COMMENTO AL VANGELO Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/category/rubriche/commento-vangelo-2/ Settimanale di informazione regionale Thu, 06 Jan 2022 16:04:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg COMMENTO AL VANGELO Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/category/rubriche/commento-vangelo-2/ 32 32 I criteri per scoprire il Re https://www.lavoce.it/i-criteri-per-scoprire-re/ Wed, 22 Dec 2021 17:34:14 +0000 https://www.lavoce.it/?p=64200

“Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,11). È la domanda che soggiace a tutto il tempo di Avvento, seppur mai espressa nella liturgia. È la domanda che sale dalla disperazione di un popolo, rivolta a ogni profeta che annuncia una novità. Popolo stanco dell’oppressione che sta subendo, sfinito dall’attesa, che rischia di far spegnere la speranza. Aveva estrema necessità della notte di Natale quel popolo. Israele, segno di speranza per l’umanità intera, aveva estrema necessità di avere un segno tangibile delle promesse antiche. Non i segni simbolici: un bambino nuovo re apportatore di pace, la liberazione dalla schiavitù, il popolo riunito sotto un unico sovrano. Tutto ciò lasciava sempre un desiderio da colmare.

Il popolo aveva necessità della luce

Era necessario che “il popolo che abitava nelle tenebre” avesse visto finalmente la luce! Era necessario che il popolo abitante “in terra tenebrosa” avesse intravisto il sorgere di un nuovo giorno (Is 9,1). C’è stato un momento nella storia in cui questa notte, che sembrava una coltre impenetrabile, si è trasformata in un grembo che custodiva la luce. “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra contempliamo i tuoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo”. Con queste parole la liturgia della notte di Natale ci introduce all’ascolto della Parola di luce.

Al centro Maria, Giuseppe e il Bambino

Il testo evangelico descrive il fatto storico dell’attesa di un popolo, un fatto atteso dall’umanità intera. Il racconto dell’evangelista Luca indica le coordinate storico-geografiche del mistero dell’Incarnazione. Il censimento di Cesare Augusto, l’indicazione del potere temporale che governa la regione della Siria nella persona di Quirino, si intreccia con la vicenda umana di Maria e Giuseppe che attendono la nascita del loro bambino (Lc 2,1-3). Il Vangelo introduce una inversione di priorità: al centro Maria, Giuseppe e il Bambino, “profughi” dalla Galilea per rispondere a un comando del potere; e sullo sfondo, il potere, che non comprende ciò che sta accadendo. Nel racconto del Natale dell’evangelista Matteo scopriremo addirittura che il potere non sopporterà la prospettiva regale di questo bambino (Mt 2,3-4). L’evangelista Giovanni, nel brano del Prologo, collocherà la nascita di Gesù non solo al centro della storia conosciuta (“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, Gv 1,14) ma nel cuore stesso di Dio, la cui storia non è delimitata dal tempo, ma ha il respiro dell’eternità: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1).

Dio ha altri criteri per riconoscere la dignità regale

La storia della salvezza rivela che Dio ha altri criteri per riconoscere la dignità regale. Per Lui le figure preminenti sono i pastori, vere “sentinelle” della notte, pronti a lasciarsi sorprendere dalla novità di Dio (Lc 2,8-9); Maria, che si definisce la serva del Signore (Lc 1,18) e canta la sua umiltà, riconoscendo che è Dio l’artefice di tutto ciò che è accaduto in lei (Lc 1,46-49); Giuseppe, l’uomo giusto, che comprende il senso profondo della legge, da applicare in relazione al cuore stesso dei comandamenti: l’amore. Questo criterio gli consentirà di aprire il suo cuore alla comprensione del mistero di cui è fatto partecipe (Mt 1, 19-21). Queste figure danno un volto alle Beatitudini (Mt 5, 1-12). E accanto a esse scorrono i volti degli umili della terra, spesso umiliati dai potenti, ma che Dio ricompensa dando loro il “trono regale” del paradiso.

La fedeltà di Dio

Quella notte di duemila anni fa è stata necessaria anche per noi, perché ci parla della fedeltà indefettibile di Dio e ci ricorda che Lui è fedele per sempre. Questa notte che celebriamo ci è necessaria perché ci ricorda che, se sappiamo sostare nella notte, i nostri occhi rivelano una capacità inaudita, non compresa alla luce del giorno: sanno fendere l’oscurità e scorgere l’invisibile. Per questo san Francesco seppe vedere nel presepe di Greccio il bambino Gesù vivente.

Cosa cerchiamo nel Natale?

Noi oggi che cosa cerchiamo nel Natale? Il presepe vivente artificiosamente ricreato nelle nostre strade, con costumi del tempo, musiche e armonie che sollecitano i sentimenti e qualche lacrima? Ci sentiamo uomini e donne del Natale perché lo difendiamo da qualche poco intelligente proposta? Pensiamo di poterci fregiare della medaglia di araldi della fede per questo? C’è un pellegrinaggio fisico da compiere per il Natale: è il percorso che ci conduce davanti al presepe delle nostre comunità eucaristiche, dove il bambino Gesù è vivente nell’eucarestia. C’è un pellegrinaggio del cuore da compiere, quello che ci conduce presso l’umanità ridotta a scarto dagli Erode del nostro tempo, che ci conduce ai confini dei muri, costruiti dall’odio, che la giustizia prima o poi farà ricadere sugli ingegneri del male. Ma noi da quale parte del muro stiamo?]]>

“Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,11). È la domanda che soggiace a tutto il tempo di Avvento, seppur mai espressa nella liturgia. È la domanda che sale dalla disperazione di un popolo, rivolta a ogni profeta che annuncia una novità. Popolo stanco dell’oppressione che sta subendo, sfinito dall’attesa, che rischia di far spegnere la speranza. Aveva estrema necessità della notte di Natale quel popolo. Israele, segno di speranza per l’umanità intera, aveva estrema necessità di avere un segno tangibile delle promesse antiche. Non i segni simbolici: un bambino nuovo re apportatore di pace, la liberazione dalla schiavitù, il popolo riunito sotto un unico sovrano. Tutto ciò lasciava sempre un desiderio da colmare.

Il popolo aveva necessità della luce

Era necessario che “il popolo che abitava nelle tenebre” avesse visto finalmente la luce! Era necessario che il popolo abitante “in terra tenebrosa” avesse intravisto il sorgere di un nuovo giorno (Is 9,1). C’è stato un momento nella storia in cui questa notte, che sembrava una coltre impenetrabile, si è trasformata in un grembo che custodiva la luce. “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra contempliamo i tuoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo”. Con queste parole la liturgia della notte di Natale ci introduce all’ascolto della Parola di luce.

Al centro Maria, Giuseppe e il Bambino

Il testo evangelico descrive il fatto storico dell’attesa di un popolo, un fatto atteso dall’umanità intera. Il racconto dell’evangelista Luca indica le coordinate storico-geografiche del mistero dell’Incarnazione. Il censimento di Cesare Augusto, l’indicazione del potere temporale che governa la regione della Siria nella persona di Quirino, si intreccia con la vicenda umana di Maria e Giuseppe che attendono la nascita del loro bambino (Lc 2,1-3). Il Vangelo introduce una inversione di priorità: al centro Maria, Giuseppe e il Bambino, “profughi” dalla Galilea per rispondere a un comando del potere; e sullo sfondo, il potere, che non comprende ciò che sta accadendo. Nel racconto del Natale dell’evangelista Matteo scopriremo addirittura che il potere non sopporterà la prospettiva regale di questo bambino (Mt 2,3-4). L’evangelista Giovanni, nel brano del Prologo, collocherà la nascita di Gesù non solo al centro della storia conosciuta (“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, Gv 1,14) ma nel cuore stesso di Dio, la cui storia non è delimitata dal tempo, ma ha il respiro dell’eternità: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1).

Dio ha altri criteri per riconoscere la dignità regale

La storia della salvezza rivela che Dio ha altri criteri per riconoscere la dignità regale. Per Lui le figure preminenti sono i pastori, vere “sentinelle” della notte, pronti a lasciarsi sorprendere dalla novità di Dio (Lc 2,8-9); Maria, che si definisce la serva del Signore (Lc 1,18) e canta la sua umiltà, riconoscendo che è Dio l’artefice di tutto ciò che è accaduto in lei (Lc 1,46-49); Giuseppe, l’uomo giusto, che comprende il senso profondo della legge, da applicare in relazione al cuore stesso dei comandamenti: l’amore. Questo criterio gli consentirà di aprire il suo cuore alla comprensione del mistero di cui è fatto partecipe (Mt 1, 19-21). Queste figure danno un volto alle Beatitudini (Mt 5, 1-12). E accanto a esse scorrono i volti degli umili della terra, spesso umiliati dai potenti, ma che Dio ricompensa dando loro il “trono regale” del paradiso.

La fedeltà di Dio

Quella notte di duemila anni fa è stata necessaria anche per noi, perché ci parla della fedeltà indefettibile di Dio e ci ricorda che Lui è fedele per sempre. Questa notte che celebriamo ci è necessaria perché ci ricorda che, se sappiamo sostare nella notte, i nostri occhi rivelano una capacità inaudita, non compresa alla luce del giorno: sanno fendere l’oscurità e scorgere l’invisibile. Per questo san Francesco seppe vedere nel presepe di Greccio il bambino Gesù vivente.

Cosa cerchiamo nel Natale?

Noi oggi che cosa cerchiamo nel Natale? Il presepe vivente artificiosamente ricreato nelle nostre strade, con costumi del tempo, musiche e armonie che sollecitano i sentimenti e qualche lacrima? Ci sentiamo uomini e donne del Natale perché lo difendiamo da qualche poco intelligente proposta? Pensiamo di poterci fregiare della medaglia di araldi della fede per questo? C’è un pellegrinaggio fisico da compiere per il Natale: è il percorso che ci conduce davanti al presepe delle nostre comunità eucaristiche, dove il bambino Gesù è vivente nell’eucarestia. C’è un pellegrinaggio del cuore da compiere, quello che ci conduce presso l’umanità ridotta a scarto dagli Erode del nostro tempo, che ci conduce ai confini dei muri, costruiti dall’odio, che la giustizia prima o poi farà ricadere sugli ingegneri del male. Ma noi da quale parte del muro stiamo?]]>
Non perdiamo il vero bene! https://www.lavoce.it/non-perdiamo-il-vero-bene/ Thu, 07 Oct 2021 12:41:05 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62612

Gesù, sulla strada verso Gerusalemme, incontra un tale (Mc 10,17). Dal dialogo scaturisce un insegnamento per i discepoli: “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!” (v. 23). Un termine, questo, che nel brano ritorna ben tre volte (Mc 10, 23-25) e due volte associato al termine “vita eterna” (vv. 17 e 30), riproponendo come centrale la prospettiva ultima della nostra vita. Gesù ci aveva ricordato nel Vangelo di domenica scorsa che il regno di Dio appartiene ai bambini e a chi ritorna come loro (Mc 10,14), sono loro i veri maestri della vita per comprendere il regno di Dio. “E preso un bambino, lo pose in mezzo a loro” (Mc 9,36).

La vita eterna

Il tema della vita eterna è infatti l’argomento dell’uomo che incontra Gesù lungo la strada: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17). Quest’uomo, molto ricco, si approccia con il “vero tesoro” come se si parlasse di patrimonio da ereditare o da pretendere. Un atteggiamento simile lo ritroviamo nel brano del figlio che vuole andarsene dalla casa del padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta” (Lc 15,12).

L'amore verso il prossimo

L’atteggiamento dell’uomo descritto nel Vangelo di oggi non ha certo la strafottenza del giovane figlio che vuole andarsene da casa: è pio, devoto, si prostra davanti a Gesù, lo riconosce come Dio, lo appella infatti “maestro buono” (Mc 10,17). Ha osservato i comandamenti fin dalla giovinezza (v. 20). È Gesù che gli prospetta la seconda tavola delle Dieci parole: l’amore verso il prossimo (v. 19). Ma con quale atteggiamento vengono rispettate? Per amore? Per paura di perdere la faccia della persona educata? È il codice del buon cittadino di buona famiglia o quant’altro? “Queste cose le ho osservate” (v. 20), dirà di sé. C’è la consapevolezza che dietro queste parole ci sono le persone? Il “non uccidere” ha un nome implicito, quello del fratello; l’amore sponsale, da non tradire, ha dietro di sé una storia d’amore con una persona che ti ha dato la sua stessa vita; la verità non detta o negata può distruggere una persona; il furto, fatto di tante fattispecie, può far cadere nella disperazione quanti lo subiscono (v. 19).

Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri”

In realtà quest’uomo sembra andare con difficoltà oltre il rispetto formale, come il fratello maggiore nel brano citato precedentemente: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando” (Lc 15,19). Emerge, in questo parallelo tra i due brani citati, la tristezza di entrambi. Il testo odierno ci presenta quest’uomo che se ne va triste di fronte alla proposta più radicale di Gesù: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri” (Mc 10,21). Il testo di Luca presenta a sua volta il fratello maggiore che si rifiuta di far festa nella casa del padre... “Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morte ed è tornato in vita” (Lc 15,32).

“Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!”

Entrambi hanno tutto ma rischiano di perdere il “vero tesoro”: la gioia eterna nella casa del Padre, la vera ricchezza. Se hai tutto ma non sei disposto a perderlo per l’eredità che non si consuma, possederai dei beni ma rischi di perdere il Bene. Il “vieni e seguimi” (v. 21) ha bisogno di leggerezza, necessita della semplicità dei bambini che lasciano il gioco di grande valore economico per l’insignificanza economica di un Lego, con cui costruire insieme a un altro bambino i sogni che portano nel cuore. Condividere un sogno ha un valore inestimabile, e quando il sogno è quello di Dio, realizzarlo è la nostra gioia. Non solo quella promessa nell’eternità, ma qui e ora, cento volte ciò che abbiamo lasciato. È la consapevole consolazione che Gesù vuole trasferire ai discepoli, preoccupati dalla sua affermazione di fronte al rifiuto di quell’uomo che voleva la formula per avere in eredità la vita eterna (Mc 10,17): “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!” (Mc 10,23).

L'uomo non ha saputo investire l’unico vero bene: la sua vita.

Lo sguardo di amore di Gesù (v. 21) si tinge di delusione per l’occasione persa da quell’uomo di essere felice. L’uomo, che ha osservato i comandamenti fin dalla giovinezza (v. 20), non è stato un buon mercante, non ha saputo investire l’unico vero bene: la sua vita. Possiamo dire, con la prima lettura, che non ha chiesto la capacità di distinguere tra i beni che passano e quelli che restano per sempre. La sapienza e la prudenza sono da preferire a scettri e a troni (Sap 7,7-8). Non solo: l’autore considera queste virtù, infuse da Dio, di valore più alto di una gemma inestimabile (v. 9), fino ad amarle più della stessa vita (v. 10). Ma è sorprendente il fatto che, lasciando tutto per avere tali virtù, poi si può godere appieno di tutti gli altri beni.

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Gesù, sulla strada verso Gerusalemme, incontra un tale (Mc 10,17). Dal dialogo scaturisce un insegnamento per i discepoli: “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!” (v. 23). Un termine, questo, che nel brano ritorna ben tre volte (Mc 10, 23-25) e due volte associato al termine “vita eterna” (vv. 17 e 30), riproponendo come centrale la prospettiva ultima della nostra vita. Gesù ci aveva ricordato nel Vangelo di domenica scorsa che il regno di Dio appartiene ai bambini e a chi ritorna come loro (Mc 10,14), sono loro i veri maestri della vita per comprendere il regno di Dio. “E preso un bambino, lo pose in mezzo a loro” (Mc 9,36).

La vita eterna

Il tema della vita eterna è infatti l’argomento dell’uomo che incontra Gesù lungo la strada: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17). Quest’uomo, molto ricco, si approccia con il “vero tesoro” come se si parlasse di patrimonio da ereditare o da pretendere. Un atteggiamento simile lo ritroviamo nel brano del figlio che vuole andarsene dalla casa del padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta” (Lc 15,12).

L'amore verso il prossimo

L’atteggiamento dell’uomo descritto nel Vangelo di oggi non ha certo la strafottenza del giovane figlio che vuole andarsene da casa: è pio, devoto, si prostra davanti a Gesù, lo riconosce come Dio, lo appella infatti “maestro buono” (Mc 10,17). Ha osservato i comandamenti fin dalla giovinezza (v. 20). È Gesù che gli prospetta la seconda tavola delle Dieci parole: l’amore verso il prossimo (v. 19). Ma con quale atteggiamento vengono rispettate? Per amore? Per paura di perdere la faccia della persona educata? È il codice del buon cittadino di buona famiglia o quant’altro? “Queste cose le ho osservate” (v. 20), dirà di sé. C’è la consapevolezza che dietro queste parole ci sono le persone? Il “non uccidere” ha un nome implicito, quello del fratello; l’amore sponsale, da non tradire, ha dietro di sé una storia d’amore con una persona che ti ha dato la sua stessa vita; la verità non detta o negata può distruggere una persona; il furto, fatto di tante fattispecie, può far cadere nella disperazione quanti lo subiscono (v. 19).

Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri”

In realtà quest’uomo sembra andare con difficoltà oltre il rispetto formale, come il fratello maggiore nel brano citato precedentemente: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando” (Lc 15,19). Emerge, in questo parallelo tra i due brani citati, la tristezza di entrambi. Il testo odierno ci presenta quest’uomo che se ne va triste di fronte alla proposta più radicale di Gesù: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri” (Mc 10,21). Il testo di Luca presenta a sua volta il fratello maggiore che si rifiuta di far festa nella casa del padre... “Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morte ed è tornato in vita” (Lc 15,32).

“Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!”

Entrambi hanno tutto ma rischiano di perdere il “vero tesoro”: la gioia eterna nella casa del Padre, la vera ricchezza. Se hai tutto ma non sei disposto a perderlo per l’eredità che non si consuma, possederai dei beni ma rischi di perdere il Bene. Il “vieni e seguimi” (v. 21) ha bisogno di leggerezza, necessita della semplicità dei bambini che lasciano il gioco di grande valore economico per l’insignificanza economica di un Lego, con cui costruire insieme a un altro bambino i sogni che portano nel cuore. Condividere un sogno ha un valore inestimabile, e quando il sogno è quello di Dio, realizzarlo è la nostra gioia. Non solo quella promessa nell’eternità, ma qui e ora, cento volte ciò che abbiamo lasciato. È la consapevole consolazione che Gesù vuole trasferire ai discepoli, preoccupati dalla sua affermazione di fronte al rifiuto di quell’uomo che voleva la formula per avere in eredità la vita eterna (Mc 10,17): “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio!” (Mc 10,23).

L'uomo non ha saputo investire l’unico vero bene: la sua vita.

Lo sguardo di amore di Gesù (v. 21) si tinge di delusione per l’occasione persa da quell’uomo di essere felice. L’uomo, che ha osservato i comandamenti fin dalla giovinezza (v. 20), non è stato un buon mercante, non ha saputo investire l’unico vero bene: la sua vita. Possiamo dire, con la prima lettura, che non ha chiesto la capacità di distinguere tra i beni che passano e quelli che restano per sempre. La sapienza e la prudenza sono da preferire a scettri e a troni (Sap 7,7-8). Non solo: l’autore considera queste virtù, infuse da Dio, di valore più alto di una gemma inestimabile (v. 9), fino ad amarle più della stessa vita (v. 10). Ma è sorprendente il fatto che, lasciando tutto per avere tali virtù, poi si può godere appieno di tutti gli altri beni.

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Due modi di vedere la Legge https://www.lavoce.it/due-modi-di-vedere-la-legge/ Sun, 03 Oct 2021 11:40:27 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62596

L’evangelista Marco, anche questa volta, introduce il racconto con una locuzione che indica il cambio di orizzonte geografico, non presente nel testo liturgico: “Partito di là, venne nella regione della Giudea e al di là del fiume Giordano” (Mc 10,1). Ogni cambiamento geografico sembra essere anche un cambio tematico. Dalle periferie della “Galilea delle genti” al “cuore pulsante” della fede dei figli di Abramo. 

Gesù va verso Gerusalemme

Gesù ora procede decisamente verso Gerusalemme, nella regione della Giudea, la terra dove si rende visibile l’identità del popolo d’Israele. Il Tempio con le solenni liturgie del sacrificio, il rito annuale dell’accesso del Sommo Sacerdote nel luogo più inaccessibile, il Santo dei Santi. E ancora, la presenza delle scuole rabbiniche, dei farisei, dei sacerdoti e di tutto l’apparato liturgico cultuale, che rendeva “tempio” l’intera città di Gerusalemme.

Gesù si trova a dover rispondere ai farisei

Gesù, nei testi evangelici delle domeniche precedenti, aveva abbandonato la folla e aveva dedicato il suo insegnamento ai discepoli. Ora si trova davanti ancora una volta molta gente: “La folla accorse di nuovo” (10,1). Si ritrova costretto a rispondere ancora ai farisei, che con insistenza continuano a cercare un motivo per la sua condanna.  Il tentativo è quello di farlo “scivolare” su una eventuale contraddizione nei confronti della legge di Mosè. I farisei, ma anche altre categorie legate al tempio, avevano inviato emisdiani sari ad ascoltare i suoi insegnamenti quando era in Galilea: “Si riunirono intorno a lui i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme” (Mc 7,1).  Si sa che ciò che si racconta di “seconda mano” non sempre è preciso. Ma, soprattutto quando si è prevenuti, ogni parola può essere usata per accusare: “Alcuni farisei si avvicinarono per metterlo alla prova” (cfr. Mc 10,2). Dopo la polemica con costoro, Gesù dedicherà del tempo ad approfondire il tema con i suoi discepoli: “A casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento” (Mc 10,10).

E' lecito a un marito ripudiare la propria moglie?

A Gesù viene chiesto dai farisei se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie (v. 2). La questione è normata nel libro del Deuteronomio (dal greco: “seconda Legge”), un testo che riprende ed esplicita il Decalogo, già presentato in Esodo 20,117. I farisei non chiedono un approfondimento, ma vogliono metterlo alla prova (Mc 10,2). Approccio diverso da quello dei discepoli che, una volta entrati in casa, intendono approfondire l’insegnamento: “A casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento” (v. 10).

Al posto della Legge Gesù mette al centro l'uomo

Non è la prima volta che i farisei “usano” Mosè per evidenziare l’“ereticità” di Gesù, altre volte lo accuseranno di essere contro la legge donata da Dio: le guarigioni di sabato, le spighe strappate di sabato, le discussioni sul digiuno (Mc 2- 3). Con le risposte alle obiezioni, Gesù mette al centro l’uomo, non la legge (Mc 2,27). Tutto ciò porterà al pretesto per la condanna di Gesù, espressa già all’inizio della sua missione: “E i farisei uscirono subito con gli ero- e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (Mc 3,6). Il testo di riferimento usato dai farisei è Dt 24,1-4: norme relative al divorzio. La norma sembra non dare opzioni interpretative. Alla domanda diretta dei farisei, Gesù chiede quale era stato il pronunciamento di Mosè, e i medesimi rispondono: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla” (Mc 10,35). I farisei immaginano di aver “incastrato” Gesù: o perde la faccia di fronte alla gente, rinnegando la sua misericordia verso chi sbaglia, oppure rinnega la Legge e quindi è reo di morte.

Per Gesù al centro di tutto c'è la creatura, immagine e somiglianza di Dio

Gli stretti orizzonti nel quale si muovono i nemici di Gesù sono ulteriormente ristretti dalla “malafede”... Nell’orizzonte di Gesù, invece, al centro di tutto c’è la creatura, immagine e somiglianza di Dio, nella sua dualità di uomo e donna (Gen 1,27), vertice di tutta la creazione. Nello stesso tempo Gesù conosce bene la funzione pedagogica della Legge, nei confronti della quale si mostra libero, ma indicando sempre una norma più radicale: “Per la durezza del vostro cuore, Mosè scrisse per voi questa norma” (Mc 10,5).

I due diventeranno una carne sola

Dopo l’obiezione, Gesù rimanda al principio fondante l’unione dell’uomo e della donna: “I due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne” (v. 8).  Questa non è una norma, ma è il codice genetico dell’amore, lo stesso Dna che struttura l’uomo, che è fatto di infinito e cammina con la logica del per sempre , vero anelito di felicità.  Il mondo è governato dal precario e dall’indefinito, costringendo alla regola del “tutto e subito”. La norma liberante dell’amore fa camminare la persona sui binari che conducono all’eternità, secondo la logica “un po’ alla volta, ma per sempre”.

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L’evangelista Marco, anche questa volta, introduce il racconto con una locuzione che indica il cambio di orizzonte geografico, non presente nel testo liturgico: “Partito di là, venne nella regione della Giudea e al di là del fiume Giordano” (Mc 10,1). Ogni cambiamento geografico sembra essere anche un cambio tematico. Dalle periferie della “Galilea delle genti” al “cuore pulsante” della fede dei figli di Abramo. 

Gesù va verso Gerusalemme

Gesù ora procede decisamente verso Gerusalemme, nella regione della Giudea, la terra dove si rende visibile l’identità del popolo d’Israele. Il Tempio con le solenni liturgie del sacrificio, il rito annuale dell’accesso del Sommo Sacerdote nel luogo più inaccessibile, il Santo dei Santi. E ancora, la presenza delle scuole rabbiniche, dei farisei, dei sacerdoti e di tutto l’apparato liturgico cultuale, che rendeva “tempio” l’intera città di Gerusalemme.

Gesù si trova a dover rispondere ai farisei

Gesù, nei testi evangelici delle domeniche precedenti, aveva abbandonato la folla e aveva dedicato il suo insegnamento ai discepoli. Ora si trova davanti ancora una volta molta gente: “La folla accorse di nuovo” (10,1). Si ritrova costretto a rispondere ancora ai farisei, che con insistenza continuano a cercare un motivo per la sua condanna.  Il tentativo è quello di farlo “scivolare” su una eventuale contraddizione nei confronti della legge di Mosè. I farisei, ma anche altre categorie legate al tempio, avevano inviato emisdiani sari ad ascoltare i suoi insegnamenti quando era in Galilea: “Si riunirono intorno a lui i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme” (Mc 7,1).  Si sa che ciò che si racconta di “seconda mano” non sempre è preciso. Ma, soprattutto quando si è prevenuti, ogni parola può essere usata per accusare: “Alcuni farisei si avvicinarono per metterlo alla prova” (cfr. Mc 10,2). Dopo la polemica con costoro, Gesù dedicherà del tempo ad approfondire il tema con i suoi discepoli: “A casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento” (Mc 10,10).

E' lecito a un marito ripudiare la propria moglie?

A Gesù viene chiesto dai farisei se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie (v. 2). La questione è normata nel libro del Deuteronomio (dal greco: “seconda Legge”), un testo che riprende ed esplicita il Decalogo, già presentato in Esodo 20,117. I farisei non chiedono un approfondimento, ma vogliono metterlo alla prova (Mc 10,2). Approccio diverso da quello dei discepoli che, una volta entrati in casa, intendono approfondire l’insegnamento: “A casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento” (v. 10).

Al posto della Legge Gesù mette al centro l'uomo

Non è la prima volta che i farisei “usano” Mosè per evidenziare l’“ereticità” di Gesù, altre volte lo accuseranno di essere contro la legge donata da Dio: le guarigioni di sabato, le spighe strappate di sabato, le discussioni sul digiuno (Mc 2- 3). Con le risposte alle obiezioni, Gesù mette al centro l’uomo, non la legge (Mc 2,27). Tutto ciò porterà al pretesto per la condanna di Gesù, espressa già all’inizio della sua missione: “E i farisei uscirono subito con gli ero- e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (Mc 3,6). Il testo di riferimento usato dai farisei è Dt 24,1-4: norme relative al divorzio. La norma sembra non dare opzioni interpretative. Alla domanda diretta dei farisei, Gesù chiede quale era stato il pronunciamento di Mosè, e i medesimi rispondono: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla” (Mc 10,35). I farisei immaginano di aver “incastrato” Gesù: o perde la faccia di fronte alla gente, rinnegando la sua misericordia verso chi sbaglia, oppure rinnega la Legge e quindi è reo di morte.

Per Gesù al centro di tutto c'è la creatura, immagine e somiglianza di Dio

Gli stretti orizzonti nel quale si muovono i nemici di Gesù sono ulteriormente ristretti dalla “malafede”... Nell’orizzonte di Gesù, invece, al centro di tutto c’è la creatura, immagine e somiglianza di Dio, nella sua dualità di uomo e donna (Gen 1,27), vertice di tutta la creazione. Nello stesso tempo Gesù conosce bene la funzione pedagogica della Legge, nei confronti della quale si mostra libero, ma indicando sempre una norma più radicale: “Per la durezza del vostro cuore, Mosè scrisse per voi questa norma” (Mc 10,5).

I due diventeranno una carne sola

Dopo l’obiezione, Gesù rimanda al principio fondante l’unione dell’uomo e della donna: “I due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne” (v. 8).  Questa non è una norma, ma è il codice genetico dell’amore, lo stesso Dna che struttura l’uomo, che è fatto di infinito e cammina con la logica del per sempre , vero anelito di felicità.  Il mondo è governato dal precario e dall’indefinito, costringendo alla regola del “tutto e subito”. La norma liberante dell’amore fa camminare la persona sui binari che conducono all’eternità, secondo la logica “un po’ alla volta, ma per sempre”.

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Confini umani, troppo umani https://www.lavoce.it/confini-umani-troppo-umani/ Fri, 24 Sep 2021 09:27:30 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62511

La frase conclusiva della seconda lettura di questa domenica sembra agganciarsi ad uno dei temi delle domeniche precedenti: “Avete condannato e ucciso il giusto, ed egli non vi ha opposto resistenza” (Gc 5,6). La prima lettura di domenica scorsa sottolineava l’intenzione malvagia degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni” (Sap 2,12).

Maltrattato si lasciò umiliare

Il secondo annuncio della Passione identificava Gesù come il giusto perseguitato e ucciso dagli empi: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno” (Mc 9,31). A questa malvagità degli empi il giusto risponde con una giustizia che è di scandalo: “Maltrattato, si lasciò umiliare, e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte a suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). È lo scandalo di un Dio che sceglie la debolezza anziché usare le armi dell’onnipotenza di fronte all’ingiustizia umana.

Piccoli, nella consapevolezza della fede

Il testo evangelico di questa domenica usa questo termine, “scandalo”, esplicitamente quattro volte (Mc 9,42-45), riferito ad azioni che turbano “i piccoli” (v. 42). Questo termine non è un aggancio al termine “bambini” di cui si parlava domenica scorsa (Mc 9,36-37). Gesù con la parola “piccoli” intende piccoli nella consapevolezza della fede.

Nella liturgia odierna non è difficile scorgere un altro scandalo, non evidente, ma chiaro agli occhi dei discepoli, e che potremmo ri-dire così: “Maestro, uno che non è dei nostri si è arrogato il diritto di compiere delle opere in tuo nome, bisogna impedirglielo” (cfr. Mc 9,38). Qualcosa di simile è narrato nella prima lettura : “Alcuni che non erano nel luogo stabilito in cui si riceveva lo Spirito, ora stanno profetando: non possono farlo” (cfr. Nm 11, 26-28).

Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me

Gesù nella prima situazione, e Mosè nella seconda, danno una risposta perfettamente sovrapponibile: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me” (Mc 9,39). “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!” (Nm 11,29). Impedire che altri profetizzano, impedire che altri compiano opere in nome di Gesù! Gli “altri” e “noi”: una barriera posta da chi intende confinare Dio all’interno di una identità culturale, una nazione, un popolo, uno schema etico-morale, una religione.

Il nostro Dio, rivelato in Gesù Cristo, si è “confinato” nell’uomo non per “con-stringere”, ossia stringersi con lui nei limiti umani, ma per annunciargli che potrà finalmente liberarsi dai vincoli dell’egoismo ed essere veramente libero, ossia pienamente umano, a immagine e somiglianza realizzata di Dio. Il termine “scandalo” - che significa ostacolo, inciampo, insidia - nel dizionario Treccani viene così definito: turbamento della coscienza e della serenità altrui, provocato da azione, contegno, fatto o pa- (La definizione prosegue con connotazioni morali che qui non interessano).

L'azione di Dio a volte genera un turbamento della coscienza

L’azione di Dio alcune volte genera un vero turbamento della coscienza, perché sembra superare i confini della concezione “troppo umana” della fede, che la “costringe” a diventare regola di comportamento, impianto etico, identità geografica e/o culturale. È lo “scandalo necessario”, che costringe a rivedere la propria concezione di un Dio che si è fatto uomo.

La Sua incarnazione non ha come fine l’esilio dalla nostra umanità, ma di darle compimento. Ben diverso è lo scandalo procurato dall’uomo credente, dal cosiddetto fedele. Nel testo del Vangelo, Gesù si rivolge ai “suoi”, quelli che lo seguono; e l’immagine della menomazione fisica, preferibile allo scandalizzare i piccoli, è rivolta proprio a loro (Mc 9,42-47).

Lo scandalo di Dio purifica la fede del credente

La distinzione noi-loro, nella logica umana, identifica un confine; nella logica di Dio, una responsabilità per quanti si definiscono credenti. Lo scandalo dei credenti, come lo definisce Gesù, pone un serio ostacolo all’evangelizzazione. Lo scandalo di Dio, invece, purifica la fede del credente, e ne fa un’occasione di liberazione dalle incrostazioni umane che ostacolano, ancora oggi, l’annuncio del Vangelo.

Solo la legge del Signore è perfetta e rinfranca l’anima, come ci ricorda il Salmo di questa domenica (Sal 19,8.10.12-14). Ogni ri-traduzione umana, seppur necessaria, rappresenta sempre una frattura, che solo l’umile consapevolezza della distanza tra Dio e l’uomo rende sanabile. Il salmista stesso chiede di essere salvato dall’orgoglio di mettersi al posto di Dio. Chiediamolo anche noi, di poter superare i confini che abbiamo posto alle nostre identità, confondendoli con la difesa della fede.

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La frase conclusiva della seconda lettura di questa domenica sembra agganciarsi ad uno dei temi delle domeniche precedenti: “Avete condannato e ucciso il giusto, ed egli non vi ha opposto resistenza” (Gc 5,6). La prima lettura di domenica scorsa sottolineava l’intenzione malvagia degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni” (Sap 2,12).

Maltrattato si lasciò umiliare

Il secondo annuncio della Passione identificava Gesù come il giusto perseguitato e ucciso dagli empi: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno” (Mc 9,31). A questa malvagità degli empi il giusto risponde con una giustizia che è di scandalo: “Maltrattato, si lasciò umiliare, e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte a suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). È lo scandalo di un Dio che sceglie la debolezza anziché usare le armi dell’onnipotenza di fronte all’ingiustizia umana.

Piccoli, nella consapevolezza della fede

Il testo evangelico di questa domenica usa questo termine, “scandalo”, esplicitamente quattro volte (Mc 9,42-45), riferito ad azioni che turbano “i piccoli” (v. 42). Questo termine non è un aggancio al termine “bambini” di cui si parlava domenica scorsa (Mc 9,36-37). Gesù con la parola “piccoli” intende piccoli nella consapevolezza della fede.

Nella liturgia odierna non è difficile scorgere un altro scandalo, non evidente, ma chiaro agli occhi dei discepoli, e che potremmo ri-dire così: “Maestro, uno che non è dei nostri si è arrogato il diritto di compiere delle opere in tuo nome, bisogna impedirglielo” (cfr. Mc 9,38). Qualcosa di simile è narrato nella prima lettura : “Alcuni che non erano nel luogo stabilito in cui si riceveva lo Spirito, ora stanno profetando: non possono farlo” (cfr. Nm 11, 26-28).

Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me

Gesù nella prima situazione, e Mosè nella seconda, danno una risposta perfettamente sovrapponibile: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me” (Mc 9,39). “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!” (Nm 11,29). Impedire che altri profetizzano, impedire che altri compiano opere in nome di Gesù! Gli “altri” e “noi”: una barriera posta da chi intende confinare Dio all’interno di una identità culturale, una nazione, un popolo, uno schema etico-morale, una religione.

Il nostro Dio, rivelato in Gesù Cristo, si è “confinato” nell’uomo non per “con-stringere”, ossia stringersi con lui nei limiti umani, ma per annunciargli che potrà finalmente liberarsi dai vincoli dell’egoismo ed essere veramente libero, ossia pienamente umano, a immagine e somiglianza realizzata di Dio. Il termine “scandalo” - che significa ostacolo, inciampo, insidia - nel dizionario Treccani viene così definito: turbamento della coscienza e della serenità altrui, provocato da azione, contegno, fatto o pa- (La definizione prosegue con connotazioni morali che qui non interessano).

L'azione di Dio a volte genera un turbamento della coscienza

L’azione di Dio alcune volte genera un vero turbamento della coscienza, perché sembra superare i confini della concezione “troppo umana” della fede, che la “costringe” a diventare regola di comportamento, impianto etico, identità geografica e/o culturale. È lo “scandalo necessario”, che costringe a rivedere la propria concezione di un Dio che si è fatto uomo.

La Sua incarnazione non ha come fine l’esilio dalla nostra umanità, ma di darle compimento. Ben diverso è lo scandalo procurato dall’uomo credente, dal cosiddetto fedele. Nel testo del Vangelo, Gesù si rivolge ai “suoi”, quelli che lo seguono; e l’immagine della menomazione fisica, preferibile allo scandalizzare i piccoli, è rivolta proprio a loro (Mc 9,42-47).

Lo scandalo di Dio purifica la fede del credente

La distinzione noi-loro, nella logica umana, identifica un confine; nella logica di Dio, una responsabilità per quanti si definiscono credenti. Lo scandalo dei credenti, come lo definisce Gesù, pone un serio ostacolo all’evangelizzazione. Lo scandalo di Dio, invece, purifica la fede del credente, e ne fa un’occasione di liberazione dalle incrostazioni umane che ostacolano, ancora oggi, l’annuncio del Vangelo.

Solo la legge del Signore è perfetta e rinfranca l’anima, come ci ricorda il Salmo di questa domenica (Sal 19,8.10.12-14). Ogni ri-traduzione umana, seppur necessaria, rappresenta sempre una frattura, che solo l’umile consapevolezza della distanza tra Dio e l’uomo rende sanabile. Il salmista stesso chiede di essere salvato dall’orgoglio di mettersi al posto di Dio. Chiediamolo anche noi, di poter superare i confini che abbiamo posto alle nostre identità, confondendoli con la difesa della fede.

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Tutta la forza degli umili https://www.lavoce.it/tutta-la-forza-degli-umili/ Sat, 18 Sep 2021 10:44:46 +0000 https://www.lavoce.it/?p=62294

Prosegue l’istruzione dei discepoli da parte di Gesù, che alterna spiegazioni, eventi e insegnamenti. Dopo la professione di fede di Pietro (Mc 8,29), e l’appellativo di Gesù nei suoi confronti: Satana (v. 33), il Maestro ricorda la sorte di chi decide di seguirlo: “Prenda la sua croce e mi segua” (v. 34).

Il primo annuncio della Passione, domenica scorsa, è seguito dall’esperienza della trasfigurazione sul monte Tabor (Mc 9,2-8). Questo fatto sembra rincuorare i Dodici, ma Gesù prosegue ribadendo ciò che accadrà all’arrivo a Gerusalemme: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma dopo tre giorni risorgerà” (Mc 9,31).

I Dodici non capivano cosa significasse risorgere dai morti

È il secondo annuncio della Passione a zittire i Dodici: “Avevano paura ad interrogarlo” (v. 32). Anche scendendo dal monte Tabor, dopo la Trasfigurazione, rimasero muti, non tanto per l’invito di Gesù, quanto per l’incapacità a comprendere il tema della resurrezione (Mc 9,9). Non capivano cosa significava risorgere dai morti, però non tacquero lungo la strada che li riportava a Cafarnao.

I Dodici discutono su chi fosse tra di loro il più grande

Gesù li interpella ancora una volta direttamente: “Di cosa stavate discutendo lungo la strada?” (Mc 9,33). Questa volta nessuno parla, un grande imbarazzo serpeggia tra i Dodici, gli argomenti trattati lungo la via sono lontani anni luce dalla logica di Gesù. Il silenzio imbarazzato nasconde un altro tradimento dell’insegnamento del Maestro. L’evangelista Marco annota che i Dodici “avevano discusso tra loro chi fosse il più grande” (Mc 9,34). Sarà dura per gli apostoli comprendere in che senso Gesù è il Messia, in che senso lui, il Maestro, sarà il liberatore d’Israele. Il cammino di Gesù con i suoi verso Gerusalemme sarà ritmato dagli annunci della Passione, ben tre. Dopo questo brano di Vangelo, ancora un’altra volta Gesù dovrà ribadire quale sarà la sua sorte (Mc 11,32-34), e per l’ennesima volta i Dodici discuteranno con criteri avulsi dalla logica del Vangelo (Mc 11,35-45).

Per essere il primo devi metterti all'ultimo posto

A questo punto è il Maestro a prendere la parola. Tutti si siedono attorno a lui (Mc 9,35). Chi è il più grande? Gesù la declina in un altro modo: vuoi essere il primo? Bene, non è un’aspirazione sbagliata, ma per essere il primo devi metterti all’ultimo posto per essere servo di tutti (v. 35), così dirà Gesù. Poi, nella logica sacramentale per cui alle parole seguono i gesti, pone un bambino in mezzo a loro: quello è veramente l’ultimo nella cultura del tempo, proprietà dei genitori e senza diritti. Gesù lo fa essere persona abbracciandolo (v. 37) e diviene portatore dei diritti divini: accogliendolo, si accoglie Dio stesso.

“Imparate da me che sono mite e umile di cuore”

Il bambino, ai margini della cultura del tempo, è posto al centro, il luogo proprio di chi insegna, ma senza la ridondanza di sentirsi al primo posto. È la mitezza e l’umiltà fatta persona. Gesù stesso dirà di sé: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il bambino, non avendo diritti, non solo è indifeso, ma non ha neanche le armi per difendersi. È la condizione che sceglierà Gesù nell’identificarsi con l’agnello immolato: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7), come ricorda questo brano proclamato nell’azione liturgica del Venerdì santo.

I miti e gli umili del mondo sono un pungolo alla malvagità dell’uomo

Eppure la mitezza e l’umiltà non hanno sempre come effetto la pacificazione dei cuori di chi gli sta davanti. Di fronte al volto di Gesù si scatena l’odio del mondo: gli empi, come ci ricorda la prima lettura (Sap 2,12.17-20), tendono insidie al giusto, perché con la sua condotta rinfaccia loro le trasgressioni (v. 12). I miti e gli umili del mondo sono un pungolo alla malvagità dell’uomo. Pur non avendo armi, sono un baluardo al bene; infatti mitezza e umiltà non sono sinonimi di debolezza e rassegnazione, ma esprimono la fortezza evangelica che non arretra di fronte alla violenza.

Il volto dei giusti è il volto di Dio

Il volto dei giusti è il volto dei Figli di Dio (Sap 2,18), che di fronte al sopruso diventa duro, spigoloso come il diamante, prezioso e capace di fendere il ventre molle della malvagità umana. È il volto che assume Gesù nel momento in cui decide di incamminarsi verso Gerusalemme, consapevole della sorte che lo attende. Il testo originale usa proprio il termine “rese duro il suo volto (Lc 9,51). Sulla scena di questo mondo, non sempre gli umili e gli indifesi trovano il sostegno solidale. Magari non si partecipa alla violenza contro di loro, ma si preferisce voltarsi dalla parte opposta. “Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti” dirà Martin Luther King. Elie Wiesel, superstite dell’Olocausto, aggiungerà: “L’opposto dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza”.

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Prosegue l’istruzione dei discepoli da parte di Gesù, che alterna spiegazioni, eventi e insegnamenti. Dopo la professione di fede di Pietro (Mc 8,29), e l’appellativo di Gesù nei suoi confronti: Satana (v. 33), il Maestro ricorda la sorte di chi decide di seguirlo: “Prenda la sua croce e mi segua” (v. 34).

Il primo annuncio della Passione, domenica scorsa, è seguito dall’esperienza della trasfigurazione sul monte Tabor (Mc 9,2-8). Questo fatto sembra rincuorare i Dodici, ma Gesù prosegue ribadendo ciò che accadrà all’arrivo a Gerusalemme: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma dopo tre giorni risorgerà” (Mc 9,31).

I Dodici non capivano cosa significasse risorgere dai morti

È il secondo annuncio della Passione a zittire i Dodici: “Avevano paura ad interrogarlo” (v. 32). Anche scendendo dal monte Tabor, dopo la Trasfigurazione, rimasero muti, non tanto per l’invito di Gesù, quanto per l’incapacità a comprendere il tema della resurrezione (Mc 9,9). Non capivano cosa significava risorgere dai morti, però non tacquero lungo la strada che li riportava a Cafarnao.

I Dodici discutono su chi fosse tra di loro il più grande

Gesù li interpella ancora una volta direttamente: “Di cosa stavate discutendo lungo la strada?” (Mc 9,33). Questa volta nessuno parla, un grande imbarazzo serpeggia tra i Dodici, gli argomenti trattati lungo la via sono lontani anni luce dalla logica di Gesù. Il silenzio imbarazzato nasconde un altro tradimento dell’insegnamento del Maestro. L’evangelista Marco annota che i Dodici “avevano discusso tra loro chi fosse il più grande” (Mc 9,34). Sarà dura per gli apostoli comprendere in che senso Gesù è il Messia, in che senso lui, il Maestro, sarà il liberatore d’Israele. Il cammino di Gesù con i suoi verso Gerusalemme sarà ritmato dagli annunci della Passione, ben tre. Dopo questo brano di Vangelo, ancora un’altra volta Gesù dovrà ribadire quale sarà la sua sorte (Mc 11,32-34), e per l’ennesima volta i Dodici discuteranno con criteri avulsi dalla logica del Vangelo (Mc 11,35-45).

Per essere il primo devi metterti all'ultimo posto

A questo punto è il Maestro a prendere la parola. Tutti si siedono attorno a lui (Mc 9,35). Chi è il più grande? Gesù la declina in un altro modo: vuoi essere il primo? Bene, non è un’aspirazione sbagliata, ma per essere il primo devi metterti all’ultimo posto per essere servo di tutti (v. 35), così dirà Gesù. Poi, nella logica sacramentale per cui alle parole seguono i gesti, pone un bambino in mezzo a loro: quello è veramente l’ultimo nella cultura del tempo, proprietà dei genitori e senza diritti. Gesù lo fa essere persona abbracciandolo (v. 37) e diviene portatore dei diritti divini: accogliendolo, si accoglie Dio stesso.

“Imparate da me che sono mite e umile di cuore”

Il bambino, ai margini della cultura del tempo, è posto al centro, il luogo proprio di chi insegna, ma senza la ridondanza di sentirsi al primo posto. È la mitezza e l’umiltà fatta persona. Gesù stesso dirà di sé: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il bambino, non avendo diritti, non solo è indifeso, ma non ha neanche le armi per difendersi. È la condizione che sceglierà Gesù nell’identificarsi con l’agnello immolato: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7), come ricorda questo brano proclamato nell’azione liturgica del Venerdì santo.

I miti e gli umili del mondo sono un pungolo alla malvagità dell’uomo

Eppure la mitezza e l’umiltà non hanno sempre come effetto la pacificazione dei cuori di chi gli sta davanti. Di fronte al volto di Gesù si scatena l’odio del mondo: gli empi, come ci ricorda la prima lettura (Sap 2,12.17-20), tendono insidie al giusto, perché con la sua condotta rinfaccia loro le trasgressioni (v. 12). I miti e gli umili del mondo sono un pungolo alla malvagità dell’uomo. Pur non avendo armi, sono un baluardo al bene; infatti mitezza e umiltà non sono sinonimi di debolezza e rassegnazione, ma esprimono la fortezza evangelica che non arretra di fronte alla violenza.

Il volto dei giusti è il volto di Dio

Il volto dei giusti è il volto dei Figli di Dio (Sap 2,18), che di fronte al sopruso diventa duro, spigoloso come il diamante, prezioso e capace di fendere il ventre molle della malvagità umana. È il volto che assume Gesù nel momento in cui decide di incamminarsi verso Gerusalemme, consapevole della sorte che lo attende. Il testo originale usa proprio il termine “rese duro il suo volto (Lc 9,51). Sulla scena di questo mondo, non sempre gli umili e gli indifesi trovano il sostegno solidale. Magari non si partecipa alla violenza contro di loro, ma si preferisce voltarsi dalla parte opposta. “Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti” dirà Martin Luther King. Elie Wiesel, superstite dell’Olocausto, aggiungerà: “L’opposto dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza”.

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Ostia d’amor scesa dal cielo https://www.lavoce.it/ostia-damor-scesa-dal-cielo/ Wed, 04 Aug 2021 13:32:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61607

Siamo ormai immersi nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. Questa domenica è la tappa centrale delle cinque domeniche dedicate al “poliedro” del mistero eucaristico. Le sue tante facce hanno bisogno di essere ricondotte all’unità. Ci aiutano in queste domeniche anche le “profezie eucaristiche” dell’Antico Testamento, ma soprattutto la lettura attenta di questo lungo capitolo, che nel suo percorso ha dei punti di svolta sottolineati dall’avverbio “allora” (Gv 6,5.11.14.30.34.41.52). Non sono solo un punto di svolta, ma anche una chiave di volta, su cui si regge il passaggio successivo, collegato con il precedente.

"Io sono il pane della vita"

Infatti il Vangelo di domenica scorsa si concludeva così: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà più sete, mai!” (Gv 6,35). Questa netta affermazione non lascia spazio a interpretazioni e provoca il mormorio dei giudei: “Allora si misero a mormorare contro di lui” (v. 41). Così inizia il brano evangelico di questa domenica, che richiama da vicino la mormorazione degli israeliti in Esodo 16,2 contro Mosè ed Aronne; ed è ben più di un “parlottare” contrariato, è una vera e propria ribellione a Dio.

Gesù è visto solo come figlio di Giuseppe

Gesù non è più il profeta da innalzare come re sul trono di Israele (Gv 6,14-15) a motivo della moltiplicazione del pane, ma sembra essere diventato un bestemmiatore. “Come può costui affermare di essere il pane vivo disceso dal cielo?”  affermano i giudei (v. 41). L’incredulità, ancora una volta, nasconde la realtà profonda del segno: gli avversari vedono in Gesù solo il figlio di Giuseppe e i legami terreni dei parenti (v. 42). Anche Luca racconta lo scandalo di un Dio che realizza le promesse in un figlio del falegname. Gesù nella sinagoga di Nazaret rischia la vita nel proclamare l’avvento del Regno (Lc 4,18-21).

Le affermazioni sempre più "scandalose" di Gesù

Il Vangelo prosegue con incedere progressivo verso affermazioni sempre più “scandalose”: “Io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41), ossia la vera manna che il Padre continua a donare; “io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti” (v. 48-49). E qui Gesù indica di andare oltre l’esempio che i giudei continuano a portare; chiede di andare oltre i ristretti orizzonti dei riferimenti che garantivano le nostre certezze. Infine, “io sono il pane vivo disceso dal cielo” (v. 51), ciò che il Padre dona non è un elemento della natura, ma la rivelazione di Dio stesso (“Io Sono”).

Lo scandalo dell'Incarnazione

Ultimo passaggio, lo scandalo dell’Incarnazione, che raggiunge l’apice: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Accanto a questo procedere dall’alto verso il basso, Gesù indica una meta alta verso la quale tendere: la vita eterna. La fede in Lui è garanzia di risurrezione nell’ultimo giorno (v. 44). La fede in Lui è garanzia di vita eterna (v. 47.51). Ma il pane di cui parla Gesù non è solo un viatico per il regno dei cieli: è la forza per costruire il Regno ora, adombrato in quelle opere di giustizia che provengono dalla fede, perché a nessuno manchi il pane quotidiano

Il pane che dà forza

Ma il pane di cui parla Gesù è anche il “pane dei forti” che dà forza, infatti nella prima lettura è profetizzata quell’eucarestia che risolleva i perduti e i disperati. L’angelo porta il pane di vita a Elia: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino” (1Re 19,7). Elia, rinfrancato nel corpo e nello spirito, “camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (v. 8). La vicenda di Elia è anche un insegnamento spirituale, il pellegrinaggio verso la “santa montagna” è un ritorno alle radici della fede, dell’alleanza con Dio. Elia era nello sconforto perché la sua missione era fallita; vuole lasciarsi morire (v. 4) perché la sua vita è un fallimento. Ma Dio stesso interviene nella figura dell’angelo, lo nutre con il pane disceso dal cielo, per ricondurlo alle sorgenti dell’amore, nell’intimità di quel Dio che è Padre per sempre.

L'Ostia divina

Sembrano appropriate le parole di un canto eucaristico, molto popolare nelle nostre comunità. Con uno sguardo di contemplazione si canta all’Ostia divina che è “ostia d’amor”, dicendo: “Tu degli angeli il sospiro, tu dell’uomo sei l’onor, tu dei forti la dolcezza, tu dei deboli il vigor, tu salute dei viventi, tu speranza di chi muor”.

Gesù è sempre lì, al crocicchio della strada

Ogni nostra crisi, ogni nostra caduta ha già una strada tracciata da ripercorrere, per superare il passaggio a vuoto che stiamo vivendo. Ritornare a quell’incontro con Lui che ci ha cambiato la vita. Vale per ogni vocazione: ritornare alle radici ci farà scoprire che Dio, con noi, non si era sbagliato... Noi ci siamo distratti un po’, ma Lui è sempre lì al crocicchio della strada, e attende e sorregge il nostro passo.

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Siamo ormai immersi nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. Questa domenica è la tappa centrale delle cinque domeniche dedicate al “poliedro” del mistero eucaristico. Le sue tante facce hanno bisogno di essere ricondotte all’unità. Ci aiutano in queste domeniche anche le “profezie eucaristiche” dell’Antico Testamento, ma soprattutto la lettura attenta di questo lungo capitolo, che nel suo percorso ha dei punti di svolta sottolineati dall’avverbio “allora” (Gv 6,5.11.14.30.34.41.52). Non sono solo un punto di svolta, ma anche una chiave di volta, su cui si regge il passaggio successivo, collegato con il precedente.

"Io sono il pane della vita"

Infatti il Vangelo di domenica scorsa si concludeva così: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà più sete, mai!” (Gv 6,35). Questa netta affermazione non lascia spazio a interpretazioni e provoca il mormorio dei giudei: “Allora si misero a mormorare contro di lui” (v. 41). Così inizia il brano evangelico di questa domenica, che richiama da vicino la mormorazione degli israeliti in Esodo 16,2 contro Mosè ed Aronne; ed è ben più di un “parlottare” contrariato, è una vera e propria ribellione a Dio.

Gesù è visto solo come figlio di Giuseppe

Gesù non è più il profeta da innalzare come re sul trono di Israele (Gv 6,14-15) a motivo della moltiplicazione del pane, ma sembra essere diventato un bestemmiatore. “Come può costui affermare di essere il pane vivo disceso dal cielo?”  affermano i giudei (v. 41). L’incredulità, ancora una volta, nasconde la realtà profonda del segno: gli avversari vedono in Gesù solo il figlio di Giuseppe e i legami terreni dei parenti (v. 42). Anche Luca racconta lo scandalo di un Dio che realizza le promesse in un figlio del falegname. Gesù nella sinagoga di Nazaret rischia la vita nel proclamare l’avvento del Regno (Lc 4,18-21).

Le affermazioni sempre più "scandalose" di Gesù

Il Vangelo prosegue con incedere progressivo verso affermazioni sempre più “scandalose”: “Io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41), ossia la vera manna che il Padre continua a donare; “io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti” (v. 48-49). E qui Gesù indica di andare oltre l’esempio che i giudei continuano a portare; chiede di andare oltre i ristretti orizzonti dei riferimenti che garantivano le nostre certezze. Infine, “io sono il pane vivo disceso dal cielo” (v. 51), ciò che il Padre dona non è un elemento della natura, ma la rivelazione di Dio stesso (“Io Sono”).

Lo scandalo dell'Incarnazione

Ultimo passaggio, lo scandalo dell’Incarnazione, che raggiunge l’apice: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Accanto a questo procedere dall’alto verso il basso, Gesù indica una meta alta verso la quale tendere: la vita eterna. La fede in Lui è garanzia di risurrezione nell’ultimo giorno (v. 44). La fede in Lui è garanzia di vita eterna (v. 47.51). Ma il pane di cui parla Gesù non è solo un viatico per il regno dei cieli: è la forza per costruire il Regno ora, adombrato in quelle opere di giustizia che provengono dalla fede, perché a nessuno manchi il pane quotidiano

Il pane che dà forza

Ma il pane di cui parla Gesù è anche il “pane dei forti” che dà forza, infatti nella prima lettura è profetizzata quell’eucarestia che risolleva i perduti e i disperati. L’angelo porta il pane di vita a Elia: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino” (1Re 19,7). Elia, rinfrancato nel corpo e nello spirito, “camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (v. 8). La vicenda di Elia è anche un insegnamento spirituale, il pellegrinaggio verso la “santa montagna” è un ritorno alle radici della fede, dell’alleanza con Dio. Elia era nello sconforto perché la sua missione era fallita; vuole lasciarsi morire (v. 4) perché la sua vita è un fallimento. Ma Dio stesso interviene nella figura dell’angelo, lo nutre con il pane disceso dal cielo, per ricondurlo alle sorgenti dell’amore, nell’intimità di quel Dio che è Padre per sempre.

L'Ostia divina

Sembrano appropriate le parole di un canto eucaristico, molto popolare nelle nostre comunità. Con uno sguardo di contemplazione si canta all’Ostia divina che è “ostia d’amor”, dicendo: “Tu degli angeli il sospiro, tu dell’uomo sei l’onor, tu dei forti la dolcezza, tu dei deboli il vigor, tu salute dei viventi, tu speranza di chi muor”.

Gesù è sempre lì, al crocicchio della strada

Ogni nostra crisi, ogni nostra caduta ha già una strada tracciata da ripercorrere, per superare il passaggio a vuoto che stiamo vivendo. Ritornare a quell’incontro con Lui che ci ha cambiato la vita. Vale per ogni vocazione: ritornare alle radici ci farà scoprire che Dio, con noi, non si era sbagliato... Noi ci siamo distratti un po’, ma Lui è sempre lì al crocicchio della strada, e attende e sorregge il nostro passo.

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Si fa presto a dire “pane”. Il discorso di Gesù sul “pane dal cielo” https://www.lavoce.it/si-fa-presto-a-dire-pane-il-discorso-di-gesu-sul-pane-dal-cielo/ https://www.lavoce.it/si-fa-presto-a-dire-pane-il-discorso-di-gesu-sul-pane-dal-cielo/#comments Sat, 31 Jul 2021 10:06:13 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61591

Il discorso sul pane, iniziato domenica scorsa con il capitolo 6 di Giovanni, prosegue questa domenica. Gli interrogativi sulla nostra vera fame, e su quale cibo può saziare la nostra fame di senso della vita, posti domenica scorsa, ora iniziano a disvelare tutta la loro potenzialità. La “fuga” di Gesù dalla folla, anziché scoraggiare i seguaci che avevano mangiato il pane, attira altre barche in quel luogo, tutti alla ricerca di Gesù (v. 23-24). Alcuni commentatori notano che buona parte di quanti provenivano da Tiberiade erano pagani, che si erano lasciati interrogare da quanto era accaduto. Una domanda di senso o un desiderio di sicurezza da trovare “a buon mercato”? Tutti ora fanno rotta per Cafarnao “di là dal mare” (v. 25). Sul monte, Gesù, davanti a una folla immensa, moltiplica il pane; ora, alla sinagoga di Cafarnao (v. 24.59), guida la folla a entrare nel “mistero” di quel segno, partendo dalla verità dell’atteggiamento di quanti lo stavano seguendo. “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (v. 26). Con queste parole Gesù va dritto alla verità di fondo che ha mosso una buona parte della folla; smaschera ogni ricostruzione poetica ed emotiva all’esperienza vissuta.

È bello stare insieme ma …

La bellezza dello stare insieme, il prato verde sul quale sedere (Gv 6,10), il tramonto che sollecita “emozioni spirituali”, la condivisione del pasto... Un apparato di dinamiche emotivo-sentimentali, che facilmente nascondono la verità a noi stessi. Alcune esperienze, anche con connotazione “religiosa”, anziché aiutarci a leggere la vita, ci distraggono da essa, supportando un “mondo parallelo” in cui rifugiarci. Alcune predicazioni e ritiri, cosiddetti spirituali, illudono anche sulle prospettive vocazionali, facendo disastri. Il dato di realtà dal quale Gesù vuole farci partire è il primo atto di fede nella sua persona, che getta una luce sulla nostra vita. Farà così anche con la samaritana: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui” (Gv 4,16). Da questo dato di verità inizia il cammino della donna, che riconoscerà Gesù come la vera fonte a cui abbeverarsi (v. 25).

La Parola di Gesù ci mette in discussione

Gesù mette in discussione i nostri riferimenti, che, senza il riferimento a Lui, rischiamo di interpretare a nostro uso e consumo. Quanti lo avevano seguito attestano la loro “buona fede” portando l’esempio di come Mosè abbia dato da mangiare al popolo d’Israele nel deserto: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto” (Gv 6,30-31). Il riferimento a Mosè è esplicitato nella prima lettura (Es 16,2-4.12-15). Ma neppure quel testo descrive semplicemente un’operazione di “salvataggio” dalla morte per fame. Mosè chiede al suo popolo un percorso nella fede, una prova che Dio stesso esige: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccogliere ogni giorno la razione di un giorno” (Es 16,4).

La fede non è una conquista

È lecito chiedersi: e domani? Ecco la prova: ti fidi della Sua parola? In realtà è quanto chiediamo nella preghiera del Padre nostro, nella versione di Luca, quando chiediamo il necessario per la nostra vita: “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano” (Lc 11,3). La fede non è una conquista fatta una volta per sempre, ma un dono da invocare ogni giorno, come ricorda il salmista: “Donaci, Signore, il pane del cielo”. Gesù ricorderà a quanti lo interrogano che non è stato Mosè a dare loro da mangiare, “ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero” (Gv 6,32). Gesù sovrappone il tempo presente al tempo passato nella coniugazione del verbo dare: “Non è Mosè che vi ha dato... Ma è il Padre che mio vi dà” (v. 32).

Gesù chiede di andare oltre il visibile

Il tempo presente indica un’azione che si sta svolgendo ora, ma con una prospettiva di continuità. E di questo pane, dirà Gesù: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v. 33). Coloro che ascoltano sembrano giungere a una prima professione di fede: “Signore, dacci sempre pane”. Ma di quale pane fanno richiesta? Gesù intende andare oltre, innalza l’asticella della fede: “Io sono il pane della vita” (v. 35). Da qui riprende il cammino nella fede, che fa vedere oltre il visibile: l’eucarestia.]]>

Il discorso sul pane, iniziato domenica scorsa con il capitolo 6 di Giovanni, prosegue questa domenica. Gli interrogativi sulla nostra vera fame, e su quale cibo può saziare la nostra fame di senso della vita, posti domenica scorsa, ora iniziano a disvelare tutta la loro potenzialità. La “fuga” di Gesù dalla folla, anziché scoraggiare i seguaci che avevano mangiato il pane, attira altre barche in quel luogo, tutti alla ricerca di Gesù (v. 23-24). Alcuni commentatori notano che buona parte di quanti provenivano da Tiberiade erano pagani, che si erano lasciati interrogare da quanto era accaduto. Una domanda di senso o un desiderio di sicurezza da trovare “a buon mercato”? Tutti ora fanno rotta per Cafarnao “di là dal mare” (v. 25). Sul monte, Gesù, davanti a una folla immensa, moltiplica il pane; ora, alla sinagoga di Cafarnao (v. 24.59), guida la folla a entrare nel “mistero” di quel segno, partendo dalla verità dell’atteggiamento di quanti lo stavano seguendo. “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (v. 26). Con queste parole Gesù va dritto alla verità di fondo che ha mosso una buona parte della folla; smaschera ogni ricostruzione poetica ed emotiva all’esperienza vissuta.

È bello stare insieme ma …

La bellezza dello stare insieme, il prato verde sul quale sedere (Gv 6,10), il tramonto che sollecita “emozioni spirituali”, la condivisione del pasto... Un apparato di dinamiche emotivo-sentimentali, che facilmente nascondono la verità a noi stessi. Alcune esperienze, anche con connotazione “religiosa”, anziché aiutarci a leggere la vita, ci distraggono da essa, supportando un “mondo parallelo” in cui rifugiarci. Alcune predicazioni e ritiri, cosiddetti spirituali, illudono anche sulle prospettive vocazionali, facendo disastri. Il dato di realtà dal quale Gesù vuole farci partire è il primo atto di fede nella sua persona, che getta una luce sulla nostra vita. Farà così anche con la samaritana: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui” (Gv 4,16). Da questo dato di verità inizia il cammino della donna, che riconoscerà Gesù come la vera fonte a cui abbeverarsi (v. 25).

La Parola di Gesù ci mette in discussione

Gesù mette in discussione i nostri riferimenti, che, senza il riferimento a Lui, rischiamo di interpretare a nostro uso e consumo. Quanti lo avevano seguito attestano la loro “buona fede” portando l’esempio di come Mosè abbia dato da mangiare al popolo d’Israele nel deserto: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto” (Gv 6,30-31). Il riferimento a Mosè è esplicitato nella prima lettura (Es 16,2-4.12-15). Ma neppure quel testo descrive semplicemente un’operazione di “salvataggio” dalla morte per fame. Mosè chiede al suo popolo un percorso nella fede, una prova che Dio stesso esige: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccogliere ogni giorno la razione di un giorno” (Es 16,4).

La fede non è una conquista

È lecito chiedersi: e domani? Ecco la prova: ti fidi della Sua parola? In realtà è quanto chiediamo nella preghiera del Padre nostro, nella versione di Luca, quando chiediamo il necessario per la nostra vita: “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano” (Lc 11,3). La fede non è una conquista fatta una volta per sempre, ma un dono da invocare ogni giorno, come ricorda il salmista: “Donaci, Signore, il pane del cielo”. Gesù ricorderà a quanti lo interrogano che non è stato Mosè a dare loro da mangiare, “ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero” (Gv 6,32). Gesù sovrappone il tempo presente al tempo passato nella coniugazione del verbo dare: “Non è Mosè che vi ha dato... Ma è il Padre che mio vi dà” (v. 32).

Gesù chiede di andare oltre il visibile

Il tempo presente indica un’azione che si sta svolgendo ora, ma con una prospettiva di continuità. E di questo pane, dirà Gesù: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v. 33). Coloro che ascoltano sembrano giungere a una prima professione di fede: “Signore, dacci sempre pane”. Ma di quale pane fanno richiesta? Gesù intende andare oltre, innalza l’asticella della fede: “Io sono il pane della vita” (v. 35). Da qui riprende il cammino nella fede, che fa vedere oltre il visibile: l’eucarestia.]]>
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Corso intensivo per pastori https://www.lavoce.it/corso-intensivo-per-pastori/ Thu, 15 Jul 2021 16:17:52 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61448

La “chiamata a sé” da parte di Gesù nei confronti degli apostoli, come abbiamo ascoltato la domenica precedente (Mc 6,7), ha la sua conclusione nel brano odierno: “Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato” (Mc 6,30). Il racconto delle meraviglie compiute, i successi della loro attività pastorale, che il Maestro accoglie, fanno dimenticare la fatica, la stanchezza e, forse, anche l’equilibrio per una sana condotta di vita.

Lo straordinario del Vangelo nell'ordinario della vita

Possiamo leggere l’esperienza degli Apostoli in chiave attuale. Le delusioni della vita, sia di natura pastorale che professionale o relazionale, così come l’esaltazione dei successi, rischiano di distaccarci dalla realtà, rendendoci incapaci di vedere i limiti e i punti di forza della nostra vita e della nostra azione. Chissà, forse Gesù, oltre a garantire loro un meritato riposo, vuole anche farli rientrare nella quotidianità, condurli ad amare l’ordinario della vita nel quale immergersi, per portare lì lo straordinario del Vangelo.

Le relazioni che risanano

Chissà, forse Gesù, nel condurli in disparte, con lui solo, in un luogo deserto (Mc 6,31), voleva insegnare loro l’importanza delle relazioni che risanano. Relazioni che - a dispetto delle esagerazioni emotive e dell’attivismo svolgono la riposante funzione di riordinare le idee, ma soprattutto di ridare il senso della misura e del limite. Condividere con lui gioie e speranza, fallimenti e cadute, evita lo sprofondamento nella disperazione e il lamento nichilista che ci rende ciechi anche verso le nostre potenzialità e capacità, che il Vangelo indica come talenti regalati a ciascuno. Condividere con i fratelli l’esperienza vissuta fa superare il “leaderismo” esasperato che alimenta il “cancro della superbia”, aiuta a riconoscere i talenti altrui e favorisce la collaborazione.

Senza Gesù non possiamo nulla

Trovare momenti di intimità con Gesù ci libera dall’onnipotenza del sentirci indispensabili. Ci aiuta a riconoscere che anche i successi non sono medaglie da appuntarci al petto, ma occasione di gratitudine per l’opera che il Signore continua a compiere in noi, a servizio dei fratelli. Il Vangelo ci ricorda che senza di Lui non potremo fare nulla, “come il tralcio non può vivere e portare frutto se non rimane innestato nella vite” (Gv 15,1-8). Il Vangelo relativizza anche le nostre “performance” pastorali, ma ciò può essere una indicazione anche per le attività di ciascuno: “Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

Parte di un unico progetto

Non è un invito alla mediocrità, ma sentirsi parte di un unico progetto: costruire il Regno. Ognuno è indispensabile a motivo dei talenti che gli sono stati donati, ma, se non è disposto a unirli con i talenti altrui, a “trafficarli”, a rischiarli, a farne patrimonio comune, fino al punto d non riconoscerli più come propri ma di tutti... è come il servo a cui è stato dato un talento e, per paura di perderlo, lo ha nascosto (Mt 25, 24-30). Il servo è definito “inutile” dal Vangelo non quando non ha successo, ma quando non è disposto a rischiare la relazione e la condivisione. Infatti chi ama rischia, investe, e anche se non sempre ha successo, se non altro, ha scelto di mettersi in gioco. Il “ritiro spirituale” compiuto da Gesù con i suoi è breve, perché il deserto non è la vita nella quale siamo stati gettati. In breve il Vangelo riporta i Dodici alla vita vera: “Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero” (Mc 6,33).

La Parola è rivolta ai pastori della Chiesa

La lettura dei testi di questa domenica è si rivolta a tutti, perché a ciascuno il Signore affida una missione. Egli infatti “ci ha scelto prima della creazione del mondo” (Ef 1,4), ma è innegabile che in modo particolare questa parola è rivolta ai Pastori della Chiesa. Una forte caratterizzazione è data dalla prima lettura , tratta dal libro del profeta Geremia (23,1- 6). Il termine “pastore” identifica coloro che sono chiamati a pascere “il gregge che il Signore ha affidato”: costoro sono chiamati a reggere e condurre il popolo di Dio, che si tratti di presbitero, vescovo o Papa. Nessuno è padrone del gregge, ma servo del popolo che il Signore a lui ha affidato. Uno solo è il vero pastore: il Signore Gesù, chiamato dalla liturgia “Pastore dei pastori”. L’invettiva del profeta Geremia è un monito rivolto ai Pastori, ma declina responsabilità diverse: più alta è la responsabilità affidata, più gravi sono le conseguenze di scelte sbagliate sul popolo di Dio affidato a quella persona.

L'appello di papa Francesco ai vescovi

Proprio per questo motivo Papa Francesco continuamente rivolge un accorato appello ai vescovi di essere prudenti nel discernere i candidati al sacerdozio. Le comunità cristiane hanno il diritto di essere guidate da Pastori “secondo il cuore di Dio” (Ger 3,15), non da Pastori che vogliono realizzare se stessi, secondo il proprio progetto.

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La “chiamata a sé” da parte di Gesù nei confronti degli apostoli, come abbiamo ascoltato la domenica precedente (Mc 6,7), ha la sua conclusione nel brano odierno: “Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato” (Mc 6,30). Il racconto delle meraviglie compiute, i successi della loro attività pastorale, che il Maestro accoglie, fanno dimenticare la fatica, la stanchezza e, forse, anche l’equilibrio per una sana condotta di vita.

Lo straordinario del Vangelo nell'ordinario della vita

Possiamo leggere l’esperienza degli Apostoli in chiave attuale. Le delusioni della vita, sia di natura pastorale che professionale o relazionale, così come l’esaltazione dei successi, rischiano di distaccarci dalla realtà, rendendoci incapaci di vedere i limiti e i punti di forza della nostra vita e della nostra azione. Chissà, forse Gesù, oltre a garantire loro un meritato riposo, vuole anche farli rientrare nella quotidianità, condurli ad amare l’ordinario della vita nel quale immergersi, per portare lì lo straordinario del Vangelo.

Le relazioni che risanano

Chissà, forse Gesù, nel condurli in disparte, con lui solo, in un luogo deserto (Mc 6,31), voleva insegnare loro l’importanza delle relazioni che risanano. Relazioni che - a dispetto delle esagerazioni emotive e dell’attivismo svolgono la riposante funzione di riordinare le idee, ma soprattutto di ridare il senso della misura e del limite. Condividere con lui gioie e speranza, fallimenti e cadute, evita lo sprofondamento nella disperazione e il lamento nichilista che ci rende ciechi anche verso le nostre potenzialità e capacità, che il Vangelo indica come talenti regalati a ciascuno. Condividere con i fratelli l’esperienza vissuta fa superare il “leaderismo” esasperato che alimenta il “cancro della superbia”, aiuta a riconoscere i talenti altrui e favorisce la collaborazione.

Senza Gesù non possiamo nulla

Trovare momenti di intimità con Gesù ci libera dall’onnipotenza del sentirci indispensabili. Ci aiuta a riconoscere che anche i successi non sono medaglie da appuntarci al petto, ma occasione di gratitudine per l’opera che il Signore continua a compiere in noi, a servizio dei fratelli. Il Vangelo ci ricorda che senza di Lui non potremo fare nulla, “come il tralcio non può vivere e portare frutto se non rimane innestato nella vite” (Gv 15,1-8). Il Vangelo relativizza anche le nostre “performance” pastorali, ma ciò può essere una indicazione anche per le attività di ciascuno: “Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

Parte di un unico progetto

Non è un invito alla mediocrità, ma sentirsi parte di un unico progetto: costruire il Regno. Ognuno è indispensabile a motivo dei talenti che gli sono stati donati, ma, se non è disposto a unirli con i talenti altrui, a “trafficarli”, a rischiarli, a farne patrimonio comune, fino al punto d non riconoscerli più come propri ma di tutti... è come il servo a cui è stato dato un talento e, per paura di perderlo, lo ha nascosto (Mt 25, 24-30). Il servo è definito “inutile” dal Vangelo non quando non ha successo, ma quando non è disposto a rischiare la relazione e la condivisione. Infatti chi ama rischia, investe, e anche se non sempre ha successo, se non altro, ha scelto di mettersi in gioco. Il “ritiro spirituale” compiuto da Gesù con i suoi è breve, perché il deserto non è la vita nella quale siamo stati gettati. In breve il Vangelo riporta i Dodici alla vita vera: “Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero” (Mc 6,33).

La Parola è rivolta ai pastori della Chiesa

La lettura dei testi di questa domenica è si rivolta a tutti, perché a ciascuno il Signore affida una missione. Egli infatti “ci ha scelto prima della creazione del mondo” (Ef 1,4), ma è innegabile che in modo particolare questa parola è rivolta ai Pastori della Chiesa. Una forte caratterizzazione è data dalla prima lettura , tratta dal libro del profeta Geremia (23,1- 6). Il termine “pastore” identifica coloro che sono chiamati a pascere “il gregge che il Signore ha affidato”: costoro sono chiamati a reggere e condurre il popolo di Dio, che si tratti di presbitero, vescovo o Papa. Nessuno è padrone del gregge, ma servo del popolo che il Signore a lui ha affidato. Uno solo è il vero pastore: il Signore Gesù, chiamato dalla liturgia “Pastore dei pastori”. L’invettiva del profeta Geremia è un monito rivolto ai Pastori, ma declina responsabilità diverse: più alta è la responsabilità affidata, più gravi sono le conseguenze di scelte sbagliate sul popolo di Dio affidato a quella persona.

L'appello di papa Francesco ai vescovi

Proprio per questo motivo Papa Francesco continuamente rivolge un accorato appello ai vescovi di essere prudenti nel discernere i candidati al sacerdozio. Le comunità cristiane hanno il diritto di essere guidate da Pastori “secondo il cuore di Dio” (Ger 3,15), non da Pastori che vogliono realizzare se stessi, secondo il proprio progetto.

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I discepoli e Gesù. Sulla stessa barca. Con Lui https://www.lavoce.it/i-discepoli-e-gesu-sulla-stessa-barca-con-lui/ Fri, 18 Jun 2021 10:31:55 +0000 https://www.lavoce.it/?p=61064

Il Vangelo di questa domenica racconta l’attività di Gesù intorno al “mare di Galilea”, il grande lago di Tiberiade che bagna le città che furono oggetto della prima missione di Gesù. La barca è del resto il mezzo di trasporto più efficace per visitare le città che si affacciano sul lago. È interessante che, pur essendo un lago, l’evangelista Marco preferisca chiamarlo “mare”, a motivo della grandezza e della sua pericolosità, infatti spesso è battuto da venti che rendono difficile la navigazione.

La traversata nella notte

Il racconto di domenica scorsa si concludeva con questa affermazione: “Senza parabole non parlava con loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (Mc 4,34). Fattasi ormai sera, dopo il racconto delle parabole, Gesù vuole passare all’altra riva (v. 35). La stessa barca è stata usata, quasi come un ambone, per il racconto delle parabole, come risulta evidente dal racconto di Marco: “Congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca” (v. 35). Una traversata notturna per raggiungere il luogo prestabilito; possiamo immaginare i turni di guida della barca, tra quei discepoli esperti di pesca notturna e quindi di navigazione. Gli altri, come Gesù, si cercano un luogo comodo per dormire, in attesa dell’alba. Chi dorme e chi veglia, ma tutti sulla stessa barca. Un’immagine rivelativa della Chiesa che cammina nel tempo e può farlo perché ognuno, a turno, fa il proprio lavoro, a servizio dell’altro, con fiducia reciproca e tutti fidandosi di Gesù.

Papa: siamo tutti sulla stessa barca

Questo brano ci ricorda il momento straordinario di preghiera indetto da Papa Francesco il 27 marzo 2020, nel contesto della pandemia. Risuonano ancora le sue parole: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti”. Risulta essenziale la presenza del Signore. Con un rischio: che ognuno lo vorrebbe collocato secondo i propri schemi, alla guida, di vedetta, a rassicurare ognuno, a evitare gli ostacoli... Ma il Signore è invece al suo posto e compie la sua opera. Lo aveva anticipato nelle parabole: il seme una volta gettato, non va perduto. “Dorma o vegli, di notte e di giorno, il seme germoglia e cresce” (Mc 4,27).

La barca nella tempesta

Il Signore è a poppa, nella parte posteriore della barca, quella che affonda per prima; e dorme appoggiato ad un cuscino (Mc 4,38). La tempesta che incontra la barca non sveglia Gesù, sarà il cuore angosciato dei discepoli a far tremare la barca: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (v. 38). Di questa mancanza di fede è preoccupato Gesù. Immaginiamo lo scompiglio su quella barca! Ma quale è il vero rischio di perdersi? Gesù non risponde alla domanda dei discepoli, ma, placato il vento e le acque, sarà lui a sollevare la domanda vera: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?” (v. 40). Il mare non è una forza autonoma, come non lo è il Male, seppur ha una sua inspiegabile libertà di agire, come ci istruisce il testo “sapienziale” di Giobbe nella prima lettura: “Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso?” (Gb 38,8). C’è un limite invalicabile posto dal Signore, che è creatore e redentore: “Fin qui giungerai e non oltre, e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde” (v. 11).

La fede messa alla “prova” dal mare

L’immagine del mare, da sempre, rappresenta nella Bibbia una prova di fede. Il popolo d’Israele liberato da Mosè è costretto a fermarsi davanti al Mar Rosso, apparentemente invalicabile. L’esercito egiziano incalza alla spalle ed è ormai vicino: “Non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto”? (Es 14,11). Con queste parole ricolme di angoscia, il popolo si rivolge a Mosè. E lui: “Non abbiate paura! Siate forti. Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli” (v. 13). La fede di Mosè esprime la certezza nell’azione del Dio salvatore. Il mare unisce anche due approdi ed evoca il percorso di una vita che si dipana tra due sponde: dal “fonte battesimale alla Gerusalemme celeste”.

Su questa barca con Gesù, che è la Chiesa

Con queste parole l’orazionale descrive la “via santa”, una vita non gettata nel nulla, non abbandonata a se stessa. Sulla barca della vita permane la presenza silenziosa ma efficace del Signore: “Taci, calmati!” (Mc 4,39). Al momento opportuno il Signore interviene, calma le acque e il vento, come ordina al male di non nuocere più. Su questa barca, che è la Chiesa, possiamo attraversare sicuri il mare della vita; e la nostra fede, seppur debole e ferita, può ristorarsi alla “fonte” dei sacramenti. La nostra fede poggia sicura sulla fede di Pietro e della Chiesa di Cristo. Lo ricorda il sacerdote nella celebrazione eucaristica: “Signore, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa”.]]>

Il Vangelo di questa domenica racconta l’attività di Gesù intorno al “mare di Galilea”, il grande lago di Tiberiade che bagna le città che furono oggetto della prima missione di Gesù. La barca è del resto il mezzo di trasporto più efficace per visitare le città che si affacciano sul lago. È interessante che, pur essendo un lago, l’evangelista Marco preferisca chiamarlo “mare”, a motivo della grandezza e della sua pericolosità, infatti spesso è battuto da venti che rendono difficile la navigazione.

La traversata nella notte

Il racconto di domenica scorsa si concludeva con questa affermazione: “Senza parabole non parlava con loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (Mc 4,34). Fattasi ormai sera, dopo il racconto delle parabole, Gesù vuole passare all’altra riva (v. 35). La stessa barca è stata usata, quasi come un ambone, per il racconto delle parabole, come risulta evidente dal racconto di Marco: “Congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca” (v. 35). Una traversata notturna per raggiungere il luogo prestabilito; possiamo immaginare i turni di guida della barca, tra quei discepoli esperti di pesca notturna e quindi di navigazione. Gli altri, come Gesù, si cercano un luogo comodo per dormire, in attesa dell’alba. Chi dorme e chi veglia, ma tutti sulla stessa barca. Un’immagine rivelativa della Chiesa che cammina nel tempo e può farlo perché ognuno, a turno, fa il proprio lavoro, a servizio dell’altro, con fiducia reciproca e tutti fidandosi di Gesù.

Papa: siamo tutti sulla stessa barca

Questo brano ci ricorda il momento straordinario di preghiera indetto da Papa Francesco il 27 marzo 2020, nel contesto della pandemia. Risuonano ancora le sue parole: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti”. Risulta essenziale la presenza del Signore. Con un rischio: che ognuno lo vorrebbe collocato secondo i propri schemi, alla guida, di vedetta, a rassicurare ognuno, a evitare gli ostacoli... Ma il Signore è invece al suo posto e compie la sua opera. Lo aveva anticipato nelle parabole: il seme una volta gettato, non va perduto. “Dorma o vegli, di notte e di giorno, il seme germoglia e cresce” (Mc 4,27).

La barca nella tempesta

Il Signore è a poppa, nella parte posteriore della barca, quella che affonda per prima; e dorme appoggiato ad un cuscino (Mc 4,38). La tempesta che incontra la barca non sveglia Gesù, sarà il cuore angosciato dei discepoli a far tremare la barca: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (v. 38). Di questa mancanza di fede è preoccupato Gesù. Immaginiamo lo scompiglio su quella barca! Ma quale è il vero rischio di perdersi? Gesù non risponde alla domanda dei discepoli, ma, placato il vento e le acque, sarà lui a sollevare la domanda vera: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?” (v. 40). Il mare non è una forza autonoma, come non lo è il Male, seppur ha una sua inspiegabile libertà di agire, come ci istruisce il testo “sapienziale” di Giobbe nella prima lettura: “Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso?” (Gb 38,8). C’è un limite invalicabile posto dal Signore, che è creatore e redentore: “Fin qui giungerai e non oltre, e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde” (v. 11).

La fede messa alla “prova” dal mare

L’immagine del mare, da sempre, rappresenta nella Bibbia una prova di fede. Il popolo d’Israele liberato da Mosè è costretto a fermarsi davanti al Mar Rosso, apparentemente invalicabile. L’esercito egiziano incalza alla spalle ed è ormai vicino: “Non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto”? (Es 14,11). Con queste parole ricolme di angoscia, il popolo si rivolge a Mosè. E lui: “Non abbiate paura! Siate forti. Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli” (v. 13). La fede di Mosè esprime la certezza nell’azione del Dio salvatore. Il mare unisce anche due approdi ed evoca il percorso di una vita che si dipana tra due sponde: dal “fonte battesimale alla Gerusalemme celeste”.

Su questa barca con Gesù, che è la Chiesa

Con queste parole l’orazionale descrive la “via santa”, una vita non gettata nel nulla, non abbandonata a se stessa. Sulla barca della vita permane la presenza silenziosa ma efficace del Signore: “Taci, calmati!” (Mc 4,39). Al momento opportuno il Signore interviene, calma le acque e il vento, come ordina al male di non nuocere più. Su questa barca, che è la Chiesa, possiamo attraversare sicuri il mare della vita; e la nostra fede, seppur debole e ferita, può ristorarsi alla “fonte” dei sacramenti. La nostra fede poggia sicura sulla fede di Pietro e della Chiesa di Cristo. Lo ricorda il sacerdote nella celebrazione eucaristica: “Signore, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa”.]]>
Gesù sceglie discepoli … ma con quali criteri? https://www.lavoce.it/gesu-sceglie-discepoli-ma-con-quali-criteri/ Fri, 11 Jun 2021 14:21:47 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60962

Terminate le solennità del Signore, la liturgia domenicale ci riporta all’ordinarietà del cammino di Gesù insieme ai suoi discepoli. Emerge un forte contrasto tra le narrazioni delle grandi feste, in cui i testi biblici ci hanno narrato le straordinarie manifestazioni del Signore e il Vangelo di questa domenica, che inaugura il tempo ordinario. Dalla solennità dell’Ascensione fino al Corpus Domini, la liturgia e la Parola di Dio hanno reso visibile il Mistero, anticipandoci il Regno nella sua prospettiva ultima. Ma gli “effetti speciali”, non sono l’agire ordinario di Dio, bensì lo è la sua azione nascosta e silenziosa, per la quale chiede la partecipazione dell’uomo.

Il cammino ordinario dell’anno liturgico

Il cammino ordinario dell’anno liturgico riprende con il Vangelo di Marco 4,26-34. Il brano conclude il racconto di alcune parabole con queste parole: “Con queste parabole [Gesù] annunciava la Parola. Senza parabole non parlava loro” (4,33-34). I l “discorso parabolico” traduceva in un linguaggio popolare i grandi misteri del Regno, ed evidenziava l’azione provvidenziale del Padre celeste affinché le folle comprendessero. Non mancava mai, però, un supplemento di spiritoegazione ai suoi discepoli: “In privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (v. 34). Quale opportunità per questi uomini che Gesù aveva da poco chiamato a seguirlo! “Costituì dunque i Dodici” (Mc 3,14-16). Una vera opera costitutiva di un gruppo scelto... ma quali sono i criteri con cui ha scelto queste persone? Quali le loro “competenze”?

Il Signore non sceglie in base ai “punteggi”…

Sappiamo bene dai racconti evangelici che nulla di straordinario potevano vantare per essere scelti: curricula non certo esaltanti, tranne qualche professionalità, ma che semmai eccelleva nella furbizia per approfittarsene. È possibile immaginare un legame tra le parabole narrate nel Vangelo odierno e il “materiale umano” di coloro a cui sarà affidato il compito di guidare la Chiesa? La chiamata degli apostoli, inauguratori della comunità messianica il cui fine è la realizzazione del Regno, sembra l’opera iniziale della semina: un atto da compiere con volontà di gettare il seme (Mc 4,26). Il resto è però affidato alla provvidenza divina: gettato il seme nel terreno, il successivo intervento da parte umana sarà il raccolto (v. 29). In mezzo c’è tutta l’opera nascosta di un Dio che provvede, dal primo stelo fino al frutto maturo (vv. 27-28).

…primo requisito un cuore libero

Il Signore non sembra scegliere in base ai “punteggi” acquisiti con le proprie forze nel corso della vita. Con Lui non si vantano crediti. Un cuore disponibile, libero tanto da accettare una sfida, capace di riconoscere l’amore: queste piuttosto sembrano essere le precondizioni per toccare il cuore di Dio. Poi il discepolo “si farà”. “Lasciarsi fare” da Dio è la garanzia per acquisire le virtù del chiamato. Essere chiamati e lasciarsi fare da Lui significa fidarsi di Lui, come ricorda la seconda lettura. “Sempre pieni di fiducia” (2Cor 5,6.8), ci esorta a essere san Paolo, perché il nostro cammino avanza nella fede, non nella visione (v. 7).

… capace di vivere l'esilio dal proprio corpo

Interessante anche la chiave di lettura che Paolo dà della nostra condizione: “Siamo in esilio, lontano dal Signore finché abitiamo il corpo” (v. 6), perciò per abitare presso il Signore è necessario essere esuli dal corpo (v. 8). L’esilio sembra essere la condizione necessaria per attraversare il tempo e “traguardare” l’eternità, la meta appagante. L’esilio sembra essere il luogo dove il Signore ci ha collocato stabilmente, forse per ricercare la vera patria, e misurare la nostra fede. Il popolo d’Israele in esilio ha fatto le cose migliori, le opere più gradite a Dio. Anche noi, popolo della nuova alleanza, il Signore sta “vagliando” con l’esilio. Anche la Chiesa può ritrovare se stessa ritrovando il Signore nella precarietà della condizione attuale, senza la ricerca di certezze “di bassa lega”.

Lo Spirito trasforma il cuore

La Provvidenza traccia il passo lungo che porta il seme a fruttificare (Mc 4,27-28), trasforma il piccolo seme di senape nell’albero più grande (v. 31-33), un piccolo ramoscello di cedro diventerà un cedro grandissimo (Ez 17,22-23). Il profeta, in questa prima lettura, sa vedere in un tempo di esilio l’opera che Dio ha immaginato.

Oggi la Chiesa ha questo sguardo profetico?

La nostra Chiesa, oggi, ha questo sguardo profetico? Siamo capaci di infondere speranza e fiducia in Dio? Oppure ricerchiamo “previdenze” ecclesiastiche che garantiscono un apparente successo, da presentare come via di accesso a futuri riconoscimenti? Molto appropriato il monito con cui Paolo conclude la seconda lettura: “Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute, sia in bene che in male” (2Cor 3,10).]]>

Terminate le solennità del Signore, la liturgia domenicale ci riporta all’ordinarietà del cammino di Gesù insieme ai suoi discepoli. Emerge un forte contrasto tra le narrazioni delle grandi feste, in cui i testi biblici ci hanno narrato le straordinarie manifestazioni del Signore e il Vangelo di questa domenica, che inaugura il tempo ordinario. Dalla solennità dell’Ascensione fino al Corpus Domini, la liturgia e la Parola di Dio hanno reso visibile il Mistero, anticipandoci il Regno nella sua prospettiva ultima. Ma gli “effetti speciali”, non sono l’agire ordinario di Dio, bensì lo è la sua azione nascosta e silenziosa, per la quale chiede la partecipazione dell’uomo.

Il cammino ordinario dell’anno liturgico

Il cammino ordinario dell’anno liturgico riprende con il Vangelo di Marco 4,26-34. Il brano conclude il racconto di alcune parabole con queste parole: “Con queste parabole [Gesù] annunciava la Parola. Senza parabole non parlava loro” (4,33-34). I l “discorso parabolico” traduceva in un linguaggio popolare i grandi misteri del Regno, ed evidenziava l’azione provvidenziale del Padre celeste affinché le folle comprendessero. Non mancava mai, però, un supplemento di spiritoegazione ai suoi discepoli: “In privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (v. 34). Quale opportunità per questi uomini che Gesù aveva da poco chiamato a seguirlo! “Costituì dunque i Dodici” (Mc 3,14-16). Una vera opera costitutiva di un gruppo scelto... ma quali sono i criteri con cui ha scelto queste persone? Quali le loro “competenze”?

Il Signore non sceglie in base ai “punteggi”…

Sappiamo bene dai racconti evangelici che nulla di straordinario potevano vantare per essere scelti: curricula non certo esaltanti, tranne qualche professionalità, ma che semmai eccelleva nella furbizia per approfittarsene. È possibile immaginare un legame tra le parabole narrate nel Vangelo odierno e il “materiale umano” di coloro a cui sarà affidato il compito di guidare la Chiesa? La chiamata degli apostoli, inauguratori della comunità messianica il cui fine è la realizzazione del Regno, sembra l’opera iniziale della semina: un atto da compiere con volontà di gettare il seme (Mc 4,26). Il resto è però affidato alla provvidenza divina: gettato il seme nel terreno, il successivo intervento da parte umana sarà il raccolto (v. 29). In mezzo c’è tutta l’opera nascosta di un Dio che provvede, dal primo stelo fino al frutto maturo (vv. 27-28).

…primo requisito un cuore libero

Il Signore non sembra scegliere in base ai “punteggi” acquisiti con le proprie forze nel corso della vita. Con Lui non si vantano crediti. Un cuore disponibile, libero tanto da accettare una sfida, capace di riconoscere l’amore: queste piuttosto sembrano essere le precondizioni per toccare il cuore di Dio. Poi il discepolo “si farà”. “Lasciarsi fare” da Dio è la garanzia per acquisire le virtù del chiamato. Essere chiamati e lasciarsi fare da Lui significa fidarsi di Lui, come ricorda la seconda lettura. “Sempre pieni di fiducia” (2Cor 5,6.8), ci esorta a essere san Paolo, perché il nostro cammino avanza nella fede, non nella visione (v. 7).

… capace di vivere l'esilio dal proprio corpo

Interessante anche la chiave di lettura che Paolo dà della nostra condizione: “Siamo in esilio, lontano dal Signore finché abitiamo il corpo” (v. 6), perciò per abitare presso il Signore è necessario essere esuli dal corpo (v. 8). L’esilio sembra essere la condizione necessaria per attraversare il tempo e “traguardare” l’eternità, la meta appagante. L’esilio sembra essere il luogo dove il Signore ci ha collocato stabilmente, forse per ricercare la vera patria, e misurare la nostra fede. Il popolo d’Israele in esilio ha fatto le cose migliori, le opere più gradite a Dio. Anche noi, popolo della nuova alleanza, il Signore sta “vagliando” con l’esilio. Anche la Chiesa può ritrovare se stessa ritrovando il Signore nella precarietà della condizione attuale, senza la ricerca di certezze “di bassa lega”.

Lo Spirito trasforma il cuore

La Provvidenza traccia il passo lungo che porta il seme a fruttificare (Mc 4,27-28), trasforma il piccolo seme di senape nell’albero più grande (v. 31-33), un piccolo ramoscello di cedro diventerà un cedro grandissimo (Ez 17,22-23). Il profeta, in questa prima lettura, sa vedere in un tempo di esilio l’opera che Dio ha immaginato.

Oggi la Chiesa ha questo sguardo profetico?

La nostra Chiesa, oggi, ha questo sguardo profetico? Siamo capaci di infondere speranza e fiducia in Dio? Oppure ricerchiamo “previdenze” ecclesiastiche che garantiscono un apparente successo, da presentare come via di accesso a futuri riconoscimenti? Molto appropriato il monito con cui Paolo conclude la seconda lettura: “Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute, sia in bene che in male” (2Cor 3,10).]]>
Corpus Domini. Il primo ostensorio siamo noi https://www.lavoce.it/corpus-domini-il-primo-ostensorio-siamo-noi/ Thu, 03 Jun 2021 17:26:26 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60924 Corpus Domini 2020 cattedrale Terni

L’anno liturgico presenta dopo il tempo pasquale, in successione, tre solennità del Signore: la santissima Trinità, il santissimo Corpo e Sangue di Cristo e il sacratissimo Cuore di Gesù. Questo percorso liturgico sembra essere un approfondimento del mistero di Dio: dalla sua complessità della identità trinitaria, resa possibile dalla relazione d’amore, alla semplicità della devozione popolare.

Percorso liturgico sul ‘mistero’ di Dio

Un percorso che narra la storia di Dio con l’umanità attraverso le grandi teofanie dell’Antico Testamento, fino alla familiarità della cena pasquale, che il Corpus Domini amplifica. Un corpo donato e un sangue versato, che è esplicitato nella crocifissione, fino all’apertura del costato di Cristo con la lancia, che fa diventare il cuore di Gesù sorgente della Chiesa e dei sacramenti. La devozione eucaristica e al Sacro Cuore consentono a tutti di rielaborare il mistero dell’amore trinitario, nella concretezza della vita donata di Gesù. La celebrazione del Corpus Domini, in stretta relazione con il Giovedì santo, è un vero e proprio approfondimento del mistero eucaristico - infatti, prima dello spostamento delle feste religiose alla domenica, veniva celebrato il giovedì.

Il riferimento al sangue

I testi biblici della liturgia di quest’anno “grondano sangue”, quale mezzo per suggellare un’alleanza tra Dio e Uomo che non avrà fine. A questo fine ultimo rimandano le preghiere della celebrazione, in particolare quella del post Communio: “Donaci, o Signore, di godere pienamente della tua vita divina nel convito eterno, che ci hai fatto pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”. Nel testo dell’Esodo, prima lettura, Mosè incarica alcuni giovani di offrire olocausti attraverso il sacrificio di giovenchi. Il sangue verrà raccolto in catini e una prima metà sparso sull’altare. Il popolo si impegnerà attraverso un giuramento a osservare le parole del Signore, e a suggellare questo impegno sarà ancora il sangue: l’altra metà verrà aspersa sul popolo (Es 24,5-8).

La Pasqua dell'Agnello

Il testo evangelico narra la cena di Pasqua avvenuta il primo giorno degli azzimi, sottolinea l’evangelista Marco; il quale ci ricorda che è il giorno in cui gli ebrei immolavano la Pasqua, attraverso l’uccisione degli agnelli (14,12). Ma in questa cena pasquale il vero agnello immolato è il Signore Gesù: “Prendete, questo è il mio corpo. Poi prese un calice e disse loro: ‘Questo è il mio sangue dell’alleanza che è versato per molti’” (vv. 22-24). Il brano della seconda lettura sembra essere un vero commento teologico ai testi precedenti. L’autore della Lettera agli Ebrei identifica Cristo come il vero sommo sacerdote (9,11). L’alleanza che stipula attraverso il suo sangue, e non con quello di capri e vitelli (v. 14), è un’alleanza nuova (v. 15), non più soggetta al tempo. Il Cristo infatti - ci ricorda il testo - è sacerdote dei beni futuri.

Un tempio fatto di carne

Il tempio non è più quello fatto di pietre, il luogo del sacrificio non è più l’altare. Ora la figura di sacerdote, vittima e altare è attualizzata contestualmente in Cristo. Ce lo ricorda la preghiera liturgica di dedicazione di un nuovo altare: “Infine Cristo nel mistero della sua Pasqua compì tutti i segni antichi; salendo sull’albero della croce, sacerdote e vittima, si offrì a te, o Padre, in oblazione pura per distruggere i peccati del mondo e stabilire con te l’alleanza nuova ed eterna” (dalla liturgia di dedicazione). La forza di questo mistero è comunicata a quanti si accostano al corpo e sangue di Cristo. A questa “sorgente di grazia” si attinge la virtù del martirio, come ricorda il prefazio della liturgia della stessa dedicazione dell’altare: “Alle sorgenti di Cristo, pietra spirituale, attingiamo il dono del tuo Spirito per essere anche noi altare santo e offerta viva a te gradita”. Questa preghiera trova la sua realizzazione in quell’Ite, missa est con il quale il sacerdote congeda il popolo celebrante, perché il vero culto gradito a Dio si realizzi in una vita degna di ciò che abbiamo celebrato. La celebrazione è per la vita, come la Chiesa è per il mondo.

Eucarestia … per la vita del mondo

La processione eucaristica, che abitualmente segue alla messa del Corpus Domini, acquista il suo vero significato quando la nostra vita diviene un “ostensorio” del Vangelo e realizza il testo delle Beatitudini. Il cammino per le vie dei nostri paesi, anche quest’anno, non sarà possibile: a esso si sostituisca il pellegrinaggio interiore nell’adorazione eucaristica, dove le fatiche della nostra vita, portate davanti al Signore, ci “distraggano” però da quella “riposante contemplazione” in cui rischia di non trovare spazio il volto del fratello.]]>
Corpus Domini 2020 cattedrale Terni

L’anno liturgico presenta dopo il tempo pasquale, in successione, tre solennità del Signore: la santissima Trinità, il santissimo Corpo e Sangue di Cristo e il sacratissimo Cuore di Gesù. Questo percorso liturgico sembra essere un approfondimento del mistero di Dio: dalla sua complessità della identità trinitaria, resa possibile dalla relazione d’amore, alla semplicità della devozione popolare.

Percorso liturgico sul ‘mistero’ di Dio

Un percorso che narra la storia di Dio con l’umanità attraverso le grandi teofanie dell’Antico Testamento, fino alla familiarità della cena pasquale, che il Corpus Domini amplifica. Un corpo donato e un sangue versato, che è esplicitato nella crocifissione, fino all’apertura del costato di Cristo con la lancia, che fa diventare il cuore di Gesù sorgente della Chiesa e dei sacramenti. La devozione eucaristica e al Sacro Cuore consentono a tutti di rielaborare il mistero dell’amore trinitario, nella concretezza della vita donata di Gesù. La celebrazione del Corpus Domini, in stretta relazione con il Giovedì santo, è un vero e proprio approfondimento del mistero eucaristico - infatti, prima dello spostamento delle feste religiose alla domenica, veniva celebrato il giovedì.

Il riferimento al sangue

I testi biblici della liturgia di quest’anno “grondano sangue”, quale mezzo per suggellare un’alleanza tra Dio e Uomo che non avrà fine. A questo fine ultimo rimandano le preghiere della celebrazione, in particolare quella del post Communio: “Donaci, o Signore, di godere pienamente della tua vita divina nel convito eterno, che ci hai fatto pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”. Nel testo dell’Esodo, prima lettura, Mosè incarica alcuni giovani di offrire olocausti attraverso il sacrificio di giovenchi. Il sangue verrà raccolto in catini e una prima metà sparso sull’altare. Il popolo si impegnerà attraverso un giuramento a osservare le parole del Signore, e a suggellare questo impegno sarà ancora il sangue: l’altra metà verrà aspersa sul popolo (Es 24,5-8).

La Pasqua dell'Agnello

Il testo evangelico narra la cena di Pasqua avvenuta il primo giorno degli azzimi, sottolinea l’evangelista Marco; il quale ci ricorda che è il giorno in cui gli ebrei immolavano la Pasqua, attraverso l’uccisione degli agnelli (14,12). Ma in questa cena pasquale il vero agnello immolato è il Signore Gesù: “Prendete, questo è il mio corpo. Poi prese un calice e disse loro: ‘Questo è il mio sangue dell’alleanza che è versato per molti’” (vv. 22-24). Il brano della seconda lettura sembra essere un vero commento teologico ai testi precedenti. L’autore della Lettera agli Ebrei identifica Cristo come il vero sommo sacerdote (9,11). L’alleanza che stipula attraverso il suo sangue, e non con quello di capri e vitelli (v. 14), è un’alleanza nuova (v. 15), non più soggetta al tempo. Il Cristo infatti - ci ricorda il testo - è sacerdote dei beni futuri.

Un tempio fatto di carne

Il tempio non è più quello fatto di pietre, il luogo del sacrificio non è più l’altare. Ora la figura di sacerdote, vittima e altare è attualizzata contestualmente in Cristo. Ce lo ricorda la preghiera liturgica di dedicazione di un nuovo altare: “Infine Cristo nel mistero della sua Pasqua compì tutti i segni antichi; salendo sull’albero della croce, sacerdote e vittima, si offrì a te, o Padre, in oblazione pura per distruggere i peccati del mondo e stabilire con te l’alleanza nuova ed eterna” (dalla liturgia di dedicazione). La forza di questo mistero è comunicata a quanti si accostano al corpo e sangue di Cristo. A questa “sorgente di grazia” si attinge la virtù del martirio, come ricorda il prefazio della liturgia della stessa dedicazione dell’altare: “Alle sorgenti di Cristo, pietra spirituale, attingiamo il dono del tuo Spirito per essere anche noi altare santo e offerta viva a te gradita”. Questa preghiera trova la sua realizzazione in quell’Ite, missa est con il quale il sacerdote congeda il popolo celebrante, perché il vero culto gradito a Dio si realizzi in una vita degna di ciò che abbiamo celebrato. La celebrazione è per la vita, come la Chiesa è per il mondo.

Eucarestia … per la vita del mondo

La processione eucaristica, che abitualmente segue alla messa del Corpus Domini, acquista il suo vero significato quando la nostra vita diviene un “ostensorio” del Vangelo e realizza il testo delle Beatitudini. Il cammino per le vie dei nostri paesi, anche quest’anno, non sarà possibile: a esso si sostituisca il pellegrinaggio interiore nell’adorazione eucaristica, dove le fatiche della nostra vita, portate davanti al Signore, ci “distraggano” però da quella “riposante contemplazione” in cui rischia di non trovare spazio il volto del fratello.]]>
Storia salvifica, non algebra https://www.lavoce.it/storia-salvifica-non-algebra/ Fri, 28 May 2021 14:56:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60880

Dopo la domenica di Pentecoste, quasi come un approfondimento tematico, la Chiesa celebra la solennità della santissima Trinità. Infatti il Vangelo di domenica scorsa può essere tenuto sullo sfondo come ulteriore disvelamento del mistero che si celebra oggi.

Lo Spirito, l'"inviato" dal Padre

Gesù nella celebrazione della Pentecoste aveva parlato dello Spirito, “l’inviato” dal Padre, ma mandato da Lui, il Figlio unigenito, asceso alla destra del Padre (Gv 15,26). Con un percorso di ulteriore chiarificazione sulla verità, il testo ci ricorda che lo Spirito non parlerà di cose nuove, ma dirà le cose del Figlio, quelle che il Figlio stesso ha ascoltato dal Padre fin dal principio (Gv 16,14-15), perché il Figlio era nel seno del Padre (Gv 1,1).

Quest’anno la solennità della Trinità, come narrata dai testi biblici, appare un percorso storico più che una professione di fede, o un dogma da credere. I testi ci aiutano a distanziarci da una distorta immagine trinitaria troppo simile a un “teorema matematico”, e ci rivelano il volto di Dio rivelato nella storia, che ha deciso di entrare nella storia umana.

L'esperienza di Dio nel Deuteronomio

Il libro del Deuteronomio rilegge la storia d’Israele, fissa lo sguardo sui fatti, sugli interventi di Dio, e mette in bocca a Mosè gli interrogativi che segnano le tappe fondamentali della sua rivelazione. Mosè parla al suo popolo: “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te” (Dt 4,32). La liberazione dalla schiavitù dall’Egitto, con mano potente e braccio teso (v. 34), l’attraversamento prodigioso del Mar Rosso, la distruzione dell’esercito del faraone resteranno per Israele il nucleo fondamentale dell’esperienza di salvezza. A quell’evento, il popolo ritornerà con la memoria ogni volta che, a motivo dell’infedeltà, si troverà nuovamente in esilio.

Le parole di Mosè nel testo del Deuteronomio risuonano come un monito: “Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi, perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre” (4,40). L’esperienza del Dio salvatore, capace di dominare la natura, interroga il popolo in esilio, e apre una spiraglio sulla sua azione creativa: “Dio creò l’uomo sulla terra e, da una estremità all’altra dei cieli, vi fu mai una cosa grande come questa?” (Dt 4,32).

Ma la creazione è solo l’inizio di una relazione. Il Creatore parla “addirittura” alla creatura come si parla a un amico - il testo stesso la definisce una cosa inaudita (v. 33). È un Dio unico, non nella solitudine della sua divinità, ma nel suo desiderio di entrare nella storia dell’umanità, scegliendosi un popolo (v. 34). È un Dio “onnipresente” ma sceglie di “darsi dei confini”, ponendo la sua tenda in Giacobbe - Israele.

Il Dio di Abramo, di Isacco di Giacobbe, dei patriarchi, dei profeti, assume le coordinate storiche e spazio-temporali per andare incontro all’uomo. Sono le coordinate dell’Incarnazione: un tempo, un luogo, una donna, un padre a cui affidare il frutto dell’amore di Dio, che per mezzo dello Spirito si fa uomo.

Lo Spirito, amore del Padre e del Figlio

Lo stesso Spirito, che è l’amore del Padre e del Figlio, ci rende partecipi della relazione filiale: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” come ci ricorda la seconda lettura (Rm 8,14). Dentro questa relazione Padre-Spirito, sta la concretezza di un Dio che si fa uomo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14).

La relazione d'amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo partecipata all'umanità

Come lo Spirito aleggiava sulle acque all’inizio della creazione (Gen 1,2), così la “nuova creazione” ha inizio per mezzo dello Spirito, con il prendere “dimora” nel ventre di una donna. Il testo greco di Giovanni usa proprio il verbo “attendarsi” per esplicitare l’Incarnazione. Come nell’intimità di un Dio che è unico, e nello stesso tempo è relazione d’amore perenne tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, così Dio nel suo rivelarsi nella storia si lega inscindibilmente all’essere umano con una relazione d’amore. Sono le parole di Gesù, asceso alla destra del Padre: “Ed ecco io, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Le parole di Gesù sono le medesime che Dio aveva detto al suo popolo in segno di alleanza perenne, che mai dimenticherà (Dt 4,31). Lo Spirito è la garanzia della presenza reale ed efficace di Dio nella storia. Le parole di Gesù “certificano” la sua azione continua e attuale, non semplicemente un “ricordare” per farsi forza nella difficoltà del cammino.

Andate e fate discepoli tutti i popoli

I discepoli, inviati da Gesù a tutti i popoli per fare discepole tutte le genti - come ci ricorda il Vangelo di oggi (Mt 28,19) - , sperimentano la sua presenza. Le prime comunità cristiane vedono operare lo Spirito, artefice di ogni prodigio, come gli apostoli avevano visto all’opera il Signore Gesù (Mc 16,20). Ma la sua azione continua anche oggi, anche a noi è rivolta la rassicurante parola: “Non temere, piccolo gregge” (Lc 12,32).

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Dopo la domenica di Pentecoste, quasi come un approfondimento tematico, la Chiesa celebra la solennità della santissima Trinità. Infatti il Vangelo di domenica scorsa può essere tenuto sullo sfondo come ulteriore disvelamento del mistero che si celebra oggi.

Lo Spirito, l'"inviato" dal Padre

Gesù nella celebrazione della Pentecoste aveva parlato dello Spirito, “l’inviato” dal Padre, ma mandato da Lui, il Figlio unigenito, asceso alla destra del Padre (Gv 15,26). Con un percorso di ulteriore chiarificazione sulla verità, il testo ci ricorda che lo Spirito non parlerà di cose nuove, ma dirà le cose del Figlio, quelle che il Figlio stesso ha ascoltato dal Padre fin dal principio (Gv 16,14-15), perché il Figlio era nel seno del Padre (Gv 1,1).

Quest’anno la solennità della Trinità, come narrata dai testi biblici, appare un percorso storico più che una professione di fede, o un dogma da credere. I testi ci aiutano a distanziarci da una distorta immagine trinitaria troppo simile a un “teorema matematico”, e ci rivelano il volto di Dio rivelato nella storia, che ha deciso di entrare nella storia umana.

L'esperienza di Dio nel Deuteronomio

Il libro del Deuteronomio rilegge la storia d’Israele, fissa lo sguardo sui fatti, sugli interventi di Dio, e mette in bocca a Mosè gli interrogativi che segnano le tappe fondamentali della sua rivelazione. Mosè parla al suo popolo: “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te” (Dt 4,32). La liberazione dalla schiavitù dall’Egitto, con mano potente e braccio teso (v. 34), l’attraversamento prodigioso del Mar Rosso, la distruzione dell’esercito del faraone resteranno per Israele il nucleo fondamentale dell’esperienza di salvezza. A quell’evento, il popolo ritornerà con la memoria ogni volta che, a motivo dell’infedeltà, si troverà nuovamente in esilio.

Le parole di Mosè nel testo del Deuteronomio risuonano come un monito: “Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi, perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre” (4,40). L’esperienza del Dio salvatore, capace di dominare la natura, interroga il popolo in esilio, e apre una spiraglio sulla sua azione creativa: “Dio creò l’uomo sulla terra e, da una estremità all’altra dei cieli, vi fu mai una cosa grande come questa?” (Dt 4,32).

Ma la creazione è solo l’inizio di una relazione. Il Creatore parla “addirittura” alla creatura come si parla a un amico - il testo stesso la definisce una cosa inaudita (v. 33). È un Dio unico, non nella solitudine della sua divinità, ma nel suo desiderio di entrare nella storia dell’umanità, scegliendosi un popolo (v. 34). È un Dio “onnipresente” ma sceglie di “darsi dei confini”, ponendo la sua tenda in Giacobbe - Israele.

Il Dio di Abramo, di Isacco di Giacobbe, dei patriarchi, dei profeti, assume le coordinate storiche e spazio-temporali per andare incontro all’uomo. Sono le coordinate dell’Incarnazione: un tempo, un luogo, una donna, un padre a cui affidare il frutto dell’amore di Dio, che per mezzo dello Spirito si fa uomo.

Lo Spirito, amore del Padre e del Figlio

Lo stesso Spirito, che è l’amore del Padre e del Figlio, ci rende partecipi della relazione filiale: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” come ci ricorda la seconda lettura (Rm 8,14). Dentro questa relazione Padre-Spirito, sta la concretezza di un Dio che si fa uomo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14).

La relazione d'amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo partecipata all'umanità

Come lo Spirito aleggiava sulle acque all’inizio della creazione (Gen 1,2), così la “nuova creazione” ha inizio per mezzo dello Spirito, con il prendere “dimora” nel ventre di una donna. Il testo greco di Giovanni usa proprio il verbo “attendarsi” per esplicitare l’Incarnazione. Come nell’intimità di un Dio che è unico, e nello stesso tempo è relazione d’amore perenne tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, così Dio nel suo rivelarsi nella storia si lega inscindibilmente all’essere umano con una relazione d’amore. Sono le parole di Gesù, asceso alla destra del Padre: “Ed ecco io, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Le parole di Gesù sono le medesime che Dio aveva detto al suo popolo in segno di alleanza perenne, che mai dimenticherà (Dt 4,31). Lo Spirito è la garanzia della presenza reale ed efficace di Dio nella storia. Le parole di Gesù “certificano” la sua azione continua e attuale, non semplicemente un “ricordare” per farsi forza nella difficoltà del cammino.

Andate e fate discepoli tutti i popoli

I discepoli, inviati da Gesù a tutti i popoli per fare discepole tutte le genti - come ci ricorda il Vangelo di oggi (Mt 28,19) - , sperimentano la sua presenza. Le prime comunità cristiane vedono operare lo Spirito, artefice di ogni prodigio, come gli apostoli avevano visto all’opera il Signore Gesù (Mc 16,20). Ma la sua azione continua anche oggi, anche a noi è rivolta la rassicurante parola: “Non temere, piccolo gregge” (Lc 12,32).

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Pentecoste. Il Cenacolo, la nostra culla https://www.lavoce.it/pentecoste-il-cenacolo-la-nostra-culla/ Fri, 21 May 2021 10:23:10 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60742

La Pentecoste segna l’inizio della Chiesa. Essa aveva avuto la sua gestazione e il suo parto nel dolore sulla croce, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica: “Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (CCC 1067, che cita Sacrosanctum Concilium 2). Dal costato di Cristo aperto dalla lancia del soldato (Gv 19,34) uscì sangue e acqua, e misteriosamente sono svelati i sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. E come Eva, madre di tutti i viventi, emerge dal costato di Adamo, la Chiesa, madre dei cristiani, nasce dal costato di Cristo. Questo insegnamento, che ci viene dalla tradizione patristica e dal Magistero, è desunto proprio dalla Parola di questa domenica.

La Pentecoste ebraica

La prima lettura colloca l’irruzione dello Spirito santo “mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste” (At 2,1). È la pentecoste ebraica, che celebra i cinquanta giorni dopo la Pasqua, con il raccolto del frumento (Lv 23,15-17), e anticipa il grande raccolto dell’autunno con la festa delle Capanne. Nella festa ebraica ora irrompe la novità dello Spirito, che segna il tempo sacro dei cinquanta giorni in cui si celebra la Pasqua, come ricorda la colletta della messa vespertina della vigilia. La festa ebraica della pentecoste ricorda anche il dono della Legge, le dieci Parole incise con il fuoco sulle tavole consegnate a Mosè. È facile intravedere un percorso a due binari, con continui incroci, tra le feste ebraiche e le solennità che celebrano gli eventi di salvezza della fede cristiana. Il Signore Gesù porta a compimento quanto anticipato nella storia della salvezza tramite la rivelazione al popolo di Israele. La Pasqua con la sua cena, che Gesù celebra come istituzione della nuova Cena nel contesto della Pasqua. La Pentecoste: la festa ebraica del raccolto, che diviene il frutto maturo della Pasqua di risurrezione, adempiendo la profezia sulla legge pronunciata da Ezechiele e Geremia.

Nella Pentecoste la manifestazione dello Spirito

Lo Spirito santo renderà infatti la legge non più straniera al cuore dell’uomo, ma sarà iscritta nelle sue “viscere”, subordinandola alla legge dell’amore. Il profeta Geremia vedrà in lontananza il compiersi della nuova alleanza: “Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore” (Ger 31,3). Il profeta Ezechiele, dopo aver parlato della dispersione di Israele, traccia un percorso di cammino comune verso Gerusalemme: “Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi, e vi farò osservare e mettere in pratiche le mie norme” (Ez 36,24-28).

Una nuova “legge” scritta nei cuori

Il vento e il fuoco descrivono, nel libro degli Atti, una una vera “teofania”: lo Spirito del Risorto raggiungerà gli apostoli, riuniti nel Cenacolo con Maria. La legge dell’amore sarà incisa ora nel cuore degli “amici di Gesù” e sarà parte costitutiva dell’uomo nuovo, rinato dalle “ceneri” della paura. Il coraggio e la forza di affrontare la missione sarà completata dai frutti che lo Spirito porta in dono: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, come ricorda la seconda lettura (Gal 5,27-28).

Dalla diaspora all’unità

La Pentecoste, celebrata nelle due liturgie, è un percorso che procede dalla diaspora all’unità. La prima lettura della celebrazione vigiliare presenta la dispersione dell’umanità in Genesi 11,1-9: “La si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra”. Il testo di Atti, nella celebrazione del giorno, mostra i popoli radunati a Gerusalemme per la festa, i quali faranno esperienza della nuova Pentecoste, frutto della nuova Pasqua. Pietro e gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo senza più timore; lo Spirito darà voce alla gioia, non più imprigionata dalla paura. Non avranno paura di annunciare la verità tutta intera, come dice il Vangelo della domenica (Gv 15,26; 16,13). Lo Spirito darà loro la forza della testimonianza (vv. 26-27), ricorderà loro ogni cosa e annuncerà le cose future (v. 13).

Doni dello Spirito alla comunità

Memoria, testimonianza e capacità di “vedere lontano” identificano la Chiesa e ogni credente immerso nell’acqua e nello Spirito, rinato dal “grembo” del fonte battesimale. La memoria viva ed efficace dei sacramenti ci rende presenti agli eventi di grazia di Cristo, che continuano nell’azione Chiesa: i sacramenti. Lo Spirito ricevuto ci dona la gioia del martirio nel presente e squarcia ai nostri occhi il velo della storia futura: la profezia. In questo tempo, facciamo fatica a riconoscere l’orizzonte profetico nelle nostre comunità e nella Chiesa in generale. Le paure sembrano aver sigillato la speranza nel “cenacolo” delle nostre tradizioni. Vieni, Santo Spirito, vieni a rinnovare la tua Chiesa!]]>

La Pentecoste segna l’inizio della Chiesa. Essa aveva avuto la sua gestazione e il suo parto nel dolore sulla croce, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica: “Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (CCC 1067, che cita Sacrosanctum Concilium 2). Dal costato di Cristo aperto dalla lancia del soldato (Gv 19,34) uscì sangue e acqua, e misteriosamente sono svelati i sacramenti del battesimo e dell’eucarestia. E come Eva, madre di tutti i viventi, emerge dal costato di Adamo, la Chiesa, madre dei cristiani, nasce dal costato di Cristo. Questo insegnamento, che ci viene dalla tradizione patristica e dal Magistero, è desunto proprio dalla Parola di questa domenica.

La Pentecoste ebraica

La prima lettura colloca l’irruzione dello Spirito santo “mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste” (At 2,1). È la pentecoste ebraica, che celebra i cinquanta giorni dopo la Pasqua, con il raccolto del frumento (Lv 23,15-17), e anticipa il grande raccolto dell’autunno con la festa delle Capanne. Nella festa ebraica ora irrompe la novità dello Spirito, che segna il tempo sacro dei cinquanta giorni in cui si celebra la Pasqua, come ricorda la colletta della messa vespertina della vigilia. La festa ebraica della pentecoste ricorda anche il dono della Legge, le dieci Parole incise con il fuoco sulle tavole consegnate a Mosè. È facile intravedere un percorso a due binari, con continui incroci, tra le feste ebraiche e le solennità che celebrano gli eventi di salvezza della fede cristiana. Il Signore Gesù porta a compimento quanto anticipato nella storia della salvezza tramite la rivelazione al popolo di Israele. La Pasqua con la sua cena, che Gesù celebra come istituzione della nuova Cena nel contesto della Pasqua. La Pentecoste: la festa ebraica del raccolto, che diviene il frutto maturo della Pasqua di risurrezione, adempiendo la profezia sulla legge pronunciata da Ezechiele e Geremia.

Nella Pentecoste la manifestazione dello Spirito

Lo Spirito santo renderà infatti la legge non più straniera al cuore dell’uomo, ma sarà iscritta nelle sue “viscere”, subordinandola alla legge dell’amore. Il profeta Geremia vedrà in lontananza il compiersi della nuova alleanza: “Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore” (Ger 31,3). Il profeta Ezechiele, dopo aver parlato della dispersione di Israele, traccia un percorso di cammino comune verso Gerusalemme: “Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi, e vi farò osservare e mettere in pratiche le mie norme” (Ez 36,24-28).

Una nuova “legge” scritta nei cuori

Il vento e il fuoco descrivono, nel libro degli Atti, una una vera “teofania”: lo Spirito del Risorto raggiungerà gli apostoli, riuniti nel Cenacolo con Maria. La legge dell’amore sarà incisa ora nel cuore degli “amici di Gesù” e sarà parte costitutiva dell’uomo nuovo, rinato dalle “ceneri” della paura. Il coraggio e la forza di affrontare la missione sarà completata dai frutti che lo Spirito porta in dono: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, come ricorda la seconda lettura (Gal 5,27-28).

Dalla diaspora all’unità

La Pentecoste, celebrata nelle due liturgie, è un percorso che procede dalla diaspora all’unità. La prima lettura della celebrazione vigiliare presenta la dispersione dell’umanità in Genesi 11,1-9: “La si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra”. Il testo di Atti, nella celebrazione del giorno, mostra i popoli radunati a Gerusalemme per la festa, i quali faranno esperienza della nuova Pentecoste, frutto della nuova Pasqua. Pietro e gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo senza più timore; lo Spirito darà voce alla gioia, non più imprigionata dalla paura. Non avranno paura di annunciare la verità tutta intera, come dice il Vangelo della domenica (Gv 15,26; 16,13). Lo Spirito darà loro la forza della testimonianza (vv. 26-27), ricorderà loro ogni cosa e annuncerà le cose future (v. 13).

Doni dello Spirito alla comunità

Memoria, testimonianza e capacità di “vedere lontano” identificano la Chiesa e ogni credente immerso nell’acqua e nello Spirito, rinato dal “grembo” del fonte battesimale. La memoria viva ed efficace dei sacramenti ci rende presenti agli eventi di grazia di Cristo, che continuano nell’azione Chiesa: i sacramenti. Lo Spirito ricevuto ci dona la gioia del martirio nel presente e squarcia ai nostri occhi il velo della storia futura: la profezia. In questo tempo, facciamo fatica a riconoscere l’orizzonte profetico nelle nostre comunità e nella Chiesa in generale. Le paure sembrano aver sigillato la speranza nel “cenacolo” delle nostre tradizioni. Vieni, Santo Spirito, vieni a rinnovare la tua Chiesa!]]>
Ascensione. Se ascese, prima era disceso https://www.lavoce.it/ascensione-se-ascese-prima-era-disceso/ Fri, 14 May 2021 16:51:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60603

L’inno della liturgia delle ore, nella solennità dell’Ascensione, invoca lo Spirito quale “Luce di Sapienza” affinché illumini il nostro cuore e lo renda capace di penetrare il mistero del Dio trino e unico. Nel giorno dell’Ascensione la preghiera della Chiesa contempla il “buon pastore” che ascende al cielo, mentre la Chiesa stessa si fa grembo nell’attesa della Spirito: un Cenacolo che raccoglie il piccolo gregge, “presidiato” dalla vergine Maria. Così la liturgia canta l’ascensione di Gesù: “È asceso il buon pastore alla destra del Padre, veglia il piccolo gregge con Maria nel Cenacolo”. Piccolo gregge, “resto d’Israele”, piccolo seme gettato nel campo aperto del mondo, granello di senape che porta in sé il progetto di un grande albero.

Le immagni di “piccolezza” che descrivono la Chiesa

Queste sono le immagini che descrivono la Chiesa di oggi; e i nostri occhi e il nostro cuore sono chiamati a riorientare lo sguardo sull’essenziale, per riscoprire la bellezza di questo tempo. Per le prime comunità cristiane era chiara la identificazione con la piccolezza: si era consapevoli dell’apparente insignificanza agli occhi degli uomini, della debolezza di fronte al potere civile e politico. Per gli apostoli, forse, questa condizione non era ancora loro patrimonio.

… e l'estasi di fronte alle meraviglie di Dio

Al momento dell’Ascensione al cielo del Signore Gesù, rimangono attratti dallo splendore della gloria dell’evento: una vera “epifania”. Il loro atteggiamento iniziale, è quello di fissare il cielo (At 1,10), immobili ed estasiati. Un atteggiamento simile a quello degli stessi apostoli presenti al momento della Trasfigurazione: “È bello per noi essere qui, facciamo tre capanne” (Mc 9,5). Si sentono parte di quella gloria. La storia di lì a poco sarà per loro maestra di vita, le piaghe della persecuzione segneranno il loro corpo.

La comunità provata dalle “piaghe”

Anche noi, oggi, rischiamo un certo immobilismo di fronte alle meraviglie che il Signore ha compiuto. Alcune volte Egli ci ha concesso di scorgere i frutti della sua semina, e noi li abbiamo attribuiti alla nostre capacità. E così oggi rimpiangiamo le grandi masse, i raduni, una Chiesa potente capace di intervenire sul potere politico, l’identificazione della comunità civile con la comunità cristiana... Il ministero sacerdotale da esercitare, percepito come potere: il parroco collocato tra i personaggi influenti del paese, il vescovo, un “eccellenza” tra gli eccellenti, e la sua parola un passe-partout che apre una moltitudine di porte. Abbiamo identificato la gloria del Signore che ascende al cielo con la possibilità della nostra gloria da ricevere dagli uomini.

La gloria di Gesù non è di questo mondo

Ma l’ascensione al cielo di Gesù ci parla di una gloria che non è di questo mondo. Infatti nella seconda lettura, Paolo scrive così alla comunità di Efeso: “Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?” (Ef 4,9). Quel Gesù che noi contempliamo nella gloria, è lo stesso Gesù che l’ha abbandonata per farsi uno di noi, e ritorna al Padre con i segni della Passione.

Ascensione: mistero da contemplare

L’ascensione è quindi un mistero da contemplare. Ci ricorda che Dio, prima di tutto, si è fatto uomo, e che la sua venuta ha come fine la comunione con Lui, sia nel pellegrinaggio terreno che nella gloria dei cieli. Per questo la Chiesa nella celebrazione di questa domenica, nella colletta iniziale, ci invita ad esultare di gioia: “Nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo Corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria”. Le nostre comunità, mentre contemplano il mistero che celebrano, non possono non ascoltare la voce che risuona in questo giorno: “Di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8). Non sono solo coordinate geografiche, ma corrispondono anche a un’indicazione di percorso per le nostre comunità, un vero piano pastorale. Ripartire da Gerusalemme: dal nostro cuore, bisognoso di riaccendersi per mostrare la bellezza del Vangelo da annunciare. La Giudea: la nostra comunità credente che ancora vive l’esperienza cristiana, ma che ha bisogno di riscoprire la fede, affinché la carità sia la regola di vita. La Samaria, e aggiungerei la Galilea: i luoghi privilegiati dell’annuncio, dove ci verrà chiesto di essere credibili e non solo credenti, come ricordava il beato Rosario Livatino.

Per uscire sulle strade del mondo

In questi luoghi, dove la vita è segnata dalle insicurezze, dai drammi, dalle ferite, dalla disperazione, dal non-senso, la comunità cristiana è spinta dallo Spirito a esercitare il ministero della speranza. Siamo disposti a uscire dai nostri “focolari ecclesiastici”, a mettere in discussione le nostre granitiche certezze alimentate, non dalla Parola che rinnova, ma dalle tradizioni che anestetizzano? Non c’è ascensione, se non si discende nell’umanità del nostro tempo.]]>

L’inno della liturgia delle ore, nella solennità dell’Ascensione, invoca lo Spirito quale “Luce di Sapienza” affinché illumini il nostro cuore e lo renda capace di penetrare il mistero del Dio trino e unico. Nel giorno dell’Ascensione la preghiera della Chiesa contempla il “buon pastore” che ascende al cielo, mentre la Chiesa stessa si fa grembo nell’attesa della Spirito: un Cenacolo che raccoglie il piccolo gregge, “presidiato” dalla vergine Maria. Così la liturgia canta l’ascensione di Gesù: “È asceso il buon pastore alla destra del Padre, veglia il piccolo gregge con Maria nel Cenacolo”. Piccolo gregge, “resto d’Israele”, piccolo seme gettato nel campo aperto del mondo, granello di senape che porta in sé il progetto di un grande albero.

Le immagni di “piccolezza” che descrivono la Chiesa

Queste sono le immagini che descrivono la Chiesa di oggi; e i nostri occhi e il nostro cuore sono chiamati a riorientare lo sguardo sull’essenziale, per riscoprire la bellezza di questo tempo. Per le prime comunità cristiane era chiara la identificazione con la piccolezza: si era consapevoli dell’apparente insignificanza agli occhi degli uomini, della debolezza di fronte al potere civile e politico. Per gli apostoli, forse, questa condizione non era ancora loro patrimonio.

… e l'estasi di fronte alle meraviglie di Dio

Al momento dell’Ascensione al cielo del Signore Gesù, rimangono attratti dallo splendore della gloria dell’evento: una vera “epifania”. Il loro atteggiamento iniziale, è quello di fissare il cielo (At 1,10), immobili ed estasiati. Un atteggiamento simile a quello degli stessi apostoli presenti al momento della Trasfigurazione: “È bello per noi essere qui, facciamo tre capanne” (Mc 9,5). Si sentono parte di quella gloria. La storia di lì a poco sarà per loro maestra di vita, le piaghe della persecuzione segneranno il loro corpo.

La comunità provata dalle “piaghe”

Anche noi, oggi, rischiamo un certo immobilismo di fronte alle meraviglie che il Signore ha compiuto. Alcune volte Egli ci ha concesso di scorgere i frutti della sua semina, e noi li abbiamo attribuiti alla nostre capacità. E così oggi rimpiangiamo le grandi masse, i raduni, una Chiesa potente capace di intervenire sul potere politico, l’identificazione della comunità civile con la comunità cristiana... Il ministero sacerdotale da esercitare, percepito come potere: il parroco collocato tra i personaggi influenti del paese, il vescovo, un “eccellenza” tra gli eccellenti, e la sua parola un passe-partout che apre una moltitudine di porte. Abbiamo identificato la gloria del Signore che ascende al cielo con la possibilità della nostra gloria da ricevere dagli uomini.

La gloria di Gesù non è di questo mondo

Ma l’ascensione al cielo di Gesù ci parla di una gloria che non è di questo mondo. Infatti nella seconda lettura, Paolo scrive così alla comunità di Efeso: “Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?” (Ef 4,9). Quel Gesù che noi contempliamo nella gloria, è lo stesso Gesù che l’ha abbandonata per farsi uno di noi, e ritorna al Padre con i segni della Passione.

Ascensione: mistero da contemplare

L’ascensione è quindi un mistero da contemplare. Ci ricorda che Dio, prima di tutto, si è fatto uomo, e che la sua venuta ha come fine la comunione con Lui, sia nel pellegrinaggio terreno che nella gloria dei cieli. Per questo la Chiesa nella celebrazione di questa domenica, nella colletta iniziale, ci invita ad esultare di gioia: “Nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo Corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria”. Le nostre comunità, mentre contemplano il mistero che celebrano, non possono non ascoltare la voce che risuona in questo giorno: “Di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8). Non sono solo coordinate geografiche, ma corrispondono anche a un’indicazione di percorso per le nostre comunità, un vero piano pastorale. Ripartire da Gerusalemme: dal nostro cuore, bisognoso di riaccendersi per mostrare la bellezza del Vangelo da annunciare. La Giudea: la nostra comunità credente che ancora vive l’esperienza cristiana, ma che ha bisogno di riscoprire la fede, affinché la carità sia la regola di vita. La Samaria, e aggiungerei la Galilea: i luoghi privilegiati dell’annuncio, dove ci verrà chiesto di essere credibili e non solo credenti, come ricordava il beato Rosario Livatino.

Per uscire sulle strade del mondo

In questi luoghi, dove la vita è segnata dalle insicurezze, dai drammi, dalle ferite, dalla disperazione, dal non-senso, la comunità cristiana è spinta dallo Spirito a esercitare il ministero della speranza. Siamo disposti a uscire dai nostri “focolari ecclesiastici”, a mettere in discussione le nostre granitiche certezze alimentate, non dalla Parola che rinnova, ma dalle tradizioni che anestetizzano? Non c’è ascensione, se non si discende nell’umanità del nostro tempo.]]>
Rimanere nel Suo amore https://www.lavoce.it/rimanere-nel-suo-amore/ Fri, 07 May 2021 16:27:32 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60551

Il Vangelo di Giovanni che ci ha accompagnato in queste domeniche ci ha introdotto al mistero dell’amore non con definizioni, ma attraverso le parole di Gesù nei “discorsi di addio”. Nel contesto dell’ultima cena, Gesù ci lascia il suo grande “testamento”, che possiamo approfondire nei capitoli 13-17. La liturgia, in questa domenica e nella domenica precedente, ci ha fatto ascoltare una parte del capitolo 15. Il fraseggio di Giovanni procede non tanto per passaggi conseguenziali quanto per cerchi concentrici che ritornando sullo stesso tema; e ogni volta si allarga e approfondisce il tema stesso. È una modalità che facilita la contemplazione, che è la via privilegiata per accostarci al mistero dell’amore di Dio. “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Con queste parole Gesù prepara i suoi discepoli alla separazione da loro. Una prima separazione è la morte in croce; la seconda, totalmente diversa, è la sua ascensione al Cielo.

Dall’allegoria si passa alla vita

Anche noi siamo chiamati a immergersi in questo mistero della nuova presenza di Gesù, che celebreremo domenica prossima nella solennità dell’Ascensione. “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9) afferma Gesù nel Vangelo di questa domenica. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4), ci aveva detto Gesù nel Vangelo di domenica scorsa, spiegando questo legame con l’allegoria della vite e i tralci (Gv 15,1-8). Dall’allegoria si passa alla vita: “rimanere in”, non è l’indicazione di un luogo, ma la permanenza di un legame che, al contrario della staticità, fa muovere le gambe, perché muove il cuore. “Rimanere in” lui, per “andare con” lui là dove egli ci indicherà. Questo legame è la condizione necessaria per la realizzazione di ogni progetto di Gesù, che è sempre un progetto d’amore. In lui ha inizio ogni progetto, e in lui ogni progetto ha il suo compimento, ma nel cammino non ci lascia soli: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4) è la garanzia necessaria per “rimanere nella gioia” e camminare nella gioia, affinché sia piena (v. 11).

Nella relazione la preghiera incontra la volontà del Padre

Il Vangelo di domenica scorsa ci ricordava che, se il legame tra la vite e i tralci rende visibile il legame tra Gesù e i discepoli (v. 5), il rapporto tra l’agricoltore e la vite (v. 1) descrive il legame tra Gesù e il Padre. Gesù esplicita questo rapporto nel Vangelo di questa domenica: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi” (v. 9). È dentro questo legame che si comprende la duplice affermazione che chiude sia il Vangelo di domenica scorsa che quello di questa domenica: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (v. 8); “perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (v. 16). È dentro questa relazione che la nostra preghiera diventa tutt’uno con la volontà del Padre e supera la semplice richiesta di ciò di cui abbiamo bisogno, per immergersi nel vero desiderio: il bisogno di Lui.

L’amore non si conquista, ma si accoglie

Ma l’amore di cui ci parla Gesù è ben diverso dalla concezione emotivo-sentimentale con cui spesso viene confuso. Il Vangelo ci ricorda che l’amore ha un’origine, è lui ci amati per primo e ci ha scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, e per questo può dirci: “Rimanete”. L’amore non è una conquista, ma un accogliere il dono che Gesù ci ha fatto: la sua amicizia (Gv 15,14). E l’amore di cui ci parla Gesù è tremendamente concreto, scevro da ogni sentimentalismo: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (v. 13). Fine di ogni ambiguità sentimentalista ed evasione dalla realtà! L’amore è invece un’immersione nella vita reale, che richiede anche una disciplina e una volontà. Gesù stesso applica la parola “comandamento” al concetto di amore: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. Anche il suo amore verso il Padre è strutturato dall’osservare i comandamenti del Padre (v. 10). Nello stesso tempo, osservare i comandamenti non costituisce la garanzia di poter “conquistare” l’amore. Essi semmai ne sono la custodia: l’amore non si conquista, ma si accoglie.

È l'esperienza che fanno i discepoli

È l’esperienza che fa Pietro e quanti erano con lui, narrata dalla prima lettura. Lo Spirito santo è effuso anche sui pagani, oltre il confine segnato dalla legge di Mosè che precludeva ai non circoncisi la possibilità di conoscere Dio (At 10,44-45). Pietro aveva intuito la novità che il Signore risorto aveva inaugurato, e trova conferma nell’irruzione dello Spirito anche sui pagani. (vv. 34-35). Lo Spirito santo sorprende sempre, perché è la perenne novità dell’amore di Dio. Infatti la seconda lettura ci ricorda che “Dio è amore” (1Gv 4,8). Se rimaniamo in Lui, anche noi, oggi, saremo capaci di meravigliarci delle novità che lo Spirito suggerisce alla Chiesa.]]>

Il Vangelo di Giovanni che ci ha accompagnato in queste domeniche ci ha introdotto al mistero dell’amore non con definizioni, ma attraverso le parole di Gesù nei “discorsi di addio”. Nel contesto dell’ultima cena, Gesù ci lascia il suo grande “testamento”, che possiamo approfondire nei capitoli 13-17. La liturgia, in questa domenica e nella domenica precedente, ci ha fatto ascoltare una parte del capitolo 15. Il fraseggio di Giovanni procede non tanto per passaggi conseguenziali quanto per cerchi concentrici che ritornando sullo stesso tema; e ogni volta si allarga e approfondisce il tema stesso. È una modalità che facilita la contemplazione, che è la via privilegiata per accostarci al mistero dell’amore di Dio. “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Con queste parole Gesù prepara i suoi discepoli alla separazione da loro. Una prima separazione è la morte in croce; la seconda, totalmente diversa, è la sua ascensione al Cielo.

Dall’allegoria si passa alla vita

Anche noi siamo chiamati a immergersi in questo mistero della nuova presenza di Gesù, che celebreremo domenica prossima nella solennità dell’Ascensione. “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9) afferma Gesù nel Vangelo di questa domenica. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4), ci aveva detto Gesù nel Vangelo di domenica scorsa, spiegando questo legame con l’allegoria della vite e i tralci (Gv 15,1-8). Dall’allegoria si passa alla vita: “rimanere in”, non è l’indicazione di un luogo, ma la permanenza di un legame che, al contrario della staticità, fa muovere le gambe, perché muove il cuore. “Rimanere in” lui, per “andare con” lui là dove egli ci indicherà. Questo legame è la condizione necessaria per la realizzazione di ogni progetto di Gesù, che è sempre un progetto d’amore. In lui ha inizio ogni progetto, e in lui ogni progetto ha il suo compimento, ma nel cammino non ci lascia soli: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4) è la garanzia necessaria per “rimanere nella gioia” e camminare nella gioia, affinché sia piena (v. 11).

Nella relazione la preghiera incontra la volontà del Padre

Il Vangelo di domenica scorsa ci ricordava che, se il legame tra la vite e i tralci rende visibile il legame tra Gesù e i discepoli (v. 5), il rapporto tra l’agricoltore e la vite (v. 1) descrive il legame tra Gesù e il Padre. Gesù esplicita questo rapporto nel Vangelo di questa domenica: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi” (v. 9). È dentro questo legame che si comprende la duplice affermazione che chiude sia il Vangelo di domenica scorsa che quello di questa domenica: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (v. 8); “perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (v. 16). È dentro questa relazione che la nostra preghiera diventa tutt’uno con la volontà del Padre e supera la semplice richiesta di ciò di cui abbiamo bisogno, per immergersi nel vero desiderio: il bisogno di Lui.

L’amore non si conquista, ma si accoglie

Ma l’amore di cui ci parla Gesù è ben diverso dalla concezione emotivo-sentimentale con cui spesso viene confuso. Il Vangelo ci ricorda che l’amore ha un’origine, è lui ci amati per primo e ci ha scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”, e per questo può dirci: “Rimanete”. L’amore non è una conquista, ma un accogliere il dono che Gesù ci ha fatto: la sua amicizia (Gv 15,14). E l’amore di cui ci parla Gesù è tremendamente concreto, scevro da ogni sentimentalismo: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (v. 13). Fine di ogni ambiguità sentimentalista ed evasione dalla realtà! L’amore è invece un’immersione nella vita reale, che richiede anche una disciplina e una volontà. Gesù stesso applica la parola “comandamento” al concetto di amore: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. Anche il suo amore verso il Padre è strutturato dall’osservare i comandamenti del Padre (v. 10). Nello stesso tempo, osservare i comandamenti non costituisce la garanzia di poter “conquistare” l’amore. Essi semmai ne sono la custodia: l’amore non si conquista, ma si accoglie.

È l'esperienza che fanno i discepoli

È l’esperienza che fa Pietro e quanti erano con lui, narrata dalla prima lettura. Lo Spirito santo è effuso anche sui pagani, oltre il confine segnato dalla legge di Mosè che precludeva ai non circoncisi la possibilità di conoscere Dio (At 10,44-45). Pietro aveva intuito la novità che il Signore risorto aveva inaugurato, e trova conferma nell’irruzione dello Spirito anche sui pagani. (vv. 34-35). Lo Spirito santo sorprende sempre, perché è la perenne novità dell’amore di Dio. Infatti la seconda lettura ci ricorda che “Dio è amore” (1Gv 4,8). Se rimaniamo in Lui, anche noi, oggi, saremo capaci di meravigliarci delle novità che lo Spirito suggerisce alla Chiesa.]]>
Non ci sono tralci senza vite https://www.lavoce.it/non-ci-sono-tralci-senza-vite/ Fri, 30 Apr 2021 10:45:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60414

Il Vangelo di questa domenica ci propone l'immagine della vite e dei tralci con la quale Gesù spiega ai discepoli il rapporto tra lui (noi) e il Padre.

L'identità del Signore

“Io sono” (Gv 15,1) è il nome di Dio. Ce lo rivela il libro dell’Esodo. Mosè chiede a Colui che si è rivelato nel roveto ardente (Es 3,1-6) la sua identità. Dio gli risponde: “Io sono” (Es 3,13-15). Il termine non indica affatto un soggettivismo e individualismo estremo. Il Signore si era rivelato a Mosè già come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (v. 6) e aveva definito Israele “suo popolo” (v. 7). Nell’inviare Mosè a liberare il suo popolo, non lo lascerà solo: “Io sarò con te” (v. 11).

Il Signore, mentre definisce la sua identità, dà un’identità anche a chi rimane in Lui, e crea un legame non di possesso, ma di amore liberante: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Mentre afferma la sua identità di Pastore Bello (“Io sono il Buon Pastore”, Gv 10,11), Gesù, definisce noi come il suo gregge (v. 14-15), per il quale dà la vita. Ce lo ha ricordato il Vangelo di domenica scorsa (Gv 10, 11-18).

Nel Vangelo che leggiamo in questa domenica, mentre si autodefinisce, “io sono la vite”, dà il nome a ciascuno di noi: “Voi siete i tralci” (Gv 15,5). Non solo definisce la relazione con noi: gregge e tralci, ma ci lega in stretta connessione anche con il Padre, a cui dà il nome di agricoltore (Gv 15,1).

L'immagine della vigna

Dall’immagine legata alla pastorizia, Gesù passa a descrivere le relazione con il Padre e con noi attraverso le immagini contadine legate alla vigna. Essa rappresenta fin dalla tradizione profetica l’immagine del popolo di Israele. Isaia descrive questa rappresentazione nel “canto della vigna” al capitolo 5: “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna” (5,1).

Una vigna amata di cui il Signore è il custode: “In quel giorno la vigna sarà deliziosa – cantatela! – Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi ne ho cura notte e giorno” (Is 27,2-3).

La cura della vigna e la cura del Signore per noi

La cura della vigna è una perfetta simbologia della cura che il Signore ha nei confronti del suo popolo e per ciascuno di noi. Se non rimaniamo in Lui, perdiamo la nostra vita; se ci separiamo da Lui, la linfa vitale che ci tiene in vita non ci raggiunge più. Il testo descrive questo legame nel rapporto vite/tralci: i tralci hanno vita e producono i grappoli d’uva solo se rimangono innestati nella vite.

Così i nostri frutti di bene sono possibili solo se in profonda comunione con Lui. Affinché si producano frutti abbondanti, come la vite ha bisogno della potatura, così la nostra vita redenta ha bisogno di continua cura (Gv 15,2-3).

Le prove che sperimentiamo nella nostra vita di credenti accrescono la nostra capacità di amare, amplificando le nostre opere buone.

L’opera dell’agricoltore esprime la cura per la vigna non solo con la potatura, affinché la vite porti più frutto, ma anche con il taglio netto dei rami che sono diventati secchi. Non portano più frutto perché la linfa vitale, che procede dalla vite al tralcio, ha trovato un ostacolo.

Nella vita di fede, se ci lasciamo andare, se non curiamo più il legame vitale con il Signore, siamo come i rami secchi: morti, incapaci di generare nuova vita.

La vita di Paolo frutto della "potatura" del Signore

Nella Parola di questa domenica troviamo uno dei frutti più belli della potatura del Signore: Paolo di Tarso. Si definisce fariseo quanto alla legge, persecutore dei cristiani quanto allo zelo (Fil 3,5-6), e la sua fama era rimasta anche dopo la conversione: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui” (At 9,26).

Ma l’incontro con il Cristo risorto lo rende cieco alla sua pretesa di vedere (At 9,3-9).

Paolo ha iniziato invece a vedere con occhi nuovi, e lo stesso zelo si è trasformato nella passione per il Signore e per l’annuncio del Vangelo. Il legame con Cristo, per Paolo, è divenuto inscindibile dalla sua stessa vita: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Gesù ha preso possesso della sua vita, rendendolo veramente libero. Per questo, Paolo può affermare: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Ma anche Paolo, innamorato di Cristo, tutt’uno con Cristo, ha bisogno della Chiesa per verificare la verità del suo amore per Cristo. Ha bisogno di verificare se il suo insegnamento su Cristo non sia magari sua “invenzione” (Gal 2,2).

Infatti la prima lettura ci dice che Paolo “aveva predicato con coraggio a Damasco” e nello stesso tempo “andava e veniva da Gerusalemme” per stare con gli altri apostoli (At 9,27-28).

Amore per Cristo e amore per la Chiesa

L’amore per Cristo è inscindibile dall’amore per la Chiesa: l’amore per la Chiesa è prova dell’amore per Cristo. Il rimanere in Lui è reso possibile dal rimanere con la Chiesa: solo così si è discepoli di Cristo, e quindi tralci ricolmi di grappoli maturi.

 

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Il Vangelo di questa domenica ci propone l'immagine della vite e dei tralci con la quale Gesù spiega ai discepoli il rapporto tra lui (noi) e il Padre.

L'identità del Signore

“Io sono” (Gv 15,1) è il nome di Dio. Ce lo rivela il libro dell’Esodo. Mosè chiede a Colui che si è rivelato nel roveto ardente (Es 3,1-6) la sua identità. Dio gli risponde: “Io sono” (Es 3,13-15). Il termine non indica affatto un soggettivismo e individualismo estremo. Il Signore si era rivelato a Mosè già come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (v. 6) e aveva definito Israele “suo popolo” (v. 7). Nell’inviare Mosè a liberare il suo popolo, non lo lascerà solo: “Io sarò con te” (v. 11).

Il Signore, mentre definisce la sua identità, dà un’identità anche a chi rimane in Lui, e crea un legame non di possesso, ma di amore liberante: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Mentre afferma la sua identità di Pastore Bello (“Io sono il Buon Pastore”, Gv 10,11), Gesù, definisce noi come il suo gregge (v. 14-15), per il quale dà la vita. Ce lo ha ricordato il Vangelo di domenica scorsa (Gv 10, 11-18).

Nel Vangelo che leggiamo in questa domenica, mentre si autodefinisce, “io sono la vite”, dà il nome a ciascuno di noi: “Voi siete i tralci” (Gv 15,5). Non solo definisce la relazione con noi: gregge e tralci, ma ci lega in stretta connessione anche con il Padre, a cui dà il nome di agricoltore (Gv 15,1).

L'immagine della vigna

Dall’immagine legata alla pastorizia, Gesù passa a descrivere le relazione con il Padre e con noi attraverso le immagini contadine legate alla vigna. Essa rappresenta fin dalla tradizione profetica l’immagine del popolo di Israele. Isaia descrive questa rappresentazione nel “canto della vigna” al capitolo 5: “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna” (5,1).

Una vigna amata di cui il Signore è il custode: “In quel giorno la vigna sarà deliziosa – cantatela! – Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi ne ho cura notte e giorno” (Is 27,2-3).

La cura della vigna e la cura del Signore per noi

La cura della vigna è una perfetta simbologia della cura che il Signore ha nei confronti del suo popolo e per ciascuno di noi. Se non rimaniamo in Lui, perdiamo la nostra vita; se ci separiamo da Lui, la linfa vitale che ci tiene in vita non ci raggiunge più. Il testo descrive questo legame nel rapporto vite/tralci: i tralci hanno vita e producono i grappoli d’uva solo se rimangono innestati nella vite.

Così i nostri frutti di bene sono possibili solo se in profonda comunione con Lui. Affinché si producano frutti abbondanti, come la vite ha bisogno della potatura, così la nostra vita redenta ha bisogno di continua cura (Gv 15,2-3).

Le prove che sperimentiamo nella nostra vita di credenti accrescono la nostra capacità di amare, amplificando le nostre opere buone.

L’opera dell’agricoltore esprime la cura per la vigna non solo con la potatura, affinché la vite porti più frutto, ma anche con il taglio netto dei rami che sono diventati secchi. Non portano più frutto perché la linfa vitale, che procede dalla vite al tralcio, ha trovato un ostacolo.

Nella vita di fede, se ci lasciamo andare, se non curiamo più il legame vitale con il Signore, siamo come i rami secchi: morti, incapaci di generare nuova vita.

La vita di Paolo frutto della "potatura" del Signore

Nella Parola di questa domenica troviamo uno dei frutti più belli della potatura del Signore: Paolo di Tarso. Si definisce fariseo quanto alla legge, persecutore dei cristiani quanto allo zelo (Fil 3,5-6), e la sua fama era rimasta anche dopo la conversione: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui” (At 9,26).

Ma l’incontro con il Cristo risorto lo rende cieco alla sua pretesa di vedere (At 9,3-9).

Paolo ha iniziato invece a vedere con occhi nuovi, e lo stesso zelo si è trasformato nella passione per il Signore e per l’annuncio del Vangelo. Il legame con Cristo, per Paolo, è divenuto inscindibile dalla sua stessa vita: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Gesù ha preso possesso della sua vita, rendendolo veramente libero. Per questo, Paolo può affermare: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Ma anche Paolo, innamorato di Cristo, tutt’uno con Cristo, ha bisogno della Chiesa per verificare la verità del suo amore per Cristo. Ha bisogno di verificare se il suo insegnamento su Cristo non sia magari sua “invenzione” (Gal 2,2).

Infatti la prima lettura ci dice che Paolo “aveva predicato con coraggio a Damasco” e nello stesso tempo “andava e veniva da Gerusalemme” per stare con gli altri apostoli (At 9,27-28).

Amore per Cristo e amore per la Chiesa

L’amore per Cristo è inscindibile dall’amore per la Chiesa: l’amore per la Chiesa è prova dell’amore per Cristo. Il rimanere in Lui è reso possibile dal rimanere con la Chiesa: solo così si è discepoli di Cristo, e quindi tralci ricolmi di grappoli maturi.

 

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Gesù, pastore e maestro di amore https://www.lavoce.it/gesu-pastore-e-maestro-di-amore-giornata-vocazioni/ Fri, 23 Apr 2021 10:21:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60259

Gesù “buon pastore” è l'immagine che il vangeloci presenta nella domenica dedicata alla preghiera per le vocazioni.
La quarta domenica di Pasqua segna una svolta. Fino a domenica scorsa, i testi evangelici ci hanno narrato il giorno di Pasqua, i sentimenti delle donne e dei discepoli: le paure, le angosce, i dubbi, i turbamenti, lo stupore, la gioia. Abbiano “visitato” anche noi i luoghi del Risorto: il sepolcro, il Cenacolo, la strada per Emmaus e il ritorno a Gerusalemme.

Gesù presentato come “buon pastore"

Il Vangelo di questa domenica ci narra, attraverso l’immagine del buon pastore (alcune traduzioni lo presentano come il pastore “bello”, il pastore “vero”), che il Risorto ora è veramente Colui che guida la nostra vita e l’intera comunità dei credenti, suo gregge, per il quale ha dato al vita (Gv 10,14-16). I testi liturgici rafforzano questa immagine, e il pastore diventa il custode che ha misericordia del suo gregge e lo conduce ai pascoli della vita eterna. Con questa preghiera, esplicitata nel post communio, ci lasciamo accompagnare sulle strade della vita, ravvivati nella fede, dalla comunione con Lui. L’intima relazione eucaristica trova nella relazione tra pastore e gregge, come descritta dal Vangelo odierno (Gv 11,10), le parole per dare voce all’indicibile. Il netto contrasto con la figura oscura del mercenario (v. 12), rende più evidente la luce di Colui che per le pecore si fa “agnello immolato”.

Pastore che non fugge ma dà la sua vita

Il Pastore Buono e Bello non solo non fugge di fronte al lupo, ma è pronto a saziare la fame del lupo, affinché risparmi il gregge. È Lui che dà la vita con un sovrano atto di libertà: non se la lascia prendere, ma la depone (Gv 10, 18). Il verbo “dare la vita” è anche tradotto con “deporre” infatti. Un termine molto evocativo, se torniamo all’immagine della croce e del sepolcro. Gesù è deposto dal patibolo e deposto nella tomba. Ma ciò è reso possibile dal deporre la sua volontà nelle mani del Padre. La consegna della vita come atto supremo di libertà e di amore è descritto dall’evangelista Giovanni nel racconto della Passione. È Gesù che stabilisce l’ora e il momento della “consegna” della sua vita. Gesù non subisce la condanna, ma è il protagonista, regista e scrittore della scena. L’evangelista Giovanni nel racconto della Passione ci dice che il potere sulla vita e sulla morte non è in mano al potente di turno. Per questo risponde a Pilato: “Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto” (Gv 19,11). Comprendiamo allora che l’immagine del Pastore Bello si identifica con il Signore Gesù, come evidenziato dalla liturgia, nell’antifona alla comunione: “È risorto il buon pastore, che ha dato la vita per le sue pecore, e per il suo gregge è andato incontro alla morte”.

Atto d'amore che nasce dalla relazione con il Padre

Questo atto d’amore ha la sua origine in quella relazione unica che Gesù ha con il Padre, e che l’evangelista Giovanni esprime con il verbo “conoscere” (10,14-15). Il termine non esprime un concetto intellettuale, ma un vero moto del cuore, che attraverso lo sguardo penetra nell’interiorità altrui e riconosce l’altro per quello che è, amando ciò che è, e desiderando di compiere per lui ogni vero bene. Lo stesso verbo lo ritroviamo nella seconda lettura, che pone alla base dell’incapacità di riconoscere l’amore il non conoscere Colui che è l’origine dell’amore. Quest’amore è conosciuto in pienezza proprio in quella relazione intima e unica che è la relazione intra-trinitaria tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Una conoscenza possibile in pienezza anche per noi.

Il tempo del “conoscere” e dell'amare”

La seconda lettura ci ricorda la “tempistica”: “Sappiamo però che, quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Ma tutto è possibile anche a noi, perché anche noi, oggi, siamo già realmente suoi figli (v. 1). Da queste parole individuiamo allora una stretta correlazione tra il verbo conoscere e il verbo amare, tanto che nella Bibbia si usa il primo termine per indicare l’atto sponsale dell’unione fisica tra chi si ama. I testi di questa domenica indicano che l’amore non può essere declinato in modo indefinito, ma ha bisogno di un termine ben preciso, ha bisogno di un “tu” da amare: non si ama “l’umanità”, ma la persona che ci è davanti.

La libertà non si annulla nell'amore

L’amore va messo alla prova del “tu” per allargarsi a un orizzonte più ampio. Di fronte al “tu”, se si rimane un “io” irriducibile e non ci si lascia plasmare in “noi”, non si conoscerà l’amore. L’io è chiamato ha deporre le armi dell’egoismo, in un costante esercizio di libertà da se stessi. È proprio nella logica del dono di sé che la libertà scopre la sua vera identità. La libertà non si annulla nell’amore, ma in esso è sublimata. La libertà trova la sua migliore declinazione con la preposizione “per”, diversamente dalla logica del “liberi da”. Obbedire a una chiamata è sublimare la libertà nell’amore.]]>

Gesù “buon pastore” è l'immagine che il vangeloci presenta nella domenica dedicata alla preghiera per le vocazioni.
La quarta domenica di Pasqua segna una svolta. Fino a domenica scorsa, i testi evangelici ci hanno narrato il giorno di Pasqua, i sentimenti delle donne e dei discepoli: le paure, le angosce, i dubbi, i turbamenti, lo stupore, la gioia. Abbiano “visitato” anche noi i luoghi del Risorto: il sepolcro, il Cenacolo, la strada per Emmaus e il ritorno a Gerusalemme.

Gesù presentato come “buon pastore"

Il Vangelo di questa domenica ci narra, attraverso l’immagine del buon pastore (alcune traduzioni lo presentano come il pastore “bello”, il pastore “vero”), che il Risorto ora è veramente Colui che guida la nostra vita e l’intera comunità dei credenti, suo gregge, per il quale ha dato al vita (Gv 10,14-16). I testi liturgici rafforzano questa immagine, e il pastore diventa il custode che ha misericordia del suo gregge e lo conduce ai pascoli della vita eterna. Con questa preghiera, esplicitata nel post communio, ci lasciamo accompagnare sulle strade della vita, ravvivati nella fede, dalla comunione con Lui. L’intima relazione eucaristica trova nella relazione tra pastore e gregge, come descritta dal Vangelo odierno (Gv 11,10), le parole per dare voce all’indicibile. Il netto contrasto con la figura oscura del mercenario (v. 12), rende più evidente la luce di Colui che per le pecore si fa “agnello immolato”.

Pastore che non fugge ma dà la sua vita

Il Pastore Buono e Bello non solo non fugge di fronte al lupo, ma è pronto a saziare la fame del lupo, affinché risparmi il gregge. È Lui che dà la vita con un sovrano atto di libertà: non se la lascia prendere, ma la depone (Gv 10, 18). Il verbo “dare la vita” è anche tradotto con “deporre” infatti. Un termine molto evocativo, se torniamo all’immagine della croce e del sepolcro. Gesù è deposto dal patibolo e deposto nella tomba. Ma ciò è reso possibile dal deporre la sua volontà nelle mani del Padre. La consegna della vita come atto supremo di libertà e di amore è descritto dall’evangelista Giovanni nel racconto della Passione. È Gesù che stabilisce l’ora e il momento della “consegna” della sua vita. Gesù non subisce la condanna, ma è il protagonista, regista e scrittore della scena. L’evangelista Giovanni nel racconto della Passione ci dice che il potere sulla vita e sulla morte non è in mano al potente di turno. Per questo risponde a Pilato: “Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto” (Gv 19,11). Comprendiamo allora che l’immagine del Pastore Bello si identifica con il Signore Gesù, come evidenziato dalla liturgia, nell’antifona alla comunione: “È risorto il buon pastore, che ha dato la vita per le sue pecore, e per il suo gregge è andato incontro alla morte”.

Atto d'amore che nasce dalla relazione con il Padre

Questo atto d’amore ha la sua origine in quella relazione unica che Gesù ha con il Padre, e che l’evangelista Giovanni esprime con il verbo “conoscere” (10,14-15). Il termine non esprime un concetto intellettuale, ma un vero moto del cuore, che attraverso lo sguardo penetra nell’interiorità altrui e riconosce l’altro per quello che è, amando ciò che è, e desiderando di compiere per lui ogni vero bene. Lo stesso verbo lo ritroviamo nella seconda lettura, che pone alla base dell’incapacità di riconoscere l’amore il non conoscere Colui che è l’origine dell’amore. Quest’amore è conosciuto in pienezza proprio in quella relazione intima e unica che è la relazione intra-trinitaria tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Una conoscenza possibile in pienezza anche per noi.

Il tempo del “conoscere” e dell'amare”

La seconda lettura ci ricorda la “tempistica”: “Sappiamo però che, quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Ma tutto è possibile anche a noi, perché anche noi, oggi, siamo già realmente suoi figli (v. 1). Da queste parole individuiamo allora una stretta correlazione tra il verbo conoscere e il verbo amare, tanto che nella Bibbia si usa il primo termine per indicare l’atto sponsale dell’unione fisica tra chi si ama. I testi di questa domenica indicano che l’amore non può essere declinato in modo indefinito, ma ha bisogno di un termine ben preciso, ha bisogno di un “tu” da amare: non si ama “l’umanità”, ma la persona che ci è davanti.

La libertà non si annulla nell'amore

L’amore va messo alla prova del “tu” per allargarsi a un orizzonte più ampio. Di fronte al “tu”, se si rimane un “io” irriducibile e non ci si lascia plasmare in “noi”, non si conoscerà l’amore. L’io è chiamato ha deporre le armi dell’egoismo, in un costante esercizio di libertà da se stessi. È proprio nella logica del dono di sé che la libertà scopre la sua vera identità. La libertà non si annulla nell’amore, ma in esso è sublimata. La libertà trova la sua migliore declinazione con la preposizione “per”, diversamente dalla logica del “liberi da”. Obbedire a una chiamata è sublimare la libertà nell’amore.]]>
“Ma Dio lo ha risuscitato”: è l’annuncio di Pasqua https://www.lavoce.it/ma-dio-lo-ha-risuscitato-e-lannuncio-di-pasqua/ https://www.lavoce.it/ma-dio-lo-ha-risuscitato-e-lannuncio-di-pasqua/#comments Thu, 15 Apr 2021 18:28:19 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60182

La Pasqua è il centro dell’anno liturgico intorno alla quale ruota, come polo di attrazione, tutta celebrazione dei misteri della fede. La Pasqua è il cuore della vita di fede di ogni credente. Senza la Pasqua non possiamo vivere, anzi, dalla Pasqua impariamo a vivere, superando i nostri “venerdì di passione”, perché in essi scorgiamo una luce che rischiara la notte, preludio alla mattina di Pasqua.

Una Pasqua di 50 giorni

Per questo la liturgia ci fa celebrare la Pasqua per otto giorni; per questo l’anno liturgico ha un tempo pasquale della durata di cinquanta giorni; per questo noi ogni settimana celebriamo la Pasqua: senza la domenica, giorno del Signore, non possiamo vivere. Sine Dominico non possumus: con queste parole i martiri di Abitene (attuale Turchia) risposero all’autorità pubblica nel 304 d. C., che vietava, pena la morte, il loro radunarsi per celebrare l’eucarestia nel giorno di domenica. La Parola di Dio di questo tempo pasquale ci fa ascoltare i testi della Risurrezione nella ricchezza delle versione dei quattro evangelisti, e la nascita della prima comunità cristiana attraverso la prima lettura, tratta dal libro degli Atti degli apostoli.

L'incontro con Gesù, dopo Emmaus

Il Vangelo di questa domenica, nella versione liturgica, è introdotto dal racconto dei due discepoli, di ritorno da Emmaus (Lc 24,35), ai loro compagni rinchiusi nel Cenacolo. L’evangelista Luca nei versetti precedenti ci aveva narrato l’esperienza di questi due discepoli. Essi si allontanano da Gerusalemme lo stesso giorno di Pasqua, delusi dalla morte di Gesù, ma in casa lo riconoscono nello spezzare il pane, dopo che gli si era fatto accanto durante il viaggio (Lc 24,11-34).

Incontro personale, non privato

L’incontro personale con Gesù non è un fatto privato, è occasione di gioia da comunicare: “Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro” (Lc 24, 33). L’incontro dei due viandanti con gli altri riuniti nel Cenacolo è uno scambio di conferme sulla risurrezione, sublimata dalla presenza del Risorto: “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: Pace a voi” (v. 36). Le apparizioni del Risorto sembrano seguire una struttura narrativa costante: l’incredulità degli apostoli, la paura che li rinchiude nel Cenacolo, l’irruzione della presenza di Gesù, la sua riconoscibilità a partire dai segni della passione, la sua corporeità certificata dal mangiare il pasto con i presenti.

Gesù indica come “capire”

L’incontro del Risorto con i suoi è anche l’indicazione di un metodo: “Aprì loro la mente per comprendere le scritture” (v. 45). Gesù indica una chiave di lettura interpretativa della storia della salvezza: “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (v. 44). I l tesoro della salvezza, da annunciare a partire dal mistero pasquale, è arricchito da tutta la storia della rivelazione: Dio sceglie Israele, suo popolo, perché il più piccolo tra tutti i popoli (Dt 7,7-8). Una scelta d’amore confermata e sigillata dal sangue del Figlio suo Gesù Cristo: supremo atto d’amore, unico ed eterno sacrificio gradito a Dio.

Sotto la guida dello Spirito

Sarà questo l’annuncio di Pietro e della prima comunità cristiana, narrata dal libro degli Atti degli apostoli. Dopo l’ascensione al cielo di Gesù e l’irruzione dello Spirito santo nel Cenacolo, gli apostoli troveranno il coraggio per gridare le parole di salvezza del mistero pasquale. La comunità, la Chiesa, sarà la presenza del Risorto nel mondo. Pietro, nei suoi discorsi al popolo d’Israele a Gerusalemme, seguirà proprio lo schema indicato da Gesù. A partire dal racconto degli antichi padri: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, nella narrazione Pietro giunge a Gesù, figlio di questo popolo, discendente di Davide, ma anche Figlio unigenito del Padre (At 3,13). Nel suo discorso, Pietro non tralascerà il dramma della morte di Gesù e la responsabilità del rinnegamento e tradimento di quanto era preannunciato nelle Scritture. Accuserà i capi del popolo di aver rinnegato e ucciso “il Santo” e “il Giusto”, di aver ucciso l’autore della vita (v. 14-15). Il libro degli Atti più volte tornerà su questo schema (vedi 2,22-23.29-30.36; 3,13-17.18; 4,10).

“Dio lo ha risuscitato!”

Nella trattazione dei temi dell’annuncio, oltre alla memoria dell’accusa rivolta agli ascoltatori, c’è una costante che segna sempre un punto di svolta nel racconto, una congiunzione oppositiva: “Ma Dio lo ha risuscitato”. Questa opposizione di Dio all’azione dell’uomo non ha però come conseguenza la punizione, bensì l’appello alla conversione: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (At 3,19). C’è sempre nella nostra vita il “ma” di Dio: è la nostra speranza da cui ripartire.]]>

La Pasqua è il centro dell’anno liturgico intorno alla quale ruota, come polo di attrazione, tutta celebrazione dei misteri della fede. La Pasqua è il cuore della vita di fede di ogni credente. Senza la Pasqua non possiamo vivere, anzi, dalla Pasqua impariamo a vivere, superando i nostri “venerdì di passione”, perché in essi scorgiamo una luce che rischiara la notte, preludio alla mattina di Pasqua.

Una Pasqua di 50 giorni

Per questo la liturgia ci fa celebrare la Pasqua per otto giorni; per questo l’anno liturgico ha un tempo pasquale della durata di cinquanta giorni; per questo noi ogni settimana celebriamo la Pasqua: senza la domenica, giorno del Signore, non possiamo vivere. Sine Dominico non possumus: con queste parole i martiri di Abitene (attuale Turchia) risposero all’autorità pubblica nel 304 d. C., che vietava, pena la morte, il loro radunarsi per celebrare l’eucarestia nel giorno di domenica. La Parola di Dio di questo tempo pasquale ci fa ascoltare i testi della Risurrezione nella ricchezza delle versione dei quattro evangelisti, e la nascita della prima comunità cristiana attraverso la prima lettura, tratta dal libro degli Atti degli apostoli.

L'incontro con Gesù, dopo Emmaus

Il Vangelo di questa domenica, nella versione liturgica, è introdotto dal racconto dei due discepoli, di ritorno da Emmaus (Lc 24,35), ai loro compagni rinchiusi nel Cenacolo. L’evangelista Luca nei versetti precedenti ci aveva narrato l’esperienza di questi due discepoli. Essi si allontanano da Gerusalemme lo stesso giorno di Pasqua, delusi dalla morte di Gesù, ma in casa lo riconoscono nello spezzare il pane, dopo che gli si era fatto accanto durante il viaggio (Lc 24,11-34).

Incontro personale, non privato

L’incontro personale con Gesù non è un fatto privato, è occasione di gioia da comunicare: “Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro” (Lc 24, 33). L’incontro dei due viandanti con gli altri riuniti nel Cenacolo è uno scambio di conferme sulla risurrezione, sublimata dalla presenza del Risorto: “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: Pace a voi” (v. 36). Le apparizioni del Risorto sembrano seguire una struttura narrativa costante: l’incredulità degli apostoli, la paura che li rinchiude nel Cenacolo, l’irruzione della presenza di Gesù, la sua riconoscibilità a partire dai segni della passione, la sua corporeità certificata dal mangiare il pasto con i presenti.

Gesù indica come “capire”

L’incontro del Risorto con i suoi è anche l’indicazione di un metodo: “Aprì loro la mente per comprendere le scritture” (v. 45). Gesù indica una chiave di lettura interpretativa della storia della salvezza: “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (v. 44). I l tesoro della salvezza, da annunciare a partire dal mistero pasquale, è arricchito da tutta la storia della rivelazione: Dio sceglie Israele, suo popolo, perché il più piccolo tra tutti i popoli (Dt 7,7-8). Una scelta d’amore confermata e sigillata dal sangue del Figlio suo Gesù Cristo: supremo atto d’amore, unico ed eterno sacrificio gradito a Dio.

Sotto la guida dello Spirito

Sarà questo l’annuncio di Pietro e della prima comunità cristiana, narrata dal libro degli Atti degli apostoli. Dopo l’ascensione al cielo di Gesù e l’irruzione dello Spirito santo nel Cenacolo, gli apostoli troveranno il coraggio per gridare le parole di salvezza del mistero pasquale. La comunità, la Chiesa, sarà la presenza del Risorto nel mondo. Pietro, nei suoi discorsi al popolo d’Israele a Gerusalemme, seguirà proprio lo schema indicato da Gesù. A partire dal racconto degli antichi padri: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, nella narrazione Pietro giunge a Gesù, figlio di questo popolo, discendente di Davide, ma anche Figlio unigenito del Padre (At 3,13). Nel suo discorso, Pietro non tralascerà il dramma della morte di Gesù e la responsabilità del rinnegamento e tradimento di quanto era preannunciato nelle Scritture. Accuserà i capi del popolo di aver rinnegato e ucciso “il Santo” e “il Giusto”, di aver ucciso l’autore della vita (v. 14-15). Il libro degli Atti più volte tornerà su questo schema (vedi 2,22-23.29-30.36; 3,13-17.18; 4,10).

“Dio lo ha risuscitato!”

Nella trattazione dei temi dell’annuncio, oltre alla memoria dell’accusa rivolta agli ascoltatori, c’è una costante che segna sempre un punto di svolta nel racconto, una congiunzione oppositiva: “Ma Dio lo ha risuscitato”. Questa opposizione di Dio all’azione dell’uomo non ha però come conseguenza la punizione, bensì l’appello alla conversione: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (At 3,19). C’è sempre nella nostra vita il “ma” di Dio: è la nostra speranza da cui ripartire.]]>
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Gesù è risorto! E anche noi possiamo vederlo https://www.lavoce.it/gesu-e-risorto-e-anche-noi-possiamo-vederlo/ Wed, 31 Mar 2021 15:05:23 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59971

“Luce da Luce, Dio vero da Dio vero” è la professione di fede che rinnoviamo ogni domenica e che risplende nella notte di Pasqua, nella ricchezza della Lituriga e della Parola che la Chiesa ci propone. È la luce che splende nelle tenebre, è la luce che ha sconfitto le tenebre (Gv 1,5). Le tenebre hanno tentato di avvolgere e di “inghiottire” la luce, così come un “buco nero” che inghiotte ogni cosa. Il buio, le tenebre, la morte hanno tentato di porre un limite alla Luce e alla Vita, dentro il freddo sepolcro di pietra. Ma il “macigno” della morte è stato ribaltato via dalla Luce, che ha ridato vita a un corpo. Il corpo di Gesù, segnato dal dolore e dalla sofferenza della croce, ricomposto dalla tenerezza di una madre e da alcune donne, ha ritrovato nel sepolcro un nuovo grembo da cui “ri-generare vita”.

Nella luce della Pasqua

Proprio perché “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre” è egli stesso, Gesù, l’autore della vita. Quella luce divina, come rugiada, penetra nelle fenditure della pietra del sepolcro e illumina ciò che la morte avrebbe voluto spegnere. Quella piccola luce è capace di sconfiggere l’abisso di oscurità della morte e la sua luce fa esplodere la vita. Per questo, la mattina di Pasqua, la pietra che aveva tentato di sigillare la vita nelle tenebre è stata rotolata via (Mc 16,3-4). E così da quel sepolcro, sigillato da una pietra, nel silenzio della notte, la vita rinnovata dalla croce muove i suoi primi passi.

La morte è stata vinta

La Parola germina dal silenzio, l’alba di un nuovo giorno annuncia che la morte non ha più l’ultima parola. Possiamo gridare con san Paolo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria!”. Possiamo “sbeffeggiare” il nemico sconfitto: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,54-55). Ma la liturgia ci ricorda che è stata una vera battaglia: “Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello. / Il Signore della vita era morto; / ma ora, vivo, trionfa”.

Il “canto” della Sequenza pasquale

La Sequenza che ascolteremo prima dell’Alleluia nella domenica di Pasqua canta questa vittoria innalzando un inno di lode “all’Agnello che ha redento il suo gregge. / L’innocente ha riconciliato / noi peccatori con il Padre”. Con questa forma poetica il testo canta al Signore risorto, definendolo “la vittima pasquale”. La seconda parte esprime il desiderio di ogni credente di conoscere dai testimoni della mattina di Pasqua cosa è successo, cosa hanno visto in quell’alba di futuro: “Raccontaci, Maria, / cosa hai visto sulla via?”. La descrizione della tomba vuota, anziché desolazione, accende la speranza. La vista del sudario e delle bende, poste in modo ordinato, composte, come descrive l’evangelista Giovanni (Gv 20,5-7), rende la scena non un luogo di morte, ma un giaciglio su cui un corpo si è addormentato, riprendendo poi il suo cammino. Le stesse parole della Sequenza confermano questa interpretazione. Maria infatti racconta che gli angeli, in qualità di testimoni, rimandano i discepoli a un altro luogo, l’incontro con il Cristo risorto, con il Vivente: “Cristo, mia speranza, vi precede in Galilea”.

Gesù è risorto!

Il testo riprende questa indicazione dal Vangelo di Marco proclamato nella notte di Pasqua. Gli angeli annunciano alle donne, giunte al sepolcro “di buon mattino” (Mc 16,1-2), che “Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto, non è qui” (v. 6). L’angelo dice alle donne - e a tutti noi - che il Risorto ci attende in Galilea, lui è già lì. Aveva già dato questo appuntamento ai suoi, quando nell’Orto degli ulivi annunciava la tragedia imminente del suo arresto e della sua morte. Quest’annuncio di Pasqua riguarda soprattutto noi. Noi che non abbiamo visto i lini e le bende, come Pietro e Giovanni, che non abbiamo visto la tomba vuota, che non abbiamo ascoltato le donne di ritorno dal sepolcro, ma possiamo ugualmente vedere e toccare il Risorto: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16,7). Anche per noi c’è una “Galilea delle genti” che ci attende, là vedremo il Risorto.

E anche noi possiamo vederlo

La Galilea non è solo un luogo geografico, non è solo una provincia della Palestina, ma si identifica con la quotidianità della vita. Là dove a ogni credente è chiesto di annunciare la bellezza del Vangelo con la testimonianza della vita. Facendo questo, vedremo le meraviglie che già il Risorto ha compiuto; infatti Lui sempre ci precede e ci attende. Là dove ogni credente porta la sua testimonianza, la Chiesa mostra il suo volto più bello e allarga i confini della sua presenza. È il volto della Chiesa del Concilio, è la Chiesa della Evangelii gaudium, che non si preoccupa di difendere le sue posizioni, ma cammina accanto all’umanità con umiltà e stile di servizio.]]>

“Luce da Luce, Dio vero da Dio vero” è la professione di fede che rinnoviamo ogni domenica e che risplende nella notte di Pasqua, nella ricchezza della Lituriga e della Parola che la Chiesa ci propone. È la luce che splende nelle tenebre, è la luce che ha sconfitto le tenebre (Gv 1,5). Le tenebre hanno tentato di avvolgere e di “inghiottire” la luce, così come un “buco nero” che inghiotte ogni cosa. Il buio, le tenebre, la morte hanno tentato di porre un limite alla Luce e alla Vita, dentro il freddo sepolcro di pietra. Ma il “macigno” della morte è stato ribaltato via dalla Luce, che ha ridato vita a un corpo. Il corpo di Gesù, segnato dal dolore e dalla sofferenza della croce, ricomposto dalla tenerezza di una madre e da alcune donne, ha ritrovato nel sepolcro un nuovo grembo da cui “ri-generare vita”.

Nella luce della Pasqua

Proprio perché “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre” è egli stesso, Gesù, l’autore della vita. Quella luce divina, come rugiada, penetra nelle fenditure della pietra del sepolcro e illumina ciò che la morte avrebbe voluto spegnere. Quella piccola luce è capace di sconfiggere l’abisso di oscurità della morte e la sua luce fa esplodere la vita. Per questo, la mattina di Pasqua, la pietra che aveva tentato di sigillare la vita nelle tenebre è stata rotolata via (Mc 16,3-4). E così da quel sepolcro, sigillato da una pietra, nel silenzio della notte, la vita rinnovata dalla croce muove i suoi primi passi.

La morte è stata vinta

La Parola germina dal silenzio, l’alba di un nuovo giorno annuncia che la morte non ha più l’ultima parola. Possiamo gridare con san Paolo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria!”. Possiamo “sbeffeggiare” il nemico sconfitto: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,54-55). Ma la liturgia ci ricorda che è stata una vera battaglia: “Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello. / Il Signore della vita era morto; / ma ora, vivo, trionfa”.

Il “canto” della Sequenza pasquale

La Sequenza che ascolteremo prima dell’Alleluia nella domenica di Pasqua canta questa vittoria innalzando un inno di lode “all’Agnello che ha redento il suo gregge. / L’innocente ha riconciliato / noi peccatori con il Padre”. Con questa forma poetica il testo canta al Signore risorto, definendolo “la vittima pasquale”. La seconda parte esprime il desiderio di ogni credente di conoscere dai testimoni della mattina di Pasqua cosa è successo, cosa hanno visto in quell’alba di futuro: “Raccontaci, Maria, / cosa hai visto sulla via?”. La descrizione della tomba vuota, anziché desolazione, accende la speranza. La vista del sudario e delle bende, poste in modo ordinato, composte, come descrive l’evangelista Giovanni (Gv 20,5-7), rende la scena non un luogo di morte, ma un giaciglio su cui un corpo si è addormentato, riprendendo poi il suo cammino. Le stesse parole della Sequenza confermano questa interpretazione. Maria infatti racconta che gli angeli, in qualità di testimoni, rimandano i discepoli a un altro luogo, l’incontro con il Cristo risorto, con il Vivente: “Cristo, mia speranza, vi precede in Galilea”.

Gesù è risorto!

Il testo riprende questa indicazione dal Vangelo di Marco proclamato nella notte di Pasqua. Gli angeli annunciano alle donne, giunte al sepolcro “di buon mattino” (Mc 16,1-2), che “Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto, non è qui” (v. 6). L’angelo dice alle donne - e a tutti noi - che il Risorto ci attende in Galilea, lui è già lì. Aveva già dato questo appuntamento ai suoi, quando nell’Orto degli ulivi annunciava la tragedia imminente del suo arresto e della sua morte. Quest’annuncio di Pasqua riguarda soprattutto noi. Noi che non abbiamo visto i lini e le bende, come Pietro e Giovanni, che non abbiamo visto la tomba vuota, che non abbiamo ascoltato le donne di ritorno dal sepolcro, ma possiamo ugualmente vedere e toccare il Risorto: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16,7). Anche per noi c’è una “Galilea delle genti” che ci attende, là vedremo il Risorto.

E anche noi possiamo vederlo

La Galilea non è solo un luogo geografico, non è solo una provincia della Palestina, ma si identifica con la quotidianità della vita. Là dove a ogni credente è chiesto di annunciare la bellezza del Vangelo con la testimonianza della vita. Facendo questo, vedremo le meraviglie che già il Risorto ha compiuto; infatti Lui sempre ci precede e ci attende. Là dove ogni credente porta la sua testimonianza, la Chiesa mostra il suo volto più bello e allarga i confini della sua presenza. È il volto della Chiesa del Concilio, è la Chiesa della Evangelii gaudium, che non si preoccupa di difendere le sue posizioni, ma cammina accanto all’umanità con umiltà e stile di servizio.]]>
Seguire, per vedere oltre https://www.lavoce.it/seguire-per-vedere-oltre/ Fri, 19 Mar 2021 14:48:42 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59622 logo reubrica commento al Vangelo

La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.

Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.

Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. - Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).

Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.

Il cammino della croce

Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).

Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.

Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.

Il segreto per non morire

Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).

La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).

La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.

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La croce ci costringe ad alzare lo sguardo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14). È l’inizio del Vangelo di domenica scorsa, e per l’evangelista Giovanni, il “vedere” non è solo l’uso degli occhi, ma un atto di fede, capace di scrutare oltre la fisicità.

Il centurione sotto la croce non vede solo morire un uomo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). I suoi occhi, abituati a vedere sangue e morte, vedono oltre, intravedono l’atto d’amore che non può lasciare tutto come prima.

Con la quinta domenica di Quaresima ci introduciamo nel Mistero pasquale, una sorta di preludio alla domenica di Passione delle palme. A noi è chiesto un passaggio, dal vedere al seguire: “Se uno mi vuol servire, mi segua” (Gv 12,26). In questo passaggio, Gesù indica la meta di ogni discepolo che riconosce in lui il Maestro. Il percorso di Gesù verso Gerusalemme, in questa domenica, sembra essere la risposta più precisa alla richiesta dei primi discepoli chiamati da Gesù: “Maestro, dove dimori? -Rispose Gesù: Venite e vedrete. - Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,38-39).

Quel giorno e quell’ora rimasero impressi nei discepoli: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39), ricorda l’evangelista Giovanni. Ma la dimora di quel giorno era provvisoria, stabile invece era la relazione che indicava la vera dimora: non un luogo geografico, un paese, una città, ma una persona, Gesù Cristo.

Il cammino della croce

Il cammino dietro Gesù sembra portare alla croce, innalzata sul Golgota, ma è veramente quella la meta del discepolo? I fatti narrati dal Vangelo ci dicono che anch’essa ha una “collocazione provvisoria”. Il “venite e vedrete” di Gesù non ha per meta il Golgota, ma la vera dimora descritta nel libro dell’ Apocalisse : “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” ( Ap 21,2-3 nella versione Cei 1974).

Ma tutto ciò si comprende passando dal vedere sul Golgota oltre il sangue e la morte, al vedere oltre la tomba vuota della Risurrezione. La formula dell’alleanza espressa nel libro dell’ Apocalisse era già adombrata dai profeti nell’antica alleanza, che attendeva il suggello del sangue del Figlio di Dio.

Il profeta Geremia nella prima lettura vede oltre il suo tempo: “Dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). Un’appartenenza reciproca, che prospetta un legame indissolubile, a immagine di una vera sponsalità: Dio è lo sposo, il suo popolo è la sposa. “Dopo quei giorni” in cui Geremia intravede il realizzarsi della nuova alleanza, l’ora di Gesù indica il tempo compiuto delle profezie: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Gesù spiega questa affermazione con l’immagine del chicco di grano, che caduto in terra porta frutto solo se muore. Il trattenere la sua identità di seme blocca il ciclo del vita: solo se muore a se stesso serve alla vita, alla sua e a quella che deve venire.

Il segreto per non morire

Il confine tra la morte e la vita è labile. Il Vangelo sembra consegnarci il segreto per non morire: morire a noi stessi. Gesù stesso sembra interrogarsi di fronte al “piano inclinato” prospettatogli dalla malvagità umana: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?” (Gv 12,27). L’interrogativo si trasforma in un grido nell’Orto degli ulivi, prima del suo arresto: “ Abbà ! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

Un atteggiamento, quello di Gesù, che l’autore della Lettera agli Ebrei descrive nella seconda lettura di questa domenica. Il Padre salva il Figlio che si abbandona totalmente a lui: “Per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (Eb 5,7). Le grida, le preghiere, le lacrime, frutto della paura della morte che avvolge anche Gesù, vengono esaudite per questo abbandono alla volontà del Padre, che vuole il trionfo visibile dell’amore: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (v. 8).

La sua obbedienza è causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (v. 9). Ogni nostro abbandono alla volontà del Padre è una continua lotta contro il nostro egoismo. In questo senso, l’obbedienza corrisponde al trionfo di quella legge di bene inscritta ormai nel nostro cuore, come ci ricordava il profeta Geremia (Ger 31,33).

La scelta non è più tra bene e male, ma tra disconoscere il bene che è in noi, e riconoscerlo come regola d’amore, già operante in noi, per la nostra vita.

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