La festa del 1° maggio, Festa del lavoro, viene da lontano nel tempo, ha attraversato spazi e stagioni culturali e sociali molto diverse, e giunge a noi nel bel mezzo di trasformazioni radicali nel mondo del lavoro e negli equilibri internazionali sia dal punto di vista politico che economicosociale. Da un lato si approfondiscono le differenze tra le diverse aree geografiche così come al loro interno, dall’altro avviene una specie di trasformazione antropologica nel mondo dei lavoratori. Restano vecchie distinzioni, legate ai diversi settori della produzione, diminuisce la percezione della distanza segnata dai ruoli ricoperti, spesso purtroppo accomunata da una sensazione diffusa di precarietà e incertezza.
In questo contesto, soprattutto nell’area occidentale, la celebrazione del 1° maggio può rasentare un po’ il patetico; più che celebrazione dell’oggi, è memoria (almeno per chi ha una certa età) di un passato di sofferenze, lotte, vittorie e sconfitte, ove si celebrava la speranza di un futuro carico di attese, mentre si curavano le ferite del presente in un rinsaldato e condiviso patto di solidarietà. È stata una festa che ha unito e anche diviso sul crinale ideologico, ma sapeva ciò che rappresentava: la consapevolezza della dignità del lavoro e dei diritti dei lavoratori. La storia per molti versi gli ha dato ragione.
Ma oggi, nel tempo del lavoro che cambia e del lavoro che manca, nel tempo in cui c’è bisogno di una nuova cultura del lavoro e, per molti aspetti e forse soprattutto, di una nuova etica del lavoro, che cosa rappresenta e che cosa celebra?
Non può essere la festa soprattutto dei “garantiti”, di chi il lavoro ce l’ha. Non può essere festa che torna a dividere, non tanto sul crinale ideologico ma sul piano dell’esclusione sociale di chi il lavoro l’ha perduto per le ferree leggi di un’economia “che uccide” – come dice Papa Francesco – , di chi non trova lavoro malgrado tutti i tentativi, di chi lo cerca fuggendo da situazioni disperate. Festa, comunque, ci deve essere, perché ogni festa celebra la vita che non si lascia piegare dalla morte, celebra la speranza che guarda oltre la dura realtà, celebra il sorriso che fuga, anche se per un solo momento, le lacrime e dà un po’ di rinnovata energia.
Festa ci deve essere per stringere nuovi patti di solidarietà tra le generazioni, sia in senso verticale che orizzontale, tra i diversi popoli sia di una medesima area geografica sia di aree più lontane, in un momento in cui, per paura e magari anche per rancore, ci si ripiega su se stessi. La solidarietà internazionale che caratterizzava le intenzioni originarie della festa del 1° maggio, quando le condizioni di lavoro erano ampiamente simili in tutto il mondo, nell’attuale fase di mercato e di comunicazione, molto più complessa, richiede nuovi atteggiamenti e nuova inventiva, per costruire ponti e nuove piazze, non tanto per innalzare muri e ghetti.
Se il lavoro cambia e manca, non può mancare creatività e nuova operosità; non può cambiare l’amicizia e il mutuo aiuto tra gli uomini; non può mancare la condivisione dei beni, anche se il paniere si restringe; non può mancare la voglia di partecipazione, anche se diminuiscono gli spazi.
Questo 1° maggio si celebra nell’Anno della Misericordia: misericordia è ritrovare vincoli di fraternità e solidarietà in cui ci si prende cura dell’umanità che è in ognuno e in tutti, quale che sia l’appartenenza e, al tempo stesso, ci si prende cura dell’ambiente, che ci accoglie e ci custodisce in un integrale patto di solidarietà, come mirabilmente ha messo in luce Papa Francesco nella Laudato si’.