di Daris Giancarlini
Un “martire”: si descrive così Cesare Battisti, ex militante dei Proletari armati per il comunismo, reo confesso di quattro omicidi e ora in carcere all’ergastolo dopo essere stato catturato il 12 gennaio scorso in Bolivia.
In una lettera consegnata a una rivista dell’area della sinistra estrema, Battisti definisce “un inferno” i suoi 15 anni di latitanza tra Francia e Brasile, si lamenta di aver subìto una “persecuzione spietata” e di “disinformazione” rispetto alle sue vicende e alla sua figura.
Battisti ritiene di essere stato “trasformato in un mito per poi essere abbattuto. Poco importa aggiunge – che quel mito sia fatto di carne e ossa, che non ne possa più di essere martirizzato”. Non una riga, nemmeno una parola per quel gioielliere, quel negoziante, quel carabiniere e quel poliziotto che morirono sotto i colpi che Battisti ammette, dopo oltre 40 anni, di aver sparato.
Nella stessa lettera dalla sua cella, Battisti ammette che “non è valsa la pena” fare la lotta armata: insomma, un tragico abbaglio. Che evidentemente dura ancora oggi, se nella solitudine della sua cella quest’uomo non riesce ancora a esprimere un minimo di pentimento per aver stroncato vite innocenti. Martiri, loro sì, di una visione distorta della politica e della vita, ma anche della cieca illusione di farsi ‘superuomini’ con pieno potere di vita e di morte su chicchessia.