutabile volontà di un Dio che predilige i secondogeniti rispetto ai primogeniti e agli altri sei figli di Abramo, non si può stare che con una logica “paradossale”. Quella che porta, in ultima analisi, ad accettare che ogni figlio sia amato in modo differente, ma pur sempre amato, e che l’amore che il padre ha per l’altro fratello non possa essere rivendicato per sé, e nemmeno negato.
I figli della promessa, allora, quelli prediletti, non devono essere perseguitati perché sono tali, “prediletti” da Dio. È Paolo a dirlo, quando allude a un midrash relativo a Ismaele che, per il testo di Genesi 21,9, “scherzava” con Isacco; in realtà, nell’interpretazione rabbinica, gli lanciava frecce, o lo molestava (sessualmente). Non ci si può appropriare dell’amore che viene dato liberamente ad altri, ed è questo il presupposto di ogni dialogo tra fratelli.