Dobbiamo avere paura dell’islam? È una domanda che molte persone si pongono; cerchiamo di abbozzare una risposta. La mia è semplice: la domanda è mal posta! La paura è già presente in tutto il mondo, sia tra i cristiani che tra i mussulmani. La si vede dagli innumerevoli episodi di ostilità e aggressività. Quello che è successo in Francia è un esempio eclatante, ma con una differenza: i morti europei fanno notizia e muovono i Capi di Stato e di governo. (E poi la saga delle due ragazze italiane, Vanessa e Greta, in Siria…). I morti dell’Iraq, Siria, Nigeria, Kenya, Sudan non impressionano nessuno o quasi. Ora, con il sangue in Europa, non si può più fare finta di non vedere!
Quindi il problema vero è come reagire e gestire la paura che attanaglia il mondo, soprattutto musulmano e cristiano, per promuovere una convivenza civile rispettosa e gioiosa, in un mondo decisamente diverso da una sessantina di anni fa.
Sorpresi dal pluralismo
Quando io ero ragazzo, negli anni Cinquanta, non c’era la paura di oggi. Le nostre porte erano aperte, i lucchetti sconosciuti, le finestre senza inferriate… La società era molto omogenea; i semi di paura, minimi. Nell’Alta Valle del Tevere, nel Comune di San Giustino dove sono nato, eravamo tutti italiani e umbri; parlavamo lo stesso dialetto, praticavamo la stessa religione, il parroco e le suore erano le uniche figure religiose, e rispettate da tutti. Una migrazione interna era già iniziata in Italia: dal Meridione la gente si spostava al Nord, e non sempre tutto filava liscio, ma più o meno ci si sentiva tutti parte di un solo popolo. Chi conosceva un musulmano o un africano o un marocchino o un romeno? L’unico pluralismo a cui eravamo abituati era a livello di partiti: democristiani, comunisti, missini, liberali, socialisti… Un pluralismo che non rendeva nessuno “straniero” e non generava paura.
Poi arrivano gli anni Ottanta, con l’inizio delle grandi migrazioni dal Sud del mondo: Africa, America Latina, Medio Oriente, spinti dalla miseria e dall’ingiustizia strutturale, dai disastri naturali, siccità, alluvioni, terremoti, o dalle guerre civili e colpi di Stato. Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, i flussi migratori si aprono all’Est dell’Europa: Polonia, Romania, Albania.
Ora il pluralismo è a tutti i livelli (culturale, religioso, sociale, economico e perfino ambientale) e certamente si intensificherà. Una volta l’Europa era cristiana, il Medio Oriente e il Nord Africa fondamentalmente musulmani, e in mezzo c’erano centinaia di chilometri! Nel 2000, africani ed europei, musulmani e cristiani vivono nello stesso paese, lavorano nella stessa fabbrica, camminano gomito a gomito nella stessa strada… Sì, viviamo in un mondo molto pluralista a cui nessuno è stato preparato: né i locali che vivevano in Europa da millenni, né i nuovi arrivati che pensavano solo al pane e al lavoro, e alla realizzazione di un sogno agognato, sedersi alla tavola del benessere occidentale, che avevano intravisto da lontano. La vicinanza, lo sappiamo bene, fa scoprire le differenza; a volte i pregiudizi riaffiorano, e da essi la paura e la diffidenza, che generano disagio e ostilità.
Libertà di espressione?
Di fronte all’assassinio dei redattori del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, in tre milioni hanno risposto con la marcia a Parigi in difesa della libertà di espressione, individuale e sociale. Già, ma non tutto è così semplice in un mondo globale, dove ciò che avviene a Parigi in pochi minuti ha ripercussioni in tutti i Continenti. Se ne accorse Papa Benedetto XVI dopo il famoso discorso di Ratisbona del settembre 2006 che, al di là di ogni sua intenzione, incendiò il mondo islamico con violenze che durarono gioni e giorni, tanto che egli dovette intervenire per spiegare e rettificare…
Il rispetto delle convinzioni altrui è un importante aspetto delle libertà personali. Se altri si fanno beffe di me, mi insultano per la mia fede, non sono libero di essere me stesso. In altre parole, non esiste vera libertà personale senza il rispetto dell’altro e di ciò in cui crede e da cui si sente ispirato. Nel viaggio in Sri Lanka e Filippine, Papa Francesco lo ha ripetuto in tutti i modi, commentando così la strage di Charlie Hebdo: “La religione non può mai uccidere, non si può farlo in nome di Dio”. Ma ha pure aggiunto: “Non si può provocare, non si può prendere in giro la religione di un’altra persona. Non va bene”.
Con queste parole il Papa ha voluto rispondere alla domanda di un cronista francese che gli chiedeva: “Fino a che punto ci si può spingere con la libertà di espressione?”. Poi ha chiarito ulteriormente: “Sì alla libertà di espressione. Ma se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno”. Questo il limite che, secondo il Papa, regola la libertà religiosa: “Non si ‘giocattolizza’ la religione degli altri”. Bergoglio ha ricordato che “la libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere”.
È interessante che negli Stati Uniti i grandi quotidiani e le più importanti riviste siano state concordi nel non riprodurre le vignette offensive pubblicate da Charlie Hebdo, perché troppo irrispettose nei confronti del Profeta e delle masse di credenti nell’islam, ma anche perché lo sanno bene che poi arriva la ritorsione.
In Francia – così come nel resto d’Europa – l’atteggiamento offensivo veniva dato per scontato da tanta gente, ma non dai musulmani, che sono milioni, e anche da tanti altri che rispettano le altre religioni e credono nella convivenza dignitosa delle diverse fedi e culture. Persone che non si riconoscono nel dileggio e nell’insulto. Tanta gente guardava appena quelle vignette e rideva, “Guarda un po’ questi, che pazzi! Sono scandalosi”. Ma il veleno, lo sappiamo, alla fine avvelena e uccide.
Nel mondo globale, in cui la grandissima maggioranza si identifica con una religione e la comunicazione mette sul mercato universale ogni affermazione, Charlie Hebdo era ed è molto offensivo, e quindi incita alla violenza, anche se questo poteva non essere nelle intenzioni dei redattori. I fatti sono più reali delle intenzioni.
Lo stesso fondatore del settimanale, Delfeil de Ton, a suo tempo si era già distanziato dallo stile che la rivista aveva assunto e in un suo recente articolo, dopo i tragici eventi del 7 gennaio, così si è espresso: “Che bisogno c’era di trascinare tutti in questa escalation? Ci si crede invulnerabili. Per anni, decine di anni, si fa provocazione, e poi un giorno la provocazione si ritorce contro di noi. Non bisognava farlo!”. Del resto, anche all’interno dello stesso gruppo redazionale, vi era chi non era d’accordo su questa linea. Come ancora riporta l’anziano fondatore, persino Wolinski (una delle vittime) aveva ripetuto più volte: “Credo che siamo degli incoscienti e degli imbecilli, che corriamo un rischio inutile. Tutto qui”.
Bisogna anche rendersi conto che la grandissima maggioranza della popolazione mondiale è fortemente religiosa e non è disposta a farsi insultare, ridicolizzare, vilipendere da un manipolo di giornalisti!
Alla luce del Vaticano II
Nei mille anni che corrono dal primo al secondo millennio della nostra storia si sono registrate violenze estreme. Pressapoco potremmo affermare che il secondo millennio è iniziato con nove Crociate fra cristiani e musulmani, ed è finito con due Guerre mondiali. Ma tra il secondo e il terzo millennio (da poco iniziato) abbiamo vissuto un evento di straordinaria portata: il Concilio ecumenico Vaticano II, di cui in questo 2015 celebriamo i 50 anni dalla conclusione. Una magnifica opportunità per rivisitarne il messaggio, approfondirlo e diffonderlo.
Due dei documenti più significativi e francamente anche tra i più rivoluzionari sono stati Nostra aetate sulle religioni non cristiane e Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Un grande passo in avanti verso la giusta apertura alla diversità e al rispetto reciproco.
Per dare più visibilità ed efficacia a queste nuove direttive è stato fondato, nel 1988, il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Due anni prima (26 ottobre 1986), l’evento carismatico di Assisi, con il raduno dei leader mondiali delle varie religioni per pregare per la pace, in quel tempo molto difficile – soprattutto nella ex Jugoslavia, devastata da guerre e ritorsioni etniche feroci, e dove l’elemento religioso, sfortunatamente, giocava un ruolo negativo rilevante.
Oggi, Papa Francesco si fa garante che questa straordinaria eredità venga messa a profitto, e invita la Chiesa cattolica e tutto il mondo cristiano a prendere l’iniziativa di abbattere muri e promuovere, con gesti significati e costanti, la liberazione dalla paura fra le varie religioni mondiali. Alcune righe dal suo documento programmatico, la Evangelii gaudium, mettono in risalto tale dimensione: “Un atteggiamento di apertura nella verità e nell’amore deve caratterizzare il dialogo con i credenti delle religioni non cristiane, nonostante i vari ostacoli e le difficoltà, particolarmente i fondamentalismi da ambo le parti. Questo dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose”. Questo dialogo è in primo luogo una conversazione sulla vita umana o semplicemente, come propongono i vescovi dell’India, “un’atteggiamento di apertura verso di loro, condividendo le loro gioie e le loro pene”. Dunque siamo chiamati ad abbattere i muri per eliminare la paura e creare sinergia, così da sconfiggere le grandi piaghe della umanità, come le moderne schiavitù, l’impoverimento, i conflitti e le ingiustizie strutturali e ambientali.
Umbria all’avanguardia
Noi umbri siamo gli eredi di Francesco, colui che cercò di convincere il Papa Onorio III a passare dalla crociata all’incontro, muniti solo delle armi della fede e della attenzione e del rispetto. Non c’è dubbio che le crociate promossero un’odio e una paura che ancora perdurano ai nostri giorni. Francesco, a Damietta nel 1219, cominciò ad aprire la mente dei musulmani alla possibilità di un cristianesimo e di cristiani diversi, fratelli e non nemici.
A Città di Castello, la mia diocesi di origine, abbiamo una lunga storia di tentativi di aperture, e anche iniziative particolari. Ricordo alcune delle più recenti attività della Caritas: nel novembre del 2009, nella sala del Consiglio comunale e 2013 nell’aula magna della scuola di San Filippo furono organizzati due incontri cui ebbi la fortuna di partecipare, di condividere la mia esperienza e di interagire con personalità di fede musulmana alle quali premeva assicurare un dialogo aperto e sincero sul territorio altotiberino.
Né si può dimenticare la lunga serie di incontri annuali organizzati da L’altrapagina sul problema del passaggio dallo “scontro” al “dialogo tra le culture” sotto la guida illuminata e unica di Raimon Panikkar, un grande cristiano – di padre hindu e madre catalana – capace di apprezzare le diversità, veramente libero dalla paura e dai pregiudizi verso le altre religioni.
Alla luce di questi grandi maestri, non ci resta che scegliere la strada che educa al pluralismo, al rispetto delle fedi, alla tolleranza, all’accoglienza e alla accettazione dell’altro/a. In fondo, il bene non può che generare bene.