APPROFONDIMENTI Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/category/opinioni/approfondimenti/ Settimanale di informazione regionale Fri, 01 Dec 2023 19:52:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://www.lavoce.it/wp-content/uploads/2018/07/cropped-Ultima-FormellaxSito-32x32.jpg APPROFONDIMENTI Archivi - LaVoce https://www.lavoce.it/category/opinioni/approfondimenti/ 32 32 Maria Maddalena, l’apostola degli apostoli https://www.lavoce.it/maria-maddalena-magdala-apostola-degli-apostoli-chiesa-donna/ https://www.lavoce.it/maria-maddalena-magdala-apostola-degli-apostoli-chiesa-donna/#respond Fri, 01 Dec 2023 18:50:45 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57088

Maria Maddalena, personaggio del Vangelo che la tradizione ha spesso confuso. Simbolo collettivo del ruolo da protagonista della donna nel cristianesimo a prima creatura che Gesù appena risorto ha voluto incontrare è stata Maria di Magdala, a cui ha affidato il compito del “primissimo annuncio” cioè di rendere edotti dell’Evento gli altri discepoli. Tale “annuncio” - ha ricordato Papa Francesco - si colloca “tra la gioia della resurrezione di Gesù e la nostalgia del sepolcro vuoto”. Se si rimane fissi a guardare il sepolcro, senza capire la Parola di resurrezione, prevale l’opzione finale “per il dio denaro”. Il riferimento è ai sommi sacerdoti che pagarono le guardie perché testimoniassero il falso e dicessero: Gesù non è risorto, i suoi discepoli hanno trafugato il corpo per farlo credere risuscitato. Maria di Magdala, fedele seguace di Gesù, fu la prima a “predicare l’Annuncio” del Figlio di Dio crocifisso e risorto. Per questo Papa Francesco (con decreto 3 giugno 2016 della Congregazione per il culto divino) ha reso più solenne la  memoria di questa donna elevandola allo stesso grado delle feste che celebrano gli apostoli. Tale istituzione non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe nella mentalità delle “quote rosa”. Il significato è ben altro: non a caso Tommaso d’Aquino la definì “apostola degli apostoli”. Nel Prefazio è ora scritto de apostolorum apostola. Lei, la prima “mandata da” (questo significa “apo-stolo”): mandata dal Risorto a “istruire” gli Undici.

La Maddalena

Nei Vangeli si legge che Maria era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade. Sotto lo stesso nome di Maria Maddalena, forse per la necessità di armonizzare racconti simili, sono state unificate donne diverse: la Maddalena, liberata dai sette demoni, interpretati come segno di vita dissoluta (Mc 16,9; Lc 8,2); l’anonima prostituta che bagna di lacrime i piedi di Gesù cospargendoli di profumo (Lc 7,36-50); Maria di Betania, descritta come colei che unge i piedi del Nazareno con costosa essenza di nardo asciugandoli con i suoi capelli (Gv 12,1-8); l’anonima donna che, nella casa di Simone il lebbroso, versa sul capo di Gesù “un profumo molto prezioso”. Un lungo processo di alterazione e di ridimensionamento ci consegna una figura di peccatrice e di pentita, nella quale si fondono bellezza sensuale e mortificazione del corpo. Necessita rimuovere tabù, equivoci e manipolazioni, ribadendo con coraggio i ruoli avuti dalle donne fin dalle origini nel cuore del cristianesimo. Il “caso Maria Maddalena” va quindi inserito nella più ampia analisi della presenza delle donne nella Storia in vista di una ricostruzione di modelli relazionali più consoni a una Chiesa inclusiva, che sia in accordo con la dottrina egualitaria che Gesù ha messo in atto nei confronti delle donne.

La Chiesa è femminile

Per questo occorrerebbe ripensare i tradizionali modelli ecclesiologici secondo il principio di corresponsabilità battesimale e apostolica. Mettere al centro il messaggio evangelico e l’affermazione di un discepolato di eguali. Ciò, per Bergoglio, è invitare la Chiesa a parlare su se stessa; il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine Maria quella che aiuta la Chiesa a crescere! La Madonna è più importante degli apostoli! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre. Idee che ha ribadito giovedì 30 novembre incontrando i membri della Commissione teologica internazionale: “La Chiesa è donna. E se noi non sappiamo capire cos’è una donna, cos’è la teologia di una donna, mai capiremo cos’è la Chiesa. Uno dei grandi peccati che abbiamo avuto è ‘maschilizzare’ la Chiesa”. In conclusione, “l’Annuncio delegato da Gesù risorto alla Maddalena” investe la stessa identità del cristianesimo, perché pone domande cruciali sul ruolo delle donne nella Chiesa, sul monopolio maschile del patrimonio teologico-dottrinale e sugli apparati istituzionali che hanno contribuito storicamente all’emarginazione femminile. Pier Luigi Galassi]]>

Maria Maddalena, personaggio del Vangelo che la tradizione ha spesso confuso. Simbolo collettivo del ruolo da protagonista della donna nel cristianesimo a prima creatura che Gesù appena risorto ha voluto incontrare è stata Maria di Magdala, a cui ha affidato il compito del “primissimo annuncio” cioè di rendere edotti dell’Evento gli altri discepoli. Tale “annuncio” - ha ricordato Papa Francesco - si colloca “tra la gioia della resurrezione di Gesù e la nostalgia del sepolcro vuoto”. Se si rimane fissi a guardare il sepolcro, senza capire la Parola di resurrezione, prevale l’opzione finale “per il dio denaro”. Il riferimento è ai sommi sacerdoti che pagarono le guardie perché testimoniassero il falso e dicessero: Gesù non è risorto, i suoi discepoli hanno trafugato il corpo per farlo credere risuscitato. Maria di Magdala, fedele seguace di Gesù, fu la prima a “predicare l’Annuncio” del Figlio di Dio crocifisso e risorto. Per questo Papa Francesco (con decreto 3 giugno 2016 della Congregazione per il culto divino) ha reso più solenne la  memoria di questa donna elevandola allo stesso grado delle feste che celebrano gli apostoli. Tale istituzione non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe nella mentalità delle “quote rosa”. Il significato è ben altro: non a caso Tommaso d’Aquino la definì “apostola degli apostoli”. Nel Prefazio è ora scritto de apostolorum apostola. Lei, la prima “mandata da” (questo significa “apo-stolo”): mandata dal Risorto a “istruire” gli Undici.

La Maddalena

Nei Vangeli si legge che Maria era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade. Sotto lo stesso nome di Maria Maddalena, forse per la necessità di armonizzare racconti simili, sono state unificate donne diverse: la Maddalena, liberata dai sette demoni, interpretati come segno di vita dissoluta (Mc 16,9; Lc 8,2); l’anonima prostituta che bagna di lacrime i piedi di Gesù cospargendoli di profumo (Lc 7,36-50); Maria di Betania, descritta come colei che unge i piedi del Nazareno con costosa essenza di nardo asciugandoli con i suoi capelli (Gv 12,1-8); l’anonima donna che, nella casa di Simone il lebbroso, versa sul capo di Gesù “un profumo molto prezioso”. Un lungo processo di alterazione e di ridimensionamento ci consegna una figura di peccatrice e di pentita, nella quale si fondono bellezza sensuale e mortificazione del corpo. Necessita rimuovere tabù, equivoci e manipolazioni, ribadendo con coraggio i ruoli avuti dalle donne fin dalle origini nel cuore del cristianesimo. Il “caso Maria Maddalena” va quindi inserito nella più ampia analisi della presenza delle donne nella Storia in vista di una ricostruzione di modelli relazionali più consoni a una Chiesa inclusiva, che sia in accordo con la dottrina egualitaria che Gesù ha messo in atto nei confronti delle donne.

La Chiesa è femminile

Per questo occorrerebbe ripensare i tradizionali modelli ecclesiologici secondo il principio di corresponsabilità battesimale e apostolica. Mettere al centro il messaggio evangelico e l’affermazione di un discepolato di eguali. Ciò, per Bergoglio, è invitare la Chiesa a parlare su se stessa; il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine Maria quella che aiuta la Chiesa a crescere! La Madonna è più importante degli apostoli! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre. Idee che ha ribadito giovedì 30 novembre incontrando i membri della Commissione teologica internazionale: “La Chiesa è donna. E se noi non sappiamo capire cos’è una donna, cos’è la teologia di una donna, mai capiremo cos’è la Chiesa. Uno dei grandi peccati che abbiamo avuto è ‘maschilizzare’ la Chiesa”. In conclusione, “l’Annuncio delegato da Gesù risorto alla Maddalena” investe la stessa identità del cristianesimo, perché pone domande cruciali sul ruolo delle donne nella Chiesa, sul monopolio maschile del patrimonio teologico-dottrinale e sugli apparati istituzionali che hanno contribuito storicamente all’emarginazione femminile. Pier Luigi Galassi]]>
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Editoria, colpo di mano sul Fondo per il pluralismo https://www.lavoce.it/editoria-colpo-di-mano-sul-fondo-per-il-pluralismo/ https://www.lavoce.it/editoria-colpo-di-mano-sul-fondo-per-il-pluralismo/#respond Fri, 10 Nov 2023 17:58:52 +0000 https://www.lavoce.it/?p=73954 tagli

Il sottosegretario Barachini inonda di soldi i grandi giornali togliendoli ai piccoli editori no profit. E vuole sottrarre i contributi pubblici dalla competenza del Parlamento per affidarli al Governo. Protestano le associazioni di settore: “Intervenga Mattarella”

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Ma cosa sta succedendo nel settore dei contributi pubblici all'editoria? Bella domanda. A cui ben pochi, forse persino al Dipartimento di Palazzo Chigi che si occupa di questo variegato mondo, sanno rispondere. In pochi anni il nostro Paese è passato dal furore paranoico di cancellare ogni tipo di sostegno ai piccoli e medio-grandi giornali no profit (cooperative di giornalisti ed enti morali) al furore opposto di regalare vagonate di soldi pubblici, senza alcun controllo sul loro utilizzo, a quelli che un tempo la politica mainstream chiamava enfaticamente “giornaloni”, ovvero quotidiani e periodici della famiglia Agnelli-Elkann, della Rcs e di Urbano Cairo, della famiglia Caltagirone o di Confindustria, solo per citare qualche nome. Cioè a dire: al blocco di potere economico più potente d'Italia e forse d'Europa.

Insomma, per parafrasare un pamphlet di moda in questi giorni, davvero un mondo all'incontrario.

E, si badi, siamo su una deriva che, nata come emergenza eccezionale in tempi di Covid (tanto che le misure in questione vanno sotto il nome di “Fondo straordinario per l'editoria”), e con i governi di Lega e 5 Stelle, è continuata poi sotto il governo tecnico di Mario Draghi (sostenuto da tutti i partiti ad eccezione di Fratelli d'Italia), e si sta addirittura stabilizzando e aumentando oltre misura per diventare “strutturale” con il Governo di centrodestra di Giorgia Meloni.

I contributi diretti al pluralismo nell'editoria

Per capire di cosa parliamo occorre fare qualche indispensabile premessa. I contributi pubblici all'editoria esistono da decenni e negli anni sono stati regolamentati in maniera sempre più severa e stringente per garantire la massima trasparenza. Si chiamano “contributi diretti” e attingono ad uno speciale “Fondo per il pluralismo”. I destinatari, a parte i giornali per le minoranze linguistiche in Italia o per gli italiani all'estero, sono giornali e siti internet editi da cooperative di giornalisti o enti morali. Si tratta di editori che per legge devono essere “puri” e senza “scopo di lucro”, vale a dire che è vietato occuparsi di altro e dividere eventuali utili di bilancio, e sono soggetti a controlli giustamente molto severi. In stragrande maggioranza sono quotidiani o settimanali locali, periodici di nicchia, settimanali diocesani, ma in qualche caso anche giornali che si rivolgono a minoranze politiche e di pensiero del nostro Paese, come per esempio “Il Manifesto” o “Il Foglio”.

La ragione di questi contributi è semplice: servono a garantire il pluralismo dell'informazione nel nostro Paese, perché senza questi soldi in Italia rimarrebbero in vita solo i giornali dei cinque o sei grandi gruppi editoriali che fanno capo ai principali potentati industriali. E per questo motivo l'Unione europea ha detto che questi soldi non sono configurabili come aiuti di Stato e non sono perciò soggetti ad autorizzazioni e limiti da parte della Commissione europea.

A questo mondo, composto da qualche centinaio di piccoli editori, va ogni anno una cifra complessiva tra gli 80 e i 90 milioni di euro, amministrata dal Dipartimento per l'editoria presso la Presidenza del Consiglio, al cui vertice Giorgia Meloni ha messo il sottosegretario Alberto Barachini, parlamentare di Forza Italia ed ex giornalista di Mediaset. C'è poi un altra voce del Fondo che è diretta alle radio e alle tv ed è gestita dal ministero delle Imprese, ma questo è un discorso a parte, che pure un giorno bisognerà affrontare.

La mannaia di Vito Crimi

Ebbene, nel 2019 l'allora sottosegretario Vito Crimi decise che bisognava togliere l'ossigeno al pluralismo dell'informazione e con un comma della Finanziaria di quell'anno, il numero 810, stabilì che i contributi sarebbero stati azzerati entro quattro anni. Tutti i sottosegretari all'Editoria che si sono succeduti da allora in poi hanno riconosciuto che quella norma è una porcheria e va cancellata. Peccato, però, che non abbiano mai trovato il tempo per farlo. Ne hanno invece rinviato l'attuazione di anno in anno, in maniera che ogni anno questi giornali no profit non sanno se l'anno prossimo dovranno chiudere o potranno rimanere in vita, e dipendono mani e piedi dall'umore del Governo di turno. L'ultimo rinvio posticipa la mannaia di Vito Crimi al 2025.

Poi, però, nel mondo sono successe tante cose. È arrivato il Covid, è scoppiata la guerra in Ucraina, ci sono state la crisi del gas e quella delle materie prime, infine la bolla dell'inflazione, ora il Medio Oriente in fiamme: manca solo l'invasione delle cavallette, ma è probabilmente soltanto questione di tempo. Gli editori (tutti, non solo alcuni), che già erano con l'acqua alla gola per la rivoluzione digitale e dei social media, e la conseguente irreversibile crisi della carta stampata e delle edicole, si sono trovati sull'orlo del baratro.

Poi arrivarono i contributi a pioggia

E a questo punto il Parlamento italiano, meritoriamente, ha deciso che bisognava salvarli, perché senza l'informazione in un Paese non c'è vera democrazia. Ha creato così il “Fondo straordinario per l'editoria”. Si chiama straordinario perché doveva servire a combattere la crisi contingente. Questo sì è un aiuto di Stato, e in quanto tale ha dovuto avere il via libera dell'Unione europea. Nel fondo sono stati messi 90 milioni di euro per il 2021 e ben 140 milioni di euro per il 2022. Servono a finanziare, sotto forma di credito di imposta, gli editori di giornali rimborsando loro ben il 30% dei costi sostenuti per la carta e per la distribuzione, e qualcosa in meno per le spese in innovazione digitale.

Ma attenzione: questi soldi non sono per tutti. Vanno solo ai giornali che non godono, perché non ne hanno i requisiti, dei contributi diretti del Fondo per il pluralismo. Vale a dire che tutti i piccoli editori no profit, che sono la spina dorsale dell'informazione locale in Italia e del pluralismo, sono stati esclusi da questi aiuti. Come se per loro non ci fosse stata nessuna emergenza Covid, nessuna emergenza guerra, nessuna crisi del gas e delle materie prime. Come se loro vivessero in un mondo a parte, un mondo all'incontrario appunto. Questi editori hanno dovuto fronteggiare le batoste della crisi con i soldi che già avevano prima, e con i quali già prima, a stento e con grandi sacrifici, riuscivano a mantenersi in vita.

Ma i piccoli editori sono esclusi dagli aiuti

Il sottosegretario Barachini ha proclamato pubblicamente che il Fondo straordinario sarà prorogato anche negli anni successivi e dotato persino di maggiori risorse, con il plauso esultante dei “giornaloni”. E sarà prorogato anche il sistema con cui questo Fondo straordinario viene distribuito ai grandi giornali: cioè non con criteri certi e prefissati dal Parlamento, ma con provvedimenti spot decisi di volta in volta dal Governo, a propria discrezione.

L'esempio più eclatante è di poche settimane fa.

Si è detto che dal credito di imposta per i costi della carta e della distribuzione sono stati esclusi i giornali no profit che già incassano il contributo diretto per l'editoria. Ma il Fondo straordinario prevedeva anche altri aiuti: uno in particolare era un contributo premiale di 5 centesimi a copia cartacea venduta. Misura che è stata aumentata per il 2022 a 10 centesimi a copia. Il decreto di attuazione nulla diceva di eventuali divieti per categorie di editori, e nel silenzio della norma si riteneva che questo premio valesse anche per i giornali no profit. Ma il fondo straordinario non è illimitato: ha un plafond oltre il quale non si può andare, e se gli aventi diritto superano questo tetto, i contributi vengono distribuiti in maniera proporzionale. C'era insomma il rischio che i grandi giornali, che di copie ne vendono decine di milioni l'anno, dovessero dividere la torta con i piccoli giornali locali. Non sia mai detto. È quindi intervenuto il sottosegretario Barachini, sempre solerte quando si tratta degli interessi dei grandi editori, “desaparecido” invece su temi che riguardano interessi più generali, novello Robin Hood all'incontrario che prende ai poveri per dare ai ricchi (e del resto che mondo all'incontrario sarebbe, sennò?). E con un nuovo Dpcm, a fine estate, ecco che spunta la norma “ammazza-poveri”: dai 10 cent a copia vengono esclusi gli editori no profit.

Il risultato finale di questa storia qual è? Che oggi i giornali no profit godono ogni anno dei soli contributi diretti del Fondo per il pluralismo, per complessivi 80-90 milioni di euro, esattamente come ce li avevano nel 2018 o nel 2019, prima che il mondo e l'economia andassero a rotoli. E questo Fondo oggi è persino a rischio, minacciato dalla diminuzione del canone Rai, che lo finanzia in parte, e dalla conseguente alzata di scudi dei vertici della tv di Stato che chiedono di lasciare questi soldi nelle loro casse.

Invece tutti gli altri giornali, quelli editi da società per azioni e dalle grandi famiglie imprenditoriali del Paese, si spartiscono la bellezza di 140 milioni, senza alcun controllo sull'uso che ne faranno e senza alcun divieto di portarseli a casa sotto forma di utili di bilancio e conseguenti dividendi. Soldi che l'anno prossimo saranno anche di più. Senza calcolare poi gli altri aiuti per i prepensionamenti e gli ammortizzatori sociali che i grandi editori attingono dal Fondo per il pluralismo.

Si dirà: e vabbè, anche i grandi editori subiscono gli effetti della crisi economica e hanno bisogno del sostegno pubblico per sopravvivere. Vero. Giusto. Ma perché soltanto loro, e non anche i piccoli editori no profit (cooperative ed enti morali)? Mistero.

Il regalino del Governo salva “Fatto Quotidiano” e “Sole 24 Ore”

E poi, va bene aiutare tutta la filiera dell'editoria, ma almeno che lo riconoscessero. E invece no. Le norme prevedono che i beneficiari dei contributi diretti scrivano ogni santo giorno sul proprio giornale e sul proprio sito internet quanti soldi ricevono dallo Stato. È la trasparenza, bellezza, e va bene così.

Gli editori che incassano milioni dal Fondo straordinario, invece, possono tacerlo al pubblico e scriverlo solo nelle pieghe dei propri bilanci.

O addirittura negarlo, come “Il Fatto Quotidiano”, che in prima pagina, sotto la testata, ogni giorno reca l'orgogliosa quanto menzognera dicitura: “Non riceve alcun finanziamento pubblico”. Falso. Nel 2020 la “Seif”, “Società Editoriale Il Fatto”, ha incassato dallo Stato contributi pubblici a fondo perduto per complessivi 196mila euro, di cui 124mila per i costi della carta. E l'anno successivo, udite udite, ha portato a casa un regalino dello Stato pari a 370mila euro, questa volta come contributo per i costi della distribuzione. In due anni fanno la bellezza di 566mila euro regalati dallo Stato.

Tutto lecito, per carità, ma a maggior ragione: perché negarlo? Eppure i bravissimi colleghi del “Fatto Quotidiano” sanno meglio di altri che la fiducia del lettore è il pilastro di un giornale. E se scrivi una falsità in prima pagina, proprio sotto il marchio di fabbrica, come può il lettore fidarsi di quello che scrivi nelle pagine successive?

Si dirà: sono spiccioli se paragonati al fatturato di un giornale importante e di successo come il Fatto Quotidiano. Mica tanto. Prendiamo per esempio il 2021. La “Seif” ha chiuso il suo bilancio con un utile di 169mila euro. Senza i 370mila regalati dallo Stato avrebbe chiuso il bilancio in rosso, con quel che ne consegue.

Ma il “Fatto” non è mica l'unica società per azioni il cui bilancio è stato salvato dal Fondo straordinario per l'editoria.

Prendiamo per esempio il prestigioso quotidiano economico “Sole 24 Ore”. La società editrice “Gruppo 24 Ore” ha festeggiato nel 2022 il primo bilancio in utile dopo 14 anni di fila di perdite. Si pensi che soltanto l'anno precedente, il 2021, aveva chiuso il bilancio con un rosso di 21 milioni di euro. Nel 2022, invece, finalmente la tendenza si inverte e il bilancio chiude con un risicato ma provvidenziale utile di mezzo milione di euro. Commenti entusiasti (“il merito è della digitalizzazione”, scrivono) e un balzo delle azioni in Borsa, dove il valore fa segnare di colpo un +13%.

Però, se spulciamo gli elenchi della Presidenza del Consiglio, si scopre che il merito di tutto questo successo e dei conseguenti risultati di Borsa è in parte anche dovuto ai soldi dei cittadini italiani.

Sì, perché il “Gruppo 24 Ore” nel 2020 ha incassato 375mila euro a fondo perduto per i costi della carta. Nel 2021 il contributo pubblico balza a 2 milioni e 400 mila euro (275mila euro per la carta e oltre 2 milioni per i costi di distribuzione), senza i quali, vale la pena notare, il disavanzo di bilancio del 2021 non si sarebbe limitato a 21 milioni ma sarebbe salito ad oltre 23 milioni.

E nell'anno del ritorno agli utili, il 2022? All'editore del “Sole 24 Ore” sono finiti 821mila euro di contributi per la carta (per la distribuzione i rimborsi relativi al 2021 non sono ancora stati allocati dal Governo).

Senza questi soldi, è dato presumere, l'utile di bilancio di 500mila euro non si sarebbe raggiunto ma, al contrario, ci sarebbe stato un disavanzo di oltre 300mila euro. Siamo sicuri che la Borsa avrebbe reagito ugualmente con un balzo del 13% del valore delle azioni della società?

Va bene: chi mai potrebbe non essere felice se i conti delle aziende italiane vanno bene? Si tratta pur sempre di aziende editrici che forniscono un importante contributo all'informazione nel nostro Paese e danno lavoro a tanti giornalisti e poligrafici, oltre a tante persone dell'indotto. Quindi, per carità: benvenuti i contributi pubblici.

Ci si domanda solo perché questo non valga anche per le centinaia di piccoli editori no profit che pure mantengono in vita il pluralismo dell'informazione e, molto spesso, l'informazione locale e di prossimità nei tanti borghi della nostra Italia. A loro, invece, questi soldi sono stati preclusi.

Milioni di euro per Urbano Cairo e la famiglia Agnelli-Elkann

Sarebbe sbagliato pensare, poi, che l'entità dei contributi del Fondo straordinario diretti ai grandi giornali siano nell'ordine di grandezza che abbiamo visto per “Fatto” e “Sole 24 Ore”. Più il giornale è grande, più contributi prende (e altrimenti che “Robin Hood al contrario” sarebbe lo Stato?). Vediamo per esempio i due maggiori quotidiani italiani.

A “Rcs – Corriere della Sera”, controllata da Urbano Cairo tramite la “Cairo Communication” (che a sua volte edita altri periodici e per questi prende altri contributi), il Fondo straordinario per l'editoria ha regalato 2 milioni e mezzo di euro nel 2020 (contributo sulla carta), 9 milioni nel 2021 (1,7 per la carta e 7,3 per la distribuzione) e quasi 5,2 milioni nel 2022 (per la sola carta).

Un totale mostruoso pari a 16 milioni e 700mila euro. E Rcs è un gruppo florido già di suo. Ha chiuso il bilancio 2021 con un utile di 72,4 milioni (ma sarebbero stati 9 di meno senza gli aiuti di Stato) e il bilancio del 2022 con un utile di 50 milioni (di cui 5,2, ovvero più del 10%, grazie al regalino del Governo). Interessante notare che questi utili sono stati ripartiti come dividendi tra gli azionisti, che nel 2022 si sono portati a casa 0,06 euro per ogni azione posseduta.

Altrettanto importanti sono gli aiuti regalati all'altro più grande editore italiano, ovvero il gruppo “Gedi”, proprietario di “Repubblica”, “Stampa” e “Secolo XIX”, oltre che di svariate testate locali e qualche radio.

Il gruppo, suddiviso in varie branche e società, è sotto il totale controllo della Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann (peraltro nemmeno italiana, visto che ha sede in Olanda).

Ebbene, le due principali branche del gruppo “Gedi” (la “Gedi News Network Spa” e la “Gedi Gruppo Editoriale”) hanno attinto dal Fondo straordinario per l'editoria 2 milioni e mezzo di euro nel 2020 (2,3 per la carta e il resto per i servizi digitali), 9,4 milioni nel 2021 (1,8 per la carta e 7,6 per la distribuzione) e 4,5 nel 2022 (solo per la carta).

Totale del regalo alla controllata della holding olandese di casa Agnelli-Elkann: 16,4 milioni di euro.

Anche in questo caso si tratta di cifre che hanno avuto un impatto notevole sui bilanci del gruppo. Si pensi che nel 2021 la “Gedi” ha registrato un rosso di ben 50 milioni, che sarebbe stato più profondo di oltre 9 milioni senza l'aiuto dello Stato, mentre nel 2022 ha finalmente registrato un utile di bilancio, pari a circa 2 milioni di euro, per la prima volta dopo sette anni di disavanzi costanti: un utile che per la “Gedi” è pari a meno della metà di quanto incassato dallo Stato quello stesso anno.

Il che vuol dire che senza il Fondo straordinario per l'editoria il gruppo avrebbe chiuso il bilancio in rosso per l'ottavo anno di fila.

Si dirà che è un bene che i soldi pubblici, cioè di tutti i cittadini, consentano la sopravvivenza di un'azienda, ancor più se si tratta di un'azienda fondamentale per il pluralismo dell'informazione e, quindi, per la democrazia. Come non essere d'accordo?

E però è anche opportuno notare che qui si è ripianato il bilancio di una Spa controllata dalla cassaforte (olandese) della famiglia Agnelli-Elkann, la Exor, la quale avrebbe dovuto coprire il buco della propria controllata presumibilmente, e comunque in larga parte, con i propri soldi, i soldi degli Agnelli-Elkann. Ma non c'è problema, ancora una volta ci ha pensato “mamma Stato”.

Gli esempi potrebbero essere molti altri, ma fermiamoci ad una semplice quanto evidente e choccante constatazione.

La somma dei soldi regalati ai due maggiori editori di quotidiani del Paese, “Rcs-Corriere della Sera” e gruppo “Gedi” (Repubblica-Stampa), in soli tre anni, è stata pari a oltre 33 milioni di euro, di cui oltre 18 milioni solo nel 2021. E non è finita qui, perché altri arriveranno, se stiamo alle promesse del munifico (per alcuni) sottosegretario Barachini.

Se paragonati ai 90 milioni del Fondo per il pluralismo destinati alle centinaia di testate edite da società no profit, i due più grandi editori del Paese, da soli, si sono portati a casa oltre un terzo di tale cifra. E dei 90 milioni del Fondo straordinario stanziati per il 2021, i 18,4 milioni incassati da soli due soggetti, “Rcs” e “Gedi”, rappresentano più del 20% del totale.

Le associazioni di editori no profit in rivolta

Non sorprende, dunque, che i malumori nelle associazioni di categoria che rappresentano le aziende del settore siano tanti, specialmente dopo il discusso Dpcm che a settembre scorso ha scippato agli editori no profit anche i pochi spiccioli (se paragonati alle cifre di cui sopra), dei 10 cent a copia venduta.

Eugenio Fusignani, presidente di “Culturalia”, il settore di Agci che si occupa di editoria, e della confederazione tematica delle tre grandi centrali di cooperative italiane Aci, “Alleanza delle Cooperative Italiane”, la spiega così:

«Le preoccupazioni crescono a causa dell’atteggiamento del Sottosegretario verso l’editoria cooperativa e non profit in Italia. Inizialmente c’erano rassicurazioni sul suo impegno a preservare la libertà e l’autonomia degli editori puri come le cooperative giornalistiche. Tuttavia, negli ultimi mesi, tutte le misure sono state rivolte ad incrementare le risorse destinate ai grandi gruppi editoriali, limitando al massimo, ed addirittura escludendo da diversi tipi di intervento, le cooperative e le imprese non profit».

E c'è un novità degli ultimi giorni, aggiunge Fusignani: «Nella finanziaria il Governo ha presentato una vera e propria riforma dell’editoria che il Parlamento è tenuto praticamente ad approvare senza alcuna discussione di merito. Una riforma che non contiene mai il termine cooperativa giornalistica, impresa senza fine di lucro, una riforma lontana da qualsiasi volontà di preservare l’autonomia dell’informazione dagli interessi dei grandi gruppi economici del Paese. Una riforma pensata per tutelare le imprese di maggiori dimensioni.

Ma la cosa che più ci lascia sconcertati è che la riforma dell’editoria viene completamente delegata al Governo, escludendo il Parlamento da qualsiasi discussione o dibattito su un tema centrale per la democrazia: il pluralismo nell’informazione. La delusione è ancora maggiore vista la sensibilità che questo Governo aveva sempre dimostrato per l’editoria cooperativa, non profit e di prossimità».

«Da un anno si è aperta un'interlocuzione con il nuovo sottosegretario all'Editoria Alberto Barachini ma di risultati concreti ancora non se ne vedono», lamenta delusa anche Giovanna Barni, presidente nazionale di “CulTurMedia”, la sezione di Legacoop specializzata in editoria.

«Colpisce che mentre si erogano risorse sempre più ingenti a favore dei giornali editi da grandi editori e da società quotate in Borsa, che distribuiscono utili agli azionisti e quindi anche parte dei contributi percepiti, si continuano ad attaccare e a penalizzare le cooperative di giornalisti e i giornali non profit. Alla crisi strutturale dei giornali si sono aggiunti, negli ultimi anni, prima la pandemia da Covid, poi la crisi internazionale con la guerra in Ucraina e un aumento più che raddoppiato del costo della carta da giornali.

Ora, se il Governo riconosce che la crisi c'è, questa vale per tutti, specie per l’editoria cooperativa, minacciata da tagli e tentativi di cancellazione. Purtroppo gli interventi a sostegno dell'editoria cooperativa al momento sono fermi al palo e non è ancora stata cancellata la minaccia che prevede la progressiva riduzione dei contributi fino al loro azzeramento.

Non è accettabile che a fronte di una crisi che investe tutto il comparto si discrimini una parte».

Molto amareggiato è anche il commento di Roberto Paolo, presidente della “File” (Federazione Italiana Liberi Editori):

«Il sottosegretario Barachini si è insediato un anno fa. Ci siamo presentati subito, presentammo una piattaforma di proposte sui contributi diretti all'editoria che potesse servire da base di discussione per un confronto. Da un anno aspettiamo di incontrarlo ma non risponde ai nostri solleciti. Sarà troppo impegnato. A fare cosa non è dato sapere, visto che non ha avanzato uno straccio di idea sull'argomento.

Ma è grave che nei giorni scorsi, senza confrontarsi con nessuno degli stakeholder, Barachini abbia proposto un articolo nella legge di bilancio che in sostanza delegifica la disciplina del settore, sottraendo al Parlamento la competenza sulla delicatissima materia del pluralismo e rimandando invece, da qui in poi e per sempre, la regolamentazione dei contributi all'editoria al Governo di turno, che potrà agire con propri regolamenti senza passare per i rappresentanti dei cittadini.

È un colpo di mano ai limiti della legittimità costituzionale, su cui ci auguriamo intervenga per sventarlo il Presidente della Repubblica, da sempre attento custode dei valori del pluralismo e della democrazia».

Protesta anche Chiara Genisio, vicepresidente della “Fisc” (Federazione italiana settimanali cattolici):

«Per rispondere  alla crisi che sta vivendo il comparto, il Governo interviene  giustamente con un Fondo straordinario per sostenere il settore, ma esclude i giornali no profit e le cooperative dei giornalisti che percepiscono il contributo in base alla legge 198 del 2016.  

Una scelta incomprensibile, considerato che il Fondo ordinario serviva proprio per offrire pari opportunità, che ora vengono meno per via dell’aiuto straordinario rivolto ai grandi editori. Nei primi mesi di governo il sottosegretario all’Editoria, Alberto Barachini, aveva offerto grande disponibilità all’ascolto e a sostenere la nostra informazione più “di prossimità”, ma a quelle promesse nei mesi seguenti non sono seguite risposte e nuove proposte.

Confidiamo che questo atteggiamento sia superato e  si apra una stagione di dialogo costruttivo per proseguire a sostenere i nostri giornali che, come ha rimarcato il presidente Mattarella,  hanno anche come ruolo quello di “stimolare nei nostri concittadini la capacità critica degli avvenimenti e il senso di comunità, senza il quale un Paese non è più tale”».

Insomma, la luna di miele dei piccoli editori puri con il Governo Meloni sembra davvero finita.

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Il sottosegretario Barachini inonda di soldi i grandi giornali togliendoli ai piccoli editori no profit. E vuole sottrarre i contributi pubblici dalla competenza del Parlamento per affidarli al Governo. Protestano le associazioni di settore: “Intervenga Mattarella”

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Ma cosa sta succedendo nel settore dei contributi pubblici all'editoria? Bella domanda. A cui ben pochi, forse persino al Dipartimento di Palazzo Chigi che si occupa di questo variegato mondo, sanno rispondere. In pochi anni il nostro Paese è passato dal furore paranoico di cancellare ogni tipo di sostegno ai piccoli e medio-grandi giornali no profit (cooperative di giornalisti ed enti morali) al furore opposto di regalare vagonate di soldi pubblici, senza alcun controllo sul loro utilizzo, a quelli che un tempo la politica mainstream chiamava enfaticamente “giornaloni”, ovvero quotidiani e periodici della famiglia Agnelli-Elkann, della Rcs e di Urbano Cairo, della famiglia Caltagirone o di Confindustria, solo per citare qualche nome. Cioè a dire: al blocco di potere economico più potente d'Italia e forse d'Europa.

Insomma, per parafrasare un pamphlet di moda in questi giorni, davvero un mondo all'incontrario.

E, si badi, siamo su una deriva che, nata come emergenza eccezionale in tempi di Covid (tanto che le misure in questione vanno sotto il nome di “Fondo straordinario per l'editoria”), e con i governi di Lega e 5 Stelle, è continuata poi sotto il governo tecnico di Mario Draghi (sostenuto da tutti i partiti ad eccezione di Fratelli d'Italia), e si sta addirittura stabilizzando e aumentando oltre misura per diventare “strutturale” con il Governo di centrodestra di Giorgia Meloni.

I contributi diretti al pluralismo nell'editoria

Per capire di cosa parliamo occorre fare qualche indispensabile premessa. I contributi pubblici all'editoria esistono da decenni e negli anni sono stati regolamentati in maniera sempre più severa e stringente per garantire la massima trasparenza. Si chiamano “contributi diretti” e attingono ad uno speciale “Fondo per il pluralismo”. I destinatari, a parte i giornali per le minoranze linguistiche in Italia o per gli italiani all'estero, sono giornali e siti internet editi da cooperative di giornalisti o enti morali. Si tratta di editori che per legge devono essere “puri” e senza “scopo di lucro”, vale a dire che è vietato occuparsi di altro e dividere eventuali utili di bilancio, e sono soggetti a controlli giustamente molto severi. In stragrande maggioranza sono quotidiani o settimanali locali, periodici di nicchia, settimanali diocesani, ma in qualche caso anche giornali che si rivolgono a minoranze politiche e di pensiero del nostro Paese, come per esempio “Il Manifesto” o “Il Foglio”.

La ragione di questi contributi è semplice: servono a garantire il pluralismo dell'informazione nel nostro Paese, perché senza questi soldi in Italia rimarrebbero in vita solo i giornali dei cinque o sei grandi gruppi editoriali che fanno capo ai principali potentati industriali. E per questo motivo l'Unione europea ha detto che questi soldi non sono configurabili come aiuti di Stato e non sono perciò soggetti ad autorizzazioni e limiti da parte della Commissione europea.

A questo mondo, composto da qualche centinaio di piccoli editori, va ogni anno una cifra complessiva tra gli 80 e i 90 milioni di euro, amministrata dal Dipartimento per l'editoria presso la Presidenza del Consiglio, al cui vertice Giorgia Meloni ha messo il sottosegretario Alberto Barachini, parlamentare di Forza Italia ed ex giornalista di Mediaset. C'è poi un altra voce del Fondo che è diretta alle radio e alle tv ed è gestita dal ministero delle Imprese, ma questo è un discorso a parte, che pure un giorno bisognerà affrontare.

La mannaia di Vito Crimi

Ebbene, nel 2019 l'allora sottosegretario Vito Crimi decise che bisognava togliere l'ossigeno al pluralismo dell'informazione e con un comma della Finanziaria di quell'anno, il numero 810, stabilì che i contributi sarebbero stati azzerati entro quattro anni. Tutti i sottosegretari all'Editoria che si sono succeduti da allora in poi hanno riconosciuto che quella norma è una porcheria e va cancellata. Peccato, però, che non abbiano mai trovato il tempo per farlo. Ne hanno invece rinviato l'attuazione di anno in anno, in maniera che ogni anno questi giornali no profit non sanno se l'anno prossimo dovranno chiudere o potranno rimanere in vita, e dipendono mani e piedi dall'umore del Governo di turno. L'ultimo rinvio posticipa la mannaia di Vito Crimi al 2025.

Poi, però, nel mondo sono successe tante cose. È arrivato il Covid, è scoppiata la guerra in Ucraina, ci sono state la crisi del gas e quella delle materie prime, infine la bolla dell'inflazione, ora il Medio Oriente in fiamme: manca solo l'invasione delle cavallette, ma è probabilmente soltanto questione di tempo. Gli editori (tutti, non solo alcuni), che già erano con l'acqua alla gola per la rivoluzione digitale e dei social media, e la conseguente irreversibile crisi della carta stampata e delle edicole, si sono trovati sull'orlo del baratro.

Poi arrivarono i contributi a pioggia

E a questo punto il Parlamento italiano, meritoriamente, ha deciso che bisognava salvarli, perché senza l'informazione in un Paese non c'è vera democrazia. Ha creato così il “Fondo straordinario per l'editoria”. Si chiama straordinario perché doveva servire a combattere la crisi contingente. Questo sì è un aiuto di Stato, e in quanto tale ha dovuto avere il via libera dell'Unione europea. Nel fondo sono stati messi 90 milioni di euro per il 2021 e ben 140 milioni di euro per il 2022. Servono a finanziare, sotto forma di credito di imposta, gli editori di giornali rimborsando loro ben il 30% dei costi sostenuti per la carta e per la distribuzione, e qualcosa in meno per le spese in innovazione digitale.

Ma attenzione: questi soldi non sono per tutti. Vanno solo ai giornali che non godono, perché non ne hanno i requisiti, dei contributi diretti del Fondo per il pluralismo. Vale a dire che tutti i piccoli editori no profit, che sono la spina dorsale dell'informazione locale in Italia e del pluralismo, sono stati esclusi da questi aiuti. Come se per loro non ci fosse stata nessuna emergenza Covid, nessuna emergenza guerra, nessuna crisi del gas e delle materie prime. Come se loro vivessero in un mondo a parte, un mondo all'incontrario appunto. Questi editori hanno dovuto fronteggiare le batoste della crisi con i soldi che già avevano prima, e con i quali già prima, a stento e con grandi sacrifici, riuscivano a mantenersi in vita.

Ma i piccoli editori sono esclusi dagli aiuti

Il sottosegretario Barachini ha proclamato pubblicamente che il Fondo straordinario sarà prorogato anche negli anni successivi e dotato persino di maggiori risorse, con il plauso esultante dei “giornaloni”. E sarà prorogato anche il sistema con cui questo Fondo straordinario viene distribuito ai grandi giornali: cioè non con criteri certi e prefissati dal Parlamento, ma con provvedimenti spot decisi di volta in volta dal Governo, a propria discrezione.

L'esempio più eclatante è di poche settimane fa.

Si è detto che dal credito di imposta per i costi della carta e della distribuzione sono stati esclusi i giornali no profit che già incassano il contributo diretto per l'editoria. Ma il Fondo straordinario prevedeva anche altri aiuti: uno in particolare era un contributo premiale di 5 centesimi a copia cartacea venduta. Misura che è stata aumentata per il 2022 a 10 centesimi a copia. Il decreto di attuazione nulla diceva di eventuali divieti per categorie di editori, e nel silenzio della norma si riteneva che questo premio valesse anche per i giornali no profit. Ma il fondo straordinario non è illimitato: ha un plafond oltre il quale non si può andare, e se gli aventi diritto superano questo tetto, i contributi vengono distribuiti in maniera proporzionale. C'era insomma il rischio che i grandi giornali, che di copie ne vendono decine di milioni l'anno, dovessero dividere la torta con i piccoli giornali locali. Non sia mai detto. È quindi intervenuto il sottosegretario Barachini, sempre solerte quando si tratta degli interessi dei grandi editori, “desaparecido” invece su temi che riguardano interessi più generali, novello Robin Hood all'incontrario che prende ai poveri per dare ai ricchi (e del resto che mondo all'incontrario sarebbe, sennò?). E con un nuovo Dpcm, a fine estate, ecco che spunta la norma “ammazza-poveri”: dai 10 cent a copia vengono esclusi gli editori no profit.

Il risultato finale di questa storia qual è? Che oggi i giornali no profit godono ogni anno dei soli contributi diretti del Fondo per il pluralismo, per complessivi 80-90 milioni di euro, esattamente come ce li avevano nel 2018 o nel 2019, prima che il mondo e l'economia andassero a rotoli. E questo Fondo oggi è persino a rischio, minacciato dalla diminuzione del canone Rai, che lo finanzia in parte, e dalla conseguente alzata di scudi dei vertici della tv di Stato che chiedono di lasciare questi soldi nelle loro casse.

Invece tutti gli altri giornali, quelli editi da società per azioni e dalle grandi famiglie imprenditoriali del Paese, si spartiscono la bellezza di 140 milioni, senza alcun controllo sull'uso che ne faranno e senza alcun divieto di portarseli a casa sotto forma di utili di bilancio e conseguenti dividendi. Soldi che l'anno prossimo saranno anche di più. Senza calcolare poi gli altri aiuti per i prepensionamenti e gli ammortizzatori sociali che i grandi editori attingono dal Fondo per il pluralismo.

Si dirà: e vabbè, anche i grandi editori subiscono gli effetti della crisi economica e hanno bisogno del sostegno pubblico per sopravvivere. Vero. Giusto. Ma perché soltanto loro, e non anche i piccoli editori no profit (cooperative ed enti morali)? Mistero.

Il regalino del Governo salva “Fatto Quotidiano” e “Sole 24 Ore”

E poi, va bene aiutare tutta la filiera dell'editoria, ma almeno che lo riconoscessero. E invece no. Le norme prevedono che i beneficiari dei contributi diretti scrivano ogni santo giorno sul proprio giornale e sul proprio sito internet quanti soldi ricevono dallo Stato. È la trasparenza, bellezza, e va bene così.

Gli editori che incassano milioni dal Fondo straordinario, invece, possono tacerlo al pubblico e scriverlo solo nelle pieghe dei propri bilanci.

O addirittura negarlo, come “Il Fatto Quotidiano”, che in prima pagina, sotto la testata, ogni giorno reca l'orgogliosa quanto menzognera dicitura: “Non riceve alcun finanziamento pubblico”. Falso. Nel 2020 la “Seif”, “Società Editoriale Il Fatto”, ha incassato dallo Stato contributi pubblici a fondo perduto per complessivi 196mila euro, di cui 124mila per i costi della carta. E l'anno successivo, udite udite, ha portato a casa un regalino dello Stato pari a 370mila euro, questa volta come contributo per i costi della distribuzione. In due anni fanno la bellezza di 566mila euro regalati dallo Stato.

Tutto lecito, per carità, ma a maggior ragione: perché negarlo? Eppure i bravissimi colleghi del “Fatto Quotidiano” sanno meglio di altri che la fiducia del lettore è il pilastro di un giornale. E se scrivi una falsità in prima pagina, proprio sotto il marchio di fabbrica, come può il lettore fidarsi di quello che scrivi nelle pagine successive?

Si dirà: sono spiccioli se paragonati al fatturato di un giornale importante e di successo come il Fatto Quotidiano. Mica tanto. Prendiamo per esempio il 2021. La “Seif” ha chiuso il suo bilancio con un utile di 169mila euro. Senza i 370mila regalati dallo Stato avrebbe chiuso il bilancio in rosso, con quel che ne consegue.

Ma il “Fatto” non è mica l'unica società per azioni il cui bilancio è stato salvato dal Fondo straordinario per l'editoria.

Prendiamo per esempio il prestigioso quotidiano economico “Sole 24 Ore”. La società editrice “Gruppo 24 Ore” ha festeggiato nel 2022 il primo bilancio in utile dopo 14 anni di fila di perdite. Si pensi che soltanto l'anno precedente, il 2021, aveva chiuso il bilancio con un rosso di 21 milioni di euro. Nel 2022, invece, finalmente la tendenza si inverte e il bilancio chiude con un risicato ma provvidenziale utile di mezzo milione di euro. Commenti entusiasti (“il merito è della digitalizzazione”, scrivono) e un balzo delle azioni in Borsa, dove il valore fa segnare di colpo un +13%.

Però, se spulciamo gli elenchi della Presidenza del Consiglio, si scopre che il merito di tutto questo successo e dei conseguenti risultati di Borsa è in parte anche dovuto ai soldi dei cittadini italiani.

Sì, perché il “Gruppo 24 Ore” nel 2020 ha incassato 375mila euro a fondo perduto per i costi della carta. Nel 2021 il contributo pubblico balza a 2 milioni e 400 mila euro (275mila euro per la carta e oltre 2 milioni per i costi di distribuzione), senza i quali, vale la pena notare, il disavanzo di bilancio del 2021 non si sarebbe limitato a 21 milioni ma sarebbe salito ad oltre 23 milioni.

E nell'anno del ritorno agli utili, il 2022? All'editore del “Sole 24 Ore” sono finiti 821mila euro di contributi per la carta (per la distribuzione i rimborsi relativi al 2021 non sono ancora stati allocati dal Governo).

Senza questi soldi, è dato presumere, l'utile di bilancio di 500mila euro non si sarebbe raggiunto ma, al contrario, ci sarebbe stato un disavanzo di oltre 300mila euro. Siamo sicuri che la Borsa avrebbe reagito ugualmente con un balzo del 13% del valore delle azioni della società?

Va bene: chi mai potrebbe non essere felice se i conti delle aziende italiane vanno bene? Si tratta pur sempre di aziende editrici che forniscono un importante contributo all'informazione nel nostro Paese e danno lavoro a tanti giornalisti e poligrafici, oltre a tante persone dell'indotto. Quindi, per carità: benvenuti i contributi pubblici.

Ci si domanda solo perché questo non valga anche per le centinaia di piccoli editori no profit che pure mantengono in vita il pluralismo dell'informazione e, molto spesso, l'informazione locale e di prossimità nei tanti borghi della nostra Italia. A loro, invece, questi soldi sono stati preclusi.

Milioni di euro per Urbano Cairo e la famiglia Agnelli-Elkann

Sarebbe sbagliato pensare, poi, che l'entità dei contributi del Fondo straordinario diretti ai grandi giornali siano nell'ordine di grandezza che abbiamo visto per “Fatto” e “Sole 24 Ore”. Più il giornale è grande, più contributi prende (e altrimenti che “Robin Hood al contrario” sarebbe lo Stato?). Vediamo per esempio i due maggiori quotidiani italiani.

A “Rcs – Corriere della Sera”, controllata da Urbano Cairo tramite la “Cairo Communication” (che a sua volte edita altri periodici e per questi prende altri contributi), il Fondo straordinario per l'editoria ha regalato 2 milioni e mezzo di euro nel 2020 (contributo sulla carta), 9 milioni nel 2021 (1,7 per la carta e 7,3 per la distribuzione) e quasi 5,2 milioni nel 2022 (per la sola carta).

Un totale mostruoso pari a 16 milioni e 700mila euro. E Rcs è un gruppo florido già di suo. Ha chiuso il bilancio 2021 con un utile di 72,4 milioni (ma sarebbero stati 9 di meno senza gli aiuti di Stato) e il bilancio del 2022 con un utile di 50 milioni (di cui 5,2, ovvero più del 10%, grazie al regalino del Governo). Interessante notare che questi utili sono stati ripartiti come dividendi tra gli azionisti, che nel 2022 si sono portati a casa 0,06 euro per ogni azione posseduta.

Altrettanto importanti sono gli aiuti regalati all'altro più grande editore italiano, ovvero il gruppo “Gedi”, proprietario di “Repubblica”, “Stampa” e “Secolo XIX”, oltre che di svariate testate locali e qualche radio.

Il gruppo, suddiviso in varie branche e società, è sotto il totale controllo della Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann (peraltro nemmeno italiana, visto che ha sede in Olanda).

Ebbene, le due principali branche del gruppo “Gedi” (la “Gedi News Network Spa” e la “Gedi Gruppo Editoriale”) hanno attinto dal Fondo straordinario per l'editoria 2 milioni e mezzo di euro nel 2020 (2,3 per la carta e il resto per i servizi digitali), 9,4 milioni nel 2021 (1,8 per la carta e 7,6 per la distribuzione) e 4,5 nel 2022 (solo per la carta).

Totale del regalo alla controllata della holding olandese di casa Agnelli-Elkann: 16,4 milioni di euro.

Anche in questo caso si tratta di cifre che hanno avuto un impatto notevole sui bilanci del gruppo. Si pensi che nel 2021 la “Gedi” ha registrato un rosso di ben 50 milioni, che sarebbe stato più profondo di oltre 9 milioni senza l'aiuto dello Stato, mentre nel 2022 ha finalmente registrato un utile di bilancio, pari a circa 2 milioni di euro, per la prima volta dopo sette anni di disavanzi costanti: un utile che per la “Gedi” è pari a meno della metà di quanto incassato dallo Stato quello stesso anno.

Il che vuol dire che senza il Fondo straordinario per l'editoria il gruppo avrebbe chiuso il bilancio in rosso per l'ottavo anno di fila.

Si dirà che è un bene che i soldi pubblici, cioè di tutti i cittadini, consentano la sopravvivenza di un'azienda, ancor più se si tratta di un'azienda fondamentale per il pluralismo dell'informazione e, quindi, per la democrazia. Come non essere d'accordo?

E però è anche opportuno notare che qui si è ripianato il bilancio di una Spa controllata dalla cassaforte (olandese) della famiglia Agnelli-Elkann, la Exor, la quale avrebbe dovuto coprire il buco della propria controllata presumibilmente, e comunque in larga parte, con i propri soldi, i soldi degli Agnelli-Elkann. Ma non c'è problema, ancora una volta ci ha pensato “mamma Stato”.

Gli esempi potrebbero essere molti altri, ma fermiamoci ad una semplice quanto evidente e choccante constatazione.

La somma dei soldi regalati ai due maggiori editori di quotidiani del Paese, “Rcs-Corriere della Sera” e gruppo “Gedi” (Repubblica-Stampa), in soli tre anni, è stata pari a oltre 33 milioni di euro, di cui oltre 18 milioni solo nel 2021. E non è finita qui, perché altri arriveranno, se stiamo alle promesse del munifico (per alcuni) sottosegretario Barachini.

Se paragonati ai 90 milioni del Fondo per il pluralismo destinati alle centinaia di testate edite da società no profit, i due più grandi editori del Paese, da soli, si sono portati a casa oltre un terzo di tale cifra. E dei 90 milioni del Fondo straordinario stanziati per il 2021, i 18,4 milioni incassati da soli due soggetti, “Rcs” e “Gedi”, rappresentano più del 20% del totale.

Le associazioni di editori no profit in rivolta

Non sorprende, dunque, che i malumori nelle associazioni di categoria che rappresentano le aziende del settore siano tanti, specialmente dopo il discusso Dpcm che a settembre scorso ha scippato agli editori no profit anche i pochi spiccioli (se paragonati alle cifre di cui sopra), dei 10 cent a copia venduta.

Eugenio Fusignani, presidente di “Culturalia”, il settore di Agci che si occupa di editoria, e della confederazione tematica delle tre grandi centrali di cooperative italiane Aci, “Alleanza delle Cooperative Italiane”, la spiega così:

«Le preoccupazioni crescono a causa dell’atteggiamento del Sottosegretario verso l’editoria cooperativa e non profit in Italia. Inizialmente c’erano rassicurazioni sul suo impegno a preservare la libertà e l’autonomia degli editori puri come le cooperative giornalistiche. Tuttavia, negli ultimi mesi, tutte le misure sono state rivolte ad incrementare le risorse destinate ai grandi gruppi editoriali, limitando al massimo, ed addirittura escludendo da diversi tipi di intervento, le cooperative e le imprese non profit».

E c'è un novità degli ultimi giorni, aggiunge Fusignani: «Nella finanziaria il Governo ha presentato una vera e propria riforma dell’editoria che il Parlamento è tenuto praticamente ad approvare senza alcuna discussione di merito. Una riforma che non contiene mai il termine cooperativa giornalistica, impresa senza fine di lucro, una riforma lontana da qualsiasi volontà di preservare l’autonomia dell’informazione dagli interessi dei grandi gruppi economici del Paese. Una riforma pensata per tutelare le imprese di maggiori dimensioni.

Ma la cosa che più ci lascia sconcertati è che la riforma dell’editoria viene completamente delegata al Governo, escludendo il Parlamento da qualsiasi discussione o dibattito su un tema centrale per la democrazia: il pluralismo nell’informazione. La delusione è ancora maggiore vista la sensibilità che questo Governo aveva sempre dimostrato per l’editoria cooperativa, non profit e di prossimità».

«Da un anno si è aperta un'interlocuzione con il nuovo sottosegretario all'Editoria Alberto Barachini ma di risultati concreti ancora non se ne vedono», lamenta delusa anche Giovanna Barni, presidente nazionale di “CulTurMedia”, la sezione di Legacoop specializzata in editoria.

«Colpisce che mentre si erogano risorse sempre più ingenti a favore dei giornali editi da grandi editori e da società quotate in Borsa, che distribuiscono utili agli azionisti e quindi anche parte dei contributi percepiti, si continuano ad attaccare e a penalizzare le cooperative di giornalisti e i giornali non profit. Alla crisi strutturale dei giornali si sono aggiunti, negli ultimi anni, prima la pandemia da Covid, poi la crisi internazionale con la guerra in Ucraina e un aumento più che raddoppiato del costo della carta da giornali.

Ora, se il Governo riconosce che la crisi c'è, questa vale per tutti, specie per l’editoria cooperativa, minacciata da tagli e tentativi di cancellazione. Purtroppo gli interventi a sostegno dell'editoria cooperativa al momento sono fermi al palo e non è ancora stata cancellata la minaccia che prevede la progressiva riduzione dei contributi fino al loro azzeramento.

Non è accettabile che a fronte di una crisi che investe tutto il comparto si discrimini una parte».

Molto amareggiato è anche il commento di Roberto Paolo, presidente della “File” (Federazione Italiana Liberi Editori):

«Il sottosegretario Barachini si è insediato un anno fa. Ci siamo presentati subito, presentammo una piattaforma di proposte sui contributi diretti all'editoria che potesse servire da base di discussione per un confronto. Da un anno aspettiamo di incontrarlo ma non risponde ai nostri solleciti. Sarà troppo impegnato. A fare cosa non è dato sapere, visto che non ha avanzato uno straccio di idea sull'argomento.

Ma è grave che nei giorni scorsi, senza confrontarsi con nessuno degli stakeholder, Barachini abbia proposto un articolo nella legge di bilancio che in sostanza delegifica la disciplina del settore, sottraendo al Parlamento la competenza sulla delicatissima materia del pluralismo e rimandando invece, da qui in poi e per sempre, la regolamentazione dei contributi all'editoria al Governo di turno, che potrà agire con propri regolamenti senza passare per i rappresentanti dei cittadini.

È un colpo di mano ai limiti della legittimità costituzionale, su cui ci auguriamo intervenga per sventarlo il Presidente della Repubblica, da sempre attento custode dei valori del pluralismo e della democrazia».

Protesta anche Chiara Genisio, vicepresidente della “Fisc” (Federazione italiana settimanali cattolici):

«Per rispondere  alla crisi che sta vivendo il comparto, il Governo interviene  giustamente con un Fondo straordinario per sostenere il settore, ma esclude i giornali no profit e le cooperative dei giornalisti che percepiscono il contributo in base alla legge 198 del 2016.  

Una scelta incomprensibile, considerato che il Fondo ordinario serviva proprio per offrire pari opportunità, che ora vengono meno per via dell’aiuto straordinario rivolto ai grandi editori. Nei primi mesi di governo il sottosegretario all’Editoria, Alberto Barachini, aveva offerto grande disponibilità all’ascolto e a sostenere la nostra informazione più “di prossimità”, ma a quelle promesse nei mesi seguenti non sono seguite risposte e nuove proposte.

Confidiamo che questo atteggiamento sia superato e  si apra una stagione di dialogo costruttivo per proseguire a sostenere i nostri giornali che, come ha rimarcato il presidente Mattarella,  hanno anche come ruolo quello di “stimolare nei nostri concittadini la capacità critica degli avvenimenti e il senso di comunità, senza il quale un Paese non è più tale”».

Insomma, la luna di miele dei piccoli editori puri con il Governo Meloni sembra davvero finita.

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Don Lorenzo Milani, la sua scuola un modello vivente https://www.lavoce.it/don-lorenzo-milani-la-sua-scuola-un-modello-vivente/ https://www.lavoce.it/don-lorenzo-milani-la-sua-scuola-un-modello-vivente/#respond Tue, 30 May 2023 21:00:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=71788

di Erica Cassetta *

La figura di don Lorenzo Milani, la sua vita e la sua azione di sacerdote e di maestro, hanno attraversato in modo carsico la nostra storia. I suoi scritti “pastorali” ed educativi non hanno mai smesso di interrogare non solo i docenti più avveduti, ma anche quelle istituzioni religiose e scolastiche che lo hanno apertamente avversato. Nel primo caso è di capitale importanza il finanziamento a Barbiana da parte di Papa Paolo VI, nei giorni dell’invito all’ "escardinazione” da parte del vescovo di Firenze, Florit.

2017, l'anno della riabilitazione per don Lorenzo Milani

Il 2017 è l’anno della riabilitazione piena di don Milani da parte delle autorità religiose con Papa Francesco che visita Barbiana, prega sulla tomba di don Milani e riconosce apertamente l’errore della curia fiorentina, nello stesso tempo il Ministero dell’Istruzione dà vita ad un Convegno nel quale riconosce la sua figura di grande educatore, ne parla come di un “ispiratore”, di un “grande illuminato educatore”.

Don Lorenzo Milani non è né comunista, né marxista

Don Milani non è comunista, né marxista, non auspica nessuna rivoluzione sociale o economica; stringe relazioni ed alleanze con tutti gli uomini e le donne di buona volontà che possano aiutarlo nella sua missione di accompagnare i poveri in un percorso reale di emancipazione e giustizia. Da grande educatore sa leggere il contesto nel quale è stato esiliato ed utilizza quegli strumenti didattici, quei metodi che gli possono permettere di raggiungere il suo fine. Oggi in una dimensione di individualismo dominante il suo insegnamento è certamente di grande attualità.

La scuola di don Lorenzo Milani era inclusiva

La scuola di don Milani è inclusiva, non discriminante, è contemporanea: si leggono i giornali e ci si interessa del mondo. E' una scuola cooperativa: si studia intorno ad un unico tavolo ed i più grandi insegnano ai più piccoli; valorizza i talenti e le inclinazioni di ciascuno, è una scuola non meritocratica e che non boccia. La scuola di don Milani porta il mondo dentro la scuola e si apre al mondo.

La scuola di oggi

La scuola italiana di oggi non è sicuramente più quella degli anni ’60 e la sua trasformazione ha risentito del dibattito in sede EU e dell’accoglimento di esperienze e modelli della nostra tradizione e di quella internazionale. I temi ed azioni sviluppati sulle Competenze, Valutazione, Orientamento, Continuità…, i Progetti di singole scuole o di scuole in rete, i nuovi approcci didattici, le nuove metodologie, sono esempi di innovazione condivisibili, ma che non hanno trovato una sistemazione organica, strutturale.

Questa scuola sembra essere “una scuola senz’anima”! Se don Milani fosse vissuto ai nostri giorni, da questa scuola sarebbe partito ed il suo spirito critico si sarebbe esercitato su una scuola di massa, si sarebbe preso cura dei giovani di oggi, degli insegnanti e i genitori del presente. Per don Milani la lingua era l’elemento fondamentale per essere e diventare cittadini, in un paese in cui la maggioranza della popolazione era sostanzialmente analfabeta. Dopo il Covid 19 e nella crisi valoriale e sociale attuale quali sono gli analfabetismi attuali?

I nuovi strumenti di comunicazione

I nuovi strumenti di comunicazione cambiano e si affermano con una rapidità che li rende velocemente superati. Il linguaggio dei social è oggi la lingua che fa uguali?! I docenti devono saperli far usare criticamente, insegnando ai ragazzi a saper selezionare le informazioni, distinguendo quelle vere dalle false.

L'importanza della relazione umana ed educativa

Servono la stabilità del personale e la formazione obbligatoria da contratto durante tutto il percorso professionale. Gli studenti hanno anche bisogno di sentirsi “amati, accompagnati, guidati”. Il nucleo centrale è “la relazione” umana prima, educativa dopo. La scuola anaffettiva non ha prodotto risultati positivi in questi anni. L’affetto schietto ed autorevole (proprio di Don Milani) nel rapporto insegnante-docente è importante per consentire la disponibilità ad imparare. In un momento in cui la denatalità sta riducendo drasticamente le nostre classi, si dovrebbe intervenire sull’attuale legislazione. Classi di 15 alunni sono la dimensione ottimale per personalizzare la relazione docente-alunno e l’istaurarsi della dimensione affettiva.

* Segretaria regionale Cisl Scuola Umbria Componente Comitato nazionale celebrazioni centenario della nascita di Don Milani (1923-2023)

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di Erica Cassetta *

La figura di don Lorenzo Milani, la sua vita e la sua azione di sacerdote e di maestro, hanno attraversato in modo carsico la nostra storia. I suoi scritti “pastorali” ed educativi non hanno mai smesso di interrogare non solo i docenti più avveduti, ma anche quelle istituzioni religiose e scolastiche che lo hanno apertamente avversato. Nel primo caso è di capitale importanza il finanziamento a Barbiana da parte di Papa Paolo VI, nei giorni dell’invito all’ "escardinazione” da parte del vescovo di Firenze, Florit.

2017, l'anno della riabilitazione per don Lorenzo Milani

Il 2017 è l’anno della riabilitazione piena di don Milani da parte delle autorità religiose con Papa Francesco che visita Barbiana, prega sulla tomba di don Milani e riconosce apertamente l’errore della curia fiorentina, nello stesso tempo il Ministero dell’Istruzione dà vita ad un Convegno nel quale riconosce la sua figura di grande educatore, ne parla come di un “ispiratore”, di un “grande illuminato educatore”.

Don Lorenzo Milani non è né comunista, né marxista

Don Milani non è comunista, né marxista, non auspica nessuna rivoluzione sociale o economica; stringe relazioni ed alleanze con tutti gli uomini e le donne di buona volontà che possano aiutarlo nella sua missione di accompagnare i poveri in un percorso reale di emancipazione e giustizia. Da grande educatore sa leggere il contesto nel quale è stato esiliato ed utilizza quegli strumenti didattici, quei metodi che gli possono permettere di raggiungere il suo fine. Oggi in una dimensione di individualismo dominante il suo insegnamento è certamente di grande attualità.

La scuola di don Lorenzo Milani era inclusiva

La scuola di don Milani è inclusiva, non discriminante, è contemporanea: si leggono i giornali e ci si interessa del mondo. E' una scuola cooperativa: si studia intorno ad un unico tavolo ed i più grandi insegnano ai più piccoli; valorizza i talenti e le inclinazioni di ciascuno, è una scuola non meritocratica e che non boccia. La scuola di don Milani porta il mondo dentro la scuola e si apre al mondo.

La scuola di oggi

La scuola italiana di oggi non è sicuramente più quella degli anni ’60 e la sua trasformazione ha risentito del dibattito in sede EU e dell’accoglimento di esperienze e modelli della nostra tradizione e di quella internazionale. I temi ed azioni sviluppati sulle Competenze, Valutazione, Orientamento, Continuità…, i Progetti di singole scuole o di scuole in rete, i nuovi approcci didattici, le nuove metodologie, sono esempi di innovazione condivisibili, ma che non hanno trovato una sistemazione organica, strutturale.

Questa scuola sembra essere “una scuola senz’anima”! Se don Milani fosse vissuto ai nostri giorni, da questa scuola sarebbe partito ed il suo spirito critico si sarebbe esercitato su una scuola di massa, si sarebbe preso cura dei giovani di oggi, degli insegnanti e i genitori del presente. Per don Milani la lingua era l’elemento fondamentale per essere e diventare cittadini, in un paese in cui la maggioranza della popolazione era sostanzialmente analfabeta. Dopo il Covid 19 e nella crisi valoriale e sociale attuale quali sono gli analfabetismi attuali?

I nuovi strumenti di comunicazione

I nuovi strumenti di comunicazione cambiano e si affermano con una rapidità che li rende velocemente superati. Il linguaggio dei social è oggi la lingua che fa uguali?! I docenti devono saperli far usare criticamente, insegnando ai ragazzi a saper selezionare le informazioni, distinguendo quelle vere dalle false.

L'importanza della relazione umana ed educativa

Servono la stabilità del personale e la formazione obbligatoria da contratto durante tutto il percorso professionale. Gli studenti hanno anche bisogno di sentirsi “amati, accompagnati, guidati”. Il nucleo centrale è “la relazione” umana prima, educativa dopo. La scuola anaffettiva non ha prodotto risultati positivi in questi anni. L’affetto schietto ed autorevole (proprio di Don Milani) nel rapporto insegnante-docente è importante per consentire la disponibilità ad imparare. In un momento in cui la denatalità sta riducendo drasticamente le nostre classi, si dovrebbe intervenire sull’attuale legislazione. Classi di 15 alunni sono la dimensione ottimale per personalizzare la relazione docente-alunno e l’istaurarsi della dimensione affettiva.

* Segretaria regionale Cisl Scuola Umbria Componente Comitato nazionale celebrazioni centenario della nascita di Don Milani (1923-2023)

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Elezioni politiche 2022. Dove sono le idee … e i cattolici? https://www.lavoce.it/elezioni-politiche-2022-dove-sono-le-idee-e-i-cattolici/ Wed, 31 Aug 2022 01:31:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=68133 Elezioni 2022

Le liste per le elezioni politiche nazionali del 25 Settembre sono state “chiuse” e la campagna elettorale è entrata nel vivo. Prima che gli animi si accendano troppo e che il frastuono superi il livello di guardia c’è tempo per qualche osservazione. Tuttavia, ancora prima di queste osservazioni, è doveroso ribadire che, per il magistero sociale della Chiesa e non solo, la politica, come ogni ambito pratico, non è oggetto di verità assolute né di sillogismi. Le conoscenze, già in sé precarie, vanno continuamente aggiornate. Le sorprese sono all’ordine del giorno.

Valutare annunci … e scelte compiute

La perfezione e la purezza vanno escluse a priori e dunque ogni argomento difensivo del tipo “ma anche loro …” va bandito per principio. L’unica cosa che si può fare è confrontare le liste di priorità. Valutare per i singoli problemi quali sono i diversi benefici ed i diversi costi delle soluzioni proposte e, soprattutto, valutare il pregresso delle persone e delle organizzazioni. I programmi da prendere in considerazione non sono quelli scritti oggi, ma quelli perseguiti sino a ieri. Si dirà: in tempo di tribalismi (anche) politici tutto questo non è di moda. E quando mai un credente od una persona onesta possono farsi dettare i pensieri e le scelte dalle mode o dagli influencer? Anche se in tonaca. E veniamo a quattro osservazioni.

Pe le elezioni candidati non scelti dagli elettori

Pressoché tutte le liste sono piene di bravissime persone, di persone – come a volte si dice – provenienti dalla “società civile”. Ciò nonostante non bisogna farsi confondere. Basta osservare i posti loro assegnati e conoscere i sondaggi per rendersi conto che sono state collocate in posizioni “inutili”, sono state usate da “abbellimento”. Gruppi dirigenti ristrettissimi e selezionati per cooptazione si sono presi tutti i posti “utili” (ed anche qualcuno in più: “per sicurezza”). Questo fenomeno non è affatto inevitabile. Basta osservare come funzionano le grandi democrazie (ed ormai anche molte delle piccole) per rendersi conto facilmente che le primarie (spesso imposte per legge), o i “primi turni” di sistemi a “doppio turno”, servono esattamente a questo: a far sì che siano gli elettori a scegliere i candidati. Né la attuale legge elettorale avrebbe impedito l’utilizzo dello strumento delle primarie. Anzi, per la verità, lo avrebbe favorito. Il rifiuto delle primarie è particolarmente grave per il Pd che era nato sul solenne impegno statutario di tenere regolarmente primarie aperte e trasparenti. Di quel Pd non c’è più traccia e magari la cosa colpisce un po’ meno in Umbria, dove il Pd – come qualcosa di realmente altro da quello che c’era prima – non è praticamente mai nato. A quest’uso delle “facce nuove”, di routine a destra, non fa eccezione neppure il neonato “Terzo Polo” (Renzi-Calenda), che ha cercato di mettere al sicuro una manciata di ex-Pd nostrani, i quali, del riformismo e dello spirito liberale di cui oggi parlano, non avevano fatto sospettare quando erano interni e spesso al vertice dell’”Umbria rossa”. Veniamo ai programmi. Qui il discorso si fa piuttosto semplice.

I programmi di partiti e coalizioni ci sono?

I 5Stelle di Conte

Difficile dire qualcosa del Movimento 5 Stelle e di Conte. Nel corso della passata legislatura hanno fatto di tutto ed hanno addirittura guidato (con Conte) governi di orientamento perfettamente opposto (record eguagliabile, ma non superabile), nessuno dei quali governi e delle rispettive alleanze minimamente riconducibile alle promesse fatte in campagna elettorale. Anche dal punto di vista del metodo il M5S non ha certo dato compimento alle promesse di democrazia diretta e di trasparenza di cui si era vantato. Se bastava un po’ di storia per sapere che la “democrazia diretta” è un mito che serve solo a coprire l’ennesimo attacco alla democrazia, forse non tutti si aspettavano che alla fine risultasse irrisolto anche il nodo del rapporto tra M5S e aziende private. Ciò detto, e a dimostrazione di quanto detto in premessa, non si può però non ricordare che per iniziativa dei “Cinque Stelle” abbiamo avuto una riforma – il taglio dei parlamentari – che punisce il ceto politico ed aumenta il peso del voto del singolo elettore. Una riforma – come tutte certamente da completare – della quale solo da poco abbiamo cominciato ad apprezzare il valore e la utilità.

Il Pd e gli alleati

Difficile dire qualcosa anche della alleanza cui hanno dato vita: +Europa, il Pd, i dalemiani della “ditta” già fuoriusciti, Fratoianni, Bonelli e Di Maio. La eterogeneità è tale che questa coalizione non ha né un programma, né un leader e forse neppure un nome. Vi sta dentro chi è stato con Draghi e chi lo ha costantemente combattuto, e persino Di Maio il quale, per parlare solo di politica estera, ha avuto momenti di attiva simpatia per Putin, altri di alacre collaborazione con i cinesi e ora, da poco, professa “europeismo” ed “atlantismo”. Il Pd, che aveva cercato in ogni modo il Conte III piuttosto che il governo Draghi, dopo essere stato fedele a quest’ultimo, una volta caduto l’ha immediatamente rimosso, accantonandone l’agenda ed alleandosi con chi lo ha osteggiato. Si dice: colpa delle legge elettorale; ma – a prescindere dal fatto che tale legge non obbliga affatto a fare alleanze, né tanto meno a farne con chi ha idee diverse dalle proprie – si tratta di una legge elettorale che porta il nome dell’allora capogruppo Pd! Se ora il Pd si accorge che si tratta di una legge elettorale fatta male, non dovrebbe accampare scuse, ma chiedere scusa. La scissione di alleanza elettorale e programma è l’ennesima pietra tombale posta dal Pd su se stesso. In questa fase neppure i residui riformisti del Pd hanno dato battaglia a Letta ed alla “ditta”, ma si sono limitati a tentare di farsi cooptare.

Centro destra e Terzo polo Renzi-Calenda

Di programmi invece ha invece senso parlare se si prendono in considerazione Centrodestra e Terzo polo (Renzi-Calenda). Qui la alternativa è chiara: da una parte – il Centrodestra – abbiamo un “no” netto alla “agenda Draghi”, dall’altra – Renzi-Calenda – abbiamo un “sì” altrettanto netto alla “agenda Draghi”. La contrapposizione è resa ancora più chiara dal fatto che la “agenda Draghi” non è una vaga dichiarazione di intenti, ma un programma per larga parte già scritto, già in via di esecuzione e che già ha prodotto risultati in termini di: flussi economici, pubblici e privati, di credito, di collocazione internazionale dell’Italia, di riforme, di risultati già prodotti dalle politiche adottate. Naturalmente la “agenda Draghi” può piacere o non piacere, ma si tratta di una cosa precisa e già operativa. Sicché la alternativa tra Centrodestra e Terzo Polo ha contorni precisi e concreti. (Né si può escludere che un buon risultato di Renzi & Calenda attragga e torni a dare un po’ di coraggio ai riformisti del Pd ed agli eventuali – attualmente scomparsi dai radar – “non sovranisti” e “non populisti” del Centrodestra.) Ciò che il Centrodestra non dice nel suo programma è come (e dunque a quali costi) riuscirebbe a garantire altrimenti i flussi finanziari positivi generati dalla agenda Draghi (dai fondi messi a disposizione dall’UE agli investimenti privati attirati dalla fiducia generata sui mercati da Draghi e dalle sue politiche). Ad esempio, come potrebbe mai essere possibile arginare la escalation dei prezzi dell’energia se non con un fronte UE compatto quale quello cui Draghi ha lavorato sin quasi ad assumerne la leadership? Né il Centrodestra dice come riuscirà a conservare la apertura di credito riguadagnata dall’Italia nelle sedi internazionali, né come eviterà i contraccolpi negativi della cancellazione delle riforme realizzate o messe in cantiere dal governo uscente, né con cosa sostituirà i risultati ottenuti e quelli attesi delle politiche adottate dal governo Draghi. Il Centrodestra afferma di voler stare nella Unione Europea e nella Nato, ma questo non basta perché si può stare in Europa come l’Ungheria di Orban (corteggiatissimo da Meloni) ed il Gruppo di Visegrad (amato da Salvini) oppure come Macron; perché si può stare nella Nato come la Turchia di Erdogan o come la Gran Bretagna. Per non parlare delle simpatie per Putin (e per Trump) assai diffuse nello stesso Centrodestra. Al momento, il “no” alla “agenda Draghi”, che resta legittimo, è pieno di equivoci e di lacune, ed è pieno di incubi per chi desidera che l’Italia resti una “società aperta”, una poliarchia locale dentro una poliarchia globale (per usare i termini della Caritas in veritate di Benedetto XVI). Dal punto di vista programmatico, per quello che è dato vedere oggi, le elezioni del 25 Settembre saranno un referendum sulla “agenda Draghi”: Terzo Polo a favore della “agenda Draghi” e Centrodestra contro la ”agenda Draghi”.

Temi locali nel dibattito nazionale sulle elezioni?

Ha senso attendersi che si parli di questioni locali in elezioni politiche nazionali? No e sì. No, non ha senso perché agli umbri, come a tutti gli altri italiani, è chiesto di scegliere su politiche di livello nazionale, a differenza di quanto avviene nelle consultazioni regionali o comunali. Sì, ha senso, se si riesce a mostrare che una questione “locale” non è una questione di rilievo solo “locale”, bensì anche “nazionale” e “globale”.

La questione “Italia centrale”

Negli ultimi anni, per prima la Azione Cattolica di Terni-Narni-Amelia, tante e varie voci autorevoli della vita sociale, economica ed accademica, istituzioni di ricerca come l’AUR di Perugia, testate nazionali come “il Messaggero”, hanno chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che la questione “Italia Centrale” è oggi questione di interesse nazionale e globale e che nei suoi confini prende nuovo vigore la causa umbra e in generale quella della rete di città medie di questa area. Nelle settimane scorse era stato fatto notare anche che la maggior parte dei collegi contendibili è collocata proprio in Italia Centrale e che quindi era interesse dei partiti competere offrendo all’elettorato proposte alternative in materia. Risultato: tutti hanno taciuto. Niente di niente da nessuna delle quattro principali sponde.

La questione cattolici e politica

Anche queste elezioni 2022 sono occasione nella quale si manifesta lo scivolamento in atto nel cattolicesimo italiano, rispetto alla politica e non solo. La offerta politica che abbiamo di fronte mostra come il cattolicesimo italiano sia caratterizzato oggi da un mix di visibilità ed irrilevanza. Meloni, Salvini, Berlusconi, Renzi, Letta e Conte hanno biografie e strategie comunicative in cui certo non si nasconde il riferimento alla religione. Contemporaneamente, non occorre essere teologi per rendersi conto che principi e criteri del magistero sociale della Chiesa, per non parlare dell’eredità del cattolicesimo politico, non hanno gran peso nella selezione delle priorità e delle politiche.

Dibattito elettorale: riferimento inconsistente all'insegnamento della Chiesa

In questo senso non si può non sottolineare la assoluta inconsistenza del riferimento alla dottrina sociale della Chiesa fatto dalla on.le Meloni a Rimini. Senza risalire al Vaticano II ed a Montini, è davvero difficile trovare argomenti a sostegno di una prospettiva “sovranista” e “populista” nel magistero di Giovanni Paolo II o di Benedetto XVI.

Caduta del pensiero cattolico e della formazione dei credenti?

Decenni di desertificazione del tessuto dell’associazionismo laicale cattolico e di sua improvvida sostituzione con le “pastorali” (strutturalmente “clericali”) hanno estirpato le radici che avevano formato generazioni di cattolici alle forme proprie ed alla responsabilità della politica. A questo si è aggiunta una moda ormai dilagante di continuo riposizionamento di cattolici, laici e clero, che non si dà briga di addurre giustificazione alcuna per l’assumere in successione posizioni diversissime sia nella Chiesa che in politica. Se si pensa a quale spazio gli interventi del magistero, a tutti i livelli, davano alle argomentazioni che discutevano, distinguevano o collegavano affermazioni del passato e del presente, ben si comprende quale “sciogliete le righe” produca l’attuale affidarsi non ad argomenti, ma ad emozioni, battute e twitt. Certamente non si aiuta la maturazione nei credenti di una rinnovata coscienza storica, e dunque anche politica, diffondendo lo spontaneismo, premiando l’anti-intellettualismo, abbandonandosi a luoghi comuni. Semmai, il bisogno di disciplina (ascetica ed intellettuale), di formazione e di confronto nel discernimento, il bisogno di apostolato dei laici (e non di “pastorali”), di associazionismo laicale ecclesiale (piuttosto che di uffici di curia e di laici ridotti ad “operatori pastorali”) è oggi più grande di ieri.]]>
Elezioni 2022

Le liste per le elezioni politiche nazionali del 25 Settembre sono state “chiuse” e la campagna elettorale è entrata nel vivo. Prima che gli animi si accendano troppo e che il frastuono superi il livello di guardia c’è tempo per qualche osservazione. Tuttavia, ancora prima di queste osservazioni, è doveroso ribadire che, per il magistero sociale della Chiesa e non solo, la politica, come ogni ambito pratico, non è oggetto di verità assolute né di sillogismi. Le conoscenze, già in sé precarie, vanno continuamente aggiornate. Le sorprese sono all’ordine del giorno.

Valutare annunci … e scelte compiute

La perfezione e la purezza vanno escluse a priori e dunque ogni argomento difensivo del tipo “ma anche loro …” va bandito per principio. L’unica cosa che si può fare è confrontare le liste di priorità. Valutare per i singoli problemi quali sono i diversi benefici ed i diversi costi delle soluzioni proposte e, soprattutto, valutare il pregresso delle persone e delle organizzazioni. I programmi da prendere in considerazione non sono quelli scritti oggi, ma quelli perseguiti sino a ieri. Si dirà: in tempo di tribalismi (anche) politici tutto questo non è di moda. E quando mai un credente od una persona onesta possono farsi dettare i pensieri e le scelte dalle mode o dagli influencer? Anche se in tonaca. E veniamo a quattro osservazioni.

Pe le elezioni candidati non scelti dagli elettori

Pressoché tutte le liste sono piene di bravissime persone, di persone – come a volte si dice – provenienti dalla “società civile”. Ciò nonostante non bisogna farsi confondere. Basta osservare i posti loro assegnati e conoscere i sondaggi per rendersi conto che sono state collocate in posizioni “inutili”, sono state usate da “abbellimento”. Gruppi dirigenti ristrettissimi e selezionati per cooptazione si sono presi tutti i posti “utili” (ed anche qualcuno in più: “per sicurezza”). Questo fenomeno non è affatto inevitabile. Basta osservare come funzionano le grandi democrazie (ed ormai anche molte delle piccole) per rendersi conto facilmente che le primarie (spesso imposte per legge), o i “primi turni” di sistemi a “doppio turno”, servono esattamente a questo: a far sì che siano gli elettori a scegliere i candidati. Né la attuale legge elettorale avrebbe impedito l’utilizzo dello strumento delle primarie. Anzi, per la verità, lo avrebbe favorito. Il rifiuto delle primarie è particolarmente grave per il Pd che era nato sul solenne impegno statutario di tenere regolarmente primarie aperte e trasparenti. Di quel Pd non c’è più traccia e magari la cosa colpisce un po’ meno in Umbria, dove il Pd – come qualcosa di realmente altro da quello che c’era prima – non è praticamente mai nato. A quest’uso delle “facce nuove”, di routine a destra, non fa eccezione neppure il neonato “Terzo Polo” (Renzi-Calenda), che ha cercato di mettere al sicuro una manciata di ex-Pd nostrani, i quali, del riformismo e dello spirito liberale di cui oggi parlano, non avevano fatto sospettare quando erano interni e spesso al vertice dell’”Umbria rossa”. Veniamo ai programmi. Qui il discorso si fa piuttosto semplice.

I programmi di partiti e coalizioni ci sono?

I 5Stelle di Conte

Difficile dire qualcosa del Movimento 5 Stelle e di Conte. Nel corso della passata legislatura hanno fatto di tutto ed hanno addirittura guidato (con Conte) governi di orientamento perfettamente opposto (record eguagliabile, ma non superabile), nessuno dei quali governi e delle rispettive alleanze minimamente riconducibile alle promesse fatte in campagna elettorale. Anche dal punto di vista del metodo il M5S non ha certo dato compimento alle promesse di democrazia diretta e di trasparenza di cui si era vantato. Se bastava un po’ di storia per sapere che la “democrazia diretta” è un mito che serve solo a coprire l’ennesimo attacco alla democrazia, forse non tutti si aspettavano che alla fine risultasse irrisolto anche il nodo del rapporto tra M5S e aziende private. Ciò detto, e a dimostrazione di quanto detto in premessa, non si può però non ricordare che per iniziativa dei “Cinque Stelle” abbiamo avuto una riforma – il taglio dei parlamentari – che punisce il ceto politico ed aumenta il peso del voto del singolo elettore. Una riforma – come tutte certamente da completare – della quale solo da poco abbiamo cominciato ad apprezzare il valore e la utilità.

Il Pd e gli alleati

Difficile dire qualcosa anche della alleanza cui hanno dato vita: +Europa, il Pd, i dalemiani della “ditta” già fuoriusciti, Fratoianni, Bonelli e Di Maio. La eterogeneità è tale che questa coalizione non ha né un programma, né un leader e forse neppure un nome. Vi sta dentro chi è stato con Draghi e chi lo ha costantemente combattuto, e persino Di Maio il quale, per parlare solo di politica estera, ha avuto momenti di attiva simpatia per Putin, altri di alacre collaborazione con i cinesi e ora, da poco, professa “europeismo” ed “atlantismo”. Il Pd, che aveva cercato in ogni modo il Conte III piuttosto che il governo Draghi, dopo essere stato fedele a quest’ultimo, una volta caduto l’ha immediatamente rimosso, accantonandone l’agenda ed alleandosi con chi lo ha osteggiato. Si dice: colpa delle legge elettorale; ma – a prescindere dal fatto che tale legge non obbliga affatto a fare alleanze, né tanto meno a farne con chi ha idee diverse dalle proprie – si tratta di una legge elettorale che porta il nome dell’allora capogruppo Pd! Se ora il Pd si accorge che si tratta di una legge elettorale fatta male, non dovrebbe accampare scuse, ma chiedere scusa. La scissione di alleanza elettorale e programma è l’ennesima pietra tombale posta dal Pd su se stesso. In questa fase neppure i residui riformisti del Pd hanno dato battaglia a Letta ed alla “ditta”, ma si sono limitati a tentare di farsi cooptare.

Centro destra e Terzo polo Renzi-Calenda

Di programmi invece ha invece senso parlare se si prendono in considerazione Centrodestra e Terzo polo (Renzi-Calenda). Qui la alternativa è chiara: da una parte – il Centrodestra – abbiamo un “no” netto alla “agenda Draghi”, dall’altra – Renzi-Calenda – abbiamo un “sì” altrettanto netto alla “agenda Draghi”. La contrapposizione è resa ancora più chiara dal fatto che la “agenda Draghi” non è una vaga dichiarazione di intenti, ma un programma per larga parte già scritto, già in via di esecuzione e che già ha prodotto risultati in termini di: flussi economici, pubblici e privati, di credito, di collocazione internazionale dell’Italia, di riforme, di risultati già prodotti dalle politiche adottate. Naturalmente la “agenda Draghi” può piacere o non piacere, ma si tratta di una cosa precisa e già operativa. Sicché la alternativa tra Centrodestra e Terzo Polo ha contorni precisi e concreti. (Né si può escludere che un buon risultato di Renzi & Calenda attragga e torni a dare un po’ di coraggio ai riformisti del Pd ed agli eventuali – attualmente scomparsi dai radar – “non sovranisti” e “non populisti” del Centrodestra.) Ciò che il Centrodestra non dice nel suo programma è come (e dunque a quali costi) riuscirebbe a garantire altrimenti i flussi finanziari positivi generati dalla agenda Draghi (dai fondi messi a disposizione dall’UE agli investimenti privati attirati dalla fiducia generata sui mercati da Draghi e dalle sue politiche). Ad esempio, come potrebbe mai essere possibile arginare la escalation dei prezzi dell’energia se non con un fronte UE compatto quale quello cui Draghi ha lavorato sin quasi ad assumerne la leadership? Né il Centrodestra dice come riuscirà a conservare la apertura di credito riguadagnata dall’Italia nelle sedi internazionali, né come eviterà i contraccolpi negativi della cancellazione delle riforme realizzate o messe in cantiere dal governo uscente, né con cosa sostituirà i risultati ottenuti e quelli attesi delle politiche adottate dal governo Draghi. Il Centrodestra afferma di voler stare nella Unione Europea e nella Nato, ma questo non basta perché si può stare in Europa come l’Ungheria di Orban (corteggiatissimo da Meloni) ed il Gruppo di Visegrad (amato da Salvini) oppure come Macron; perché si può stare nella Nato come la Turchia di Erdogan o come la Gran Bretagna. Per non parlare delle simpatie per Putin (e per Trump) assai diffuse nello stesso Centrodestra. Al momento, il “no” alla “agenda Draghi”, che resta legittimo, è pieno di equivoci e di lacune, ed è pieno di incubi per chi desidera che l’Italia resti una “società aperta”, una poliarchia locale dentro una poliarchia globale (per usare i termini della Caritas in veritate di Benedetto XVI). Dal punto di vista programmatico, per quello che è dato vedere oggi, le elezioni del 25 Settembre saranno un referendum sulla “agenda Draghi”: Terzo Polo a favore della “agenda Draghi” e Centrodestra contro la ”agenda Draghi”.

Temi locali nel dibattito nazionale sulle elezioni?

Ha senso attendersi che si parli di questioni locali in elezioni politiche nazionali? No e sì. No, non ha senso perché agli umbri, come a tutti gli altri italiani, è chiesto di scegliere su politiche di livello nazionale, a differenza di quanto avviene nelle consultazioni regionali o comunali. Sì, ha senso, se si riesce a mostrare che una questione “locale” non è una questione di rilievo solo “locale”, bensì anche “nazionale” e “globale”.

La questione “Italia centrale”

Negli ultimi anni, per prima la Azione Cattolica di Terni-Narni-Amelia, tante e varie voci autorevoli della vita sociale, economica ed accademica, istituzioni di ricerca come l’AUR di Perugia, testate nazionali come “il Messaggero”, hanno chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che la questione “Italia Centrale” è oggi questione di interesse nazionale e globale e che nei suoi confini prende nuovo vigore la causa umbra e in generale quella della rete di città medie di questa area. Nelle settimane scorse era stato fatto notare anche che la maggior parte dei collegi contendibili è collocata proprio in Italia Centrale e che quindi era interesse dei partiti competere offrendo all’elettorato proposte alternative in materia. Risultato: tutti hanno taciuto. Niente di niente da nessuna delle quattro principali sponde.

La questione cattolici e politica

Anche queste elezioni 2022 sono occasione nella quale si manifesta lo scivolamento in atto nel cattolicesimo italiano, rispetto alla politica e non solo. La offerta politica che abbiamo di fronte mostra come il cattolicesimo italiano sia caratterizzato oggi da un mix di visibilità ed irrilevanza. Meloni, Salvini, Berlusconi, Renzi, Letta e Conte hanno biografie e strategie comunicative in cui certo non si nasconde il riferimento alla religione. Contemporaneamente, non occorre essere teologi per rendersi conto che principi e criteri del magistero sociale della Chiesa, per non parlare dell’eredità del cattolicesimo politico, non hanno gran peso nella selezione delle priorità e delle politiche.

Dibattito elettorale: riferimento inconsistente all'insegnamento della Chiesa

In questo senso non si può non sottolineare la assoluta inconsistenza del riferimento alla dottrina sociale della Chiesa fatto dalla on.le Meloni a Rimini. Senza risalire al Vaticano II ed a Montini, è davvero difficile trovare argomenti a sostegno di una prospettiva “sovranista” e “populista” nel magistero di Giovanni Paolo II o di Benedetto XVI.

Caduta del pensiero cattolico e della formazione dei credenti?

Decenni di desertificazione del tessuto dell’associazionismo laicale cattolico e di sua improvvida sostituzione con le “pastorali” (strutturalmente “clericali”) hanno estirpato le radici che avevano formato generazioni di cattolici alle forme proprie ed alla responsabilità della politica. A questo si è aggiunta una moda ormai dilagante di continuo riposizionamento di cattolici, laici e clero, che non si dà briga di addurre giustificazione alcuna per l’assumere in successione posizioni diversissime sia nella Chiesa che in politica. Se si pensa a quale spazio gli interventi del magistero, a tutti i livelli, davano alle argomentazioni che discutevano, distinguevano o collegavano affermazioni del passato e del presente, ben si comprende quale “sciogliete le righe” produca l’attuale affidarsi non ad argomenti, ma ad emozioni, battute e twitt. Certamente non si aiuta la maturazione nei credenti di una rinnovata coscienza storica, e dunque anche politica, diffondendo lo spontaneismo, premiando l’anti-intellettualismo, abbandonandosi a luoghi comuni. Semmai, il bisogno di disciplina (ascetica ed intellettuale), di formazione e di confronto nel discernimento, il bisogno di apostolato dei laici (e non di “pastorali”), di associazionismo laicale ecclesiale (piuttosto che di uffici di curia e di laici ridotti ad “operatori pastorali”) è oggi più grande di ieri.]]>
25 aprile. I cattolici nelle Resistenze europee https://www.lavoce.it/25-aprile-i-cattolici-nelle-resistenze-europee/ Mon, 25 Apr 2022 16:40:11 +0000 https://www.lavoce.it/?p=66399 25 aprile, i cattolici nelle resistenze partigiane

Scrivere una storia comparata della presenza dei cattolici nelle Resistenze dei vari Paesi europei: un’impresa complessa, cui si è dedicato a lungo Giorgio Vecchio, già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Parma, presidente del Comitato scientifico dell’Istituto Alcide Cervi e di quello della Fondazione Don Primo Mazzolari. Vecchio ha speso anni di studio sulla Resistenza in Italia, con una specifica attenzione al contributo dei cattolici. Ora vede la luce, alla vigilia del 25 aprile, Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee (Ed. Viella). Un volume basato su un’ampia storiografia in più lingue e sulla rilettura della stampa clandestina, oltre che di svariate testimonianze: ne emergono le vicende di Paesi come Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, e naturalmente Italia. Professore, la Resistenza, anzi le Resistenze sono state studiate e raccontate dai primi anni del dopoguerra fino a oggi. Quale la specificità di questo suo libro? È vero, possediamo biblioteche intere sulle diverse forme di Resistenza contro l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. Però, quasi tutte non superano i rispettivi confini nazionali. In più, esistono gli ostacoli linguistici. Io mi sono concentrato sul comportamento dei cattolici e sulle loro scelte resistenziali. Per questo motivo ho considerato unitariamente i Paesi con una consistente o maggioritaria presenza di popolazione cattolica: quelli dell’Europa occidentale (Francia, Belgio, Paesi Bassi) e dell’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia). A essi ho aggiunto l’Italia, ma anche Germania e Austria, dove la Resistenza antinazista non ha avuto per lo più risvolti armati, ma si è mossa sul piano politico e morale. È possibile, storiograficamente, “comparare” le forze resistenziali al nazi-fascismo che hanno operato nei diversi Paesi europei? La comparazione è sempre possibile e però deve tener conto di molti fattori. Anzitutto un fattore cronologico, determinato dalle fasi dell’occupazione tedesca: la Polonia è invasa nel 1939, l’Europa occidentale nel 1940, l’Urss nel 1941, l’Italia nel 1943… Esiste poi una cronologia resistenziale differente: i polacchi cercano di organizzare subito uno Stato clandestino, di straordinario rilievo; in Francia, Belgio e Paesi Bassi bisogna aspettare la svolta del 1942-1943, quando l’imposizione del lavoro obbligatorio nelle fabbriche tedesche impone di scegliere tra il sostegno diretto e personale al nemico o il passaggio alla clandestinità. In Italia, la Resistenza inizia con l’8 settembre 1943. Bisogna poi considerare i differenti comportamenti dei tedeschi, determinati da motivi razziali: l’occupazione è molto soft in Danimarca e inizialmente anche in Olanda e nelle Fiandre, mentre è spietata in Polonia e poi in Urss dove assume connotati di snazionalizzazione e di sterminio. I nazisti, inoltre, variano da politiche che lasciano vivere le strutture dello Stato esistente ad altre di diretta occupazione militare, mentre tentano altrove la strada dei governi “fantoccio”: la repubblica di Vichy in Francia, la Repubblica sociale italiana, il regime di mons. Tiso in Slovacchia o quello di Pavelić in Croazia. Cattolici e Resistenza in Europa, il tema specifico di questa ricerca: quali le motivazioni che spinsero ad opporsi al nazismo? Le motivazioni sono diverse e muovono per lo più dalla comprensione del pericolo del nazismo, anche se in tutti i Paesi occupati esiste una componente cattolica, fortunatamente marginale, che ritiene possibile una convivenza positiva con il nazismo. Invece, i cattolici più avvertiti ritengono che ciò è impossibile e contrario alla fede. Molti di loro hanno studiato a fondo l’enciclica di Pio XI del 1937, Mit brennender Sorge, e sono consapevoli dei pericoli. Penso in particolare al gruppo di gesuiti, tra cui il padre de Lubac, e di laici che in Francia dà vita ai “Cahiers du Témoignage chrétien”, che sono quaderni monografici ricchissimi di documentazione e di “contro-informazione”. La motivazione – diciamo così – religioso-morale è poi rafforzata dai convincimenti patriottici e da quelli democratici, che una parte dei cattolici europei possiede. Nel libro lei solleva la questione dell’uso delle armi: perché? Perché contesto le letture che sono state fatte negli ultimi decenni. Sommariamente, dico questo: dapprima la Resistenza è stata interpretata come un atteggiamento esclusivamente armato e a larga guida comunista; poi si sono rivalutate le forme di Resistenza “civile” e “non armata” (per esempio con l’opera di salvataggio di ebrei e perseguitati). Al punto, però, che questa seconda interpretazione – molto consona per i cattolici – ha confinato nel limbo le forme di lotta armata.In verità, i cattolici della prima metà del Novecento erano stati tutti educati all’uso delle armi. La dottrina della “guerra giusta” era pacificamente accettata e, semmai, ogni Stato e ogni episcopato la volgeva a proprio vantaggio. Perciò non esistevano e non potevano esistere forme di non-violenza o di obiezione di coscienza. Non è un caso che opposizioni del genere si siano sviluppate all’interno del Reich, dove una Resistenza armata contro Hitler era impensabile. Non solo i ragazzi della Rosa Bianca, ma anche preti come Max Josef Metzger – che uomo straordinario! – o laici come i beati Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser ci hanno lasciato un’eredità inestimabile. Il vero problema di coscienza, allora, non era quello sull’uso delle armi, ma sulla liceità o meno di usarle in mancanza di un’autorità politica legittima. Ciò vale soprattutto per gli italiani e per i francesi, mentre altrove l’esistenza di un governo clandestino o in esilio non poneva questo problema. Anche figure leggendarie (e mitizzate) come Teresio Olivelli le armi le usavano o, quanto meno, le raccoglievano per farle usare da altri. Mi viene da sorridere, in questi giorni, nel pensare che Olivelli dirigeva i tiri dei cannoni italiani per uccidere i nemici russi: ovviamente lo ricordo come un’amara battuta, visto che allora era l’Italia il Paese aggressore. Aggiungo ancora che, in tutta l’Europa occupata, conventi e canoniche nascondevano armi, senza porsi troppi scrupoli morali. C’è una “specificità italiana”, e del cattolicesimo italiano, nella vicenda resistenziale? La specificità è data dalla nostra storia: quella appunto di uno Stato aggressore (l’elenco dei Paesi che abbiamo aggredito è bello lungo…), sconfitto sul campo e poi soggetto a un brusco cambio di regime e a una duplice occupazione straniera. La presenza cattolica nella Resistenza italiana è molto più vasta e numerosa di quel che di solito si pensa: paghiamo il prezzo di troppe rimozioni degli stessi cattolici e di troppi tentativi monopolistici da parte soprattutto comunista. Esistono ampie aree del Paese dove le formazioni cattoliche erano predominanti, mescolandosi magari con resistenti provenienti dal Regio Esercito, specie dai reparti alpini. Bisogna anche uscire dagli schematismi: nelle stesse brigate Garibaldi esistevano comandanti marcatamente cattolici (Aldo Gastaldi “Bisagno” in Liguria o Luigi Pierobon “Dante” in Veneto, per dirne solo due).Le differenze tra cattolici e comunisti emergevano – non solo in Italia – nelle modalità di conduzione della lotta armata, nel maggior o minore grado di ferocia da usare o nella valutazione dei rischi di coinvolgimento della popolazione civile. La formula fortunata dei “ribelli per amore” è però stata spesso distorta, quasi che i cattolici partigiani non volessero usare le armi. Identificava invece un atteggiamento diverso nei confronti del nemico, che andava combattuto, ma non odiato e, se possibile, salvato, oltre che un riferimento alle motivazioni anzitutto morali della Resistenza, prima che politiche.

Gianni Borsa (Fonte: Agensir)

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25 aprile, i cattolici nelle resistenze partigiane

Scrivere una storia comparata della presenza dei cattolici nelle Resistenze dei vari Paesi europei: un’impresa complessa, cui si è dedicato a lungo Giorgio Vecchio, già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Parma, presidente del Comitato scientifico dell’Istituto Alcide Cervi e di quello della Fondazione Don Primo Mazzolari. Vecchio ha speso anni di studio sulla Resistenza in Italia, con una specifica attenzione al contributo dei cattolici. Ora vede la luce, alla vigilia del 25 aprile, Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee (Ed. Viella). Un volume basato su un’ampia storiografia in più lingue e sulla rilettura della stampa clandestina, oltre che di svariate testimonianze: ne emergono le vicende di Paesi come Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, e naturalmente Italia. Professore, la Resistenza, anzi le Resistenze sono state studiate e raccontate dai primi anni del dopoguerra fino a oggi. Quale la specificità di questo suo libro? È vero, possediamo biblioteche intere sulle diverse forme di Resistenza contro l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. Però, quasi tutte non superano i rispettivi confini nazionali. In più, esistono gli ostacoli linguistici. Io mi sono concentrato sul comportamento dei cattolici e sulle loro scelte resistenziali. Per questo motivo ho considerato unitariamente i Paesi con una consistente o maggioritaria presenza di popolazione cattolica: quelli dell’Europa occidentale (Francia, Belgio, Paesi Bassi) e dell’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia). A essi ho aggiunto l’Italia, ma anche Germania e Austria, dove la Resistenza antinazista non ha avuto per lo più risvolti armati, ma si è mossa sul piano politico e morale. È possibile, storiograficamente, “comparare” le forze resistenziali al nazi-fascismo che hanno operato nei diversi Paesi europei? La comparazione è sempre possibile e però deve tener conto di molti fattori. Anzitutto un fattore cronologico, determinato dalle fasi dell’occupazione tedesca: la Polonia è invasa nel 1939, l’Europa occidentale nel 1940, l’Urss nel 1941, l’Italia nel 1943… Esiste poi una cronologia resistenziale differente: i polacchi cercano di organizzare subito uno Stato clandestino, di straordinario rilievo; in Francia, Belgio e Paesi Bassi bisogna aspettare la svolta del 1942-1943, quando l’imposizione del lavoro obbligatorio nelle fabbriche tedesche impone di scegliere tra il sostegno diretto e personale al nemico o il passaggio alla clandestinità. In Italia, la Resistenza inizia con l’8 settembre 1943. Bisogna poi considerare i differenti comportamenti dei tedeschi, determinati da motivi razziali: l’occupazione è molto soft in Danimarca e inizialmente anche in Olanda e nelle Fiandre, mentre è spietata in Polonia e poi in Urss dove assume connotati di snazionalizzazione e di sterminio. I nazisti, inoltre, variano da politiche che lasciano vivere le strutture dello Stato esistente ad altre di diretta occupazione militare, mentre tentano altrove la strada dei governi “fantoccio”: la repubblica di Vichy in Francia, la Repubblica sociale italiana, il regime di mons. Tiso in Slovacchia o quello di Pavelić in Croazia. Cattolici e Resistenza in Europa, il tema specifico di questa ricerca: quali le motivazioni che spinsero ad opporsi al nazismo? Le motivazioni sono diverse e muovono per lo più dalla comprensione del pericolo del nazismo, anche se in tutti i Paesi occupati esiste una componente cattolica, fortunatamente marginale, che ritiene possibile una convivenza positiva con il nazismo. Invece, i cattolici più avvertiti ritengono che ciò è impossibile e contrario alla fede. Molti di loro hanno studiato a fondo l’enciclica di Pio XI del 1937, Mit brennender Sorge, e sono consapevoli dei pericoli. Penso in particolare al gruppo di gesuiti, tra cui il padre de Lubac, e di laici che in Francia dà vita ai “Cahiers du Témoignage chrétien”, che sono quaderni monografici ricchissimi di documentazione e di “contro-informazione”. La motivazione – diciamo così – religioso-morale è poi rafforzata dai convincimenti patriottici e da quelli democratici, che una parte dei cattolici europei possiede. Nel libro lei solleva la questione dell’uso delle armi: perché? Perché contesto le letture che sono state fatte negli ultimi decenni. Sommariamente, dico questo: dapprima la Resistenza è stata interpretata come un atteggiamento esclusivamente armato e a larga guida comunista; poi si sono rivalutate le forme di Resistenza “civile” e “non armata” (per esempio con l’opera di salvataggio di ebrei e perseguitati). Al punto, però, che questa seconda interpretazione – molto consona per i cattolici – ha confinato nel limbo le forme di lotta armata.In verità, i cattolici della prima metà del Novecento erano stati tutti educati all’uso delle armi. La dottrina della “guerra giusta” era pacificamente accettata e, semmai, ogni Stato e ogni episcopato la volgeva a proprio vantaggio. Perciò non esistevano e non potevano esistere forme di non-violenza o di obiezione di coscienza. Non è un caso che opposizioni del genere si siano sviluppate all’interno del Reich, dove una Resistenza armata contro Hitler era impensabile. Non solo i ragazzi della Rosa Bianca, ma anche preti come Max Josef Metzger – che uomo straordinario! – o laici come i beati Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser ci hanno lasciato un’eredità inestimabile. Il vero problema di coscienza, allora, non era quello sull’uso delle armi, ma sulla liceità o meno di usarle in mancanza di un’autorità politica legittima. Ciò vale soprattutto per gli italiani e per i francesi, mentre altrove l’esistenza di un governo clandestino o in esilio non poneva questo problema. Anche figure leggendarie (e mitizzate) come Teresio Olivelli le armi le usavano o, quanto meno, le raccoglievano per farle usare da altri. Mi viene da sorridere, in questi giorni, nel pensare che Olivelli dirigeva i tiri dei cannoni italiani per uccidere i nemici russi: ovviamente lo ricordo come un’amara battuta, visto che allora era l’Italia il Paese aggressore. Aggiungo ancora che, in tutta l’Europa occupata, conventi e canoniche nascondevano armi, senza porsi troppi scrupoli morali. C’è una “specificità italiana”, e del cattolicesimo italiano, nella vicenda resistenziale? La specificità è data dalla nostra storia: quella appunto di uno Stato aggressore (l’elenco dei Paesi che abbiamo aggredito è bello lungo…), sconfitto sul campo e poi soggetto a un brusco cambio di regime e a una duplice occupazione straniera. La presenza cattolica nella Resistenza italiana è molto più vasta e numerosa di quel che di solito si pensa: paghiamo il prezzo di troppe rimozioni degli stessi cattolici e di troppi tentativi monopolistici da parte soprattutto comunista. Esistono ampie aree del Paese dove le formazioni cattoliche erano predominanti, mescolandosi magari con resistenti provenienti dal Regio Esercito, specie dai reparti alpini. Bisogna anche uscire dagli schematismi: nelle stesse brigate Garibaldi esistevano comandanti marcatamente cattolici (Aldo Gastaldi “Bisagno” in Liguria o Luigi Pierobon “Dante” in Veneto, per dirne solo due).Le differenze tra cattolici e comunisti emergevano – non solo in Italia – nelle modalità di conduzione della lotta armata, nel maggior o minore grado di ferocia da usare o nella valutazione dei rischi di coinvolgimento della popolazione civile. La formula fortunata dei “ribelli per amore” è però stata spesso distorta, quasi che i cattolici partigiani non volessero usare le armi. Identificava invece un atteggiamento diverso nei confronti del nemico, che andava combattuto, ma non odiato e, se possibile, salvato, oltre che un riferimento alle motivazioni anzitutto morali della Resistenza, prima che politiche.

Gianni Borsa (Fonte: Agensir)

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Ecco i giorni della Settimana Santa, “cuore” dell’Anno liturgico https://www.lavoce.it/ecco-i-giorni-della-settimana-santa-cuore-dellanno-liturgico/ Sun, 10 Apr 2022 12:04:41 +0000 https://www.lavoce.it/?p=66041 Settimana Santa con Papa Francesco. Processione della domenica delle Palme

Si avvicina la Pasqua del Signore preceduta dalla Settimana Santa e per riflettere su quest’ultima è necessaria una premessa: il mistero di Cristo che celebreremo in questi giorni, attraverso la liturgia viene reso presente ed attuale, pur essendo accaduto “una volta per sempre” (Eb 10, 10); pertanto, tutto il popolo di Dio diviene contemporaneo a quell’accadimento. È per questo che la Settimana Santa diventa per i cristiani di oggi l’incamminarsi con il Messia nel suo ultimo pellegrinaggio verso Gerusalemme per la festa di Pasqua (cfr. Mt 21; Mc 11; Lc 19; Gv 12). Della “Grande settimana”, antico epiteto dato ai giorni che precedono la Pasqua, abbiamo testimonianza da Egeria, donna pellegrina a Gerusalemme nel IV secolo, che nel suo diario di viaggio racconta della liturgia gerosolimitana dalla domenica precedente la Pasqua. Con il passare del tempo i riti celebrati nella Città Santa, dove si potevano ben ripercorrere gli ultimi giorni di vita di Gesù e la sua risurrezione nei luoghi dove si compirono, vennero assunti dalle diverse chiese d’Oriente e d’Occidente.

Oggi nella liturgia

Domenica delle Palme

Così, oggi la Settimana Santa si apre nella Domenica delle Palme. In questo giorno si commemora l’ingresso di Gesù a Gerusalemme attraverso la benedizione dei ramoscelli di ulivo o di palma - possibilmente all’esterno della chiesa - che richiamano le fronde con cui venne accolto Gesù, e viene proclamato il brano evangelico che riporta l’accaduto (Mt 21, 1-11 o Mc 11, 1-10 o Gv 12, 12-16 o Lc 19, 28-40). Segue la processione con la quale si entra in chiesa per celebrare l’eucarestia, ad imitazione della folla che entrò in Gerusalemme al seguito del Cristo. Nella Messa viene poi proclamata la Passione del Signore (Mt 26, 14 - 27, 66 o Mc 14, 1 - 15, 47 o Lc 22, 14 - 23, 56), preludio e anticipazione di ciò che verrà celebrato nel Triduo Pasquale, centro e vertice di tutto l’Anno liturgico.

I primi tre giorni della Settimana santa

Ma prima del Triduo ci sono tre giorni, il lunedì, il martedì ed il mercoledì, nei quali i vangeli letti nella celebrazione eucaristica narrano gli antefatti alla passione (Gv 12, 1-11) e il tradimento di Giuda (Gv 13, 21-33.36-38; Mt 26, 14-25), quasi a dire che è giunto il momento per ogni cristiano di scegliere: seguire nella via dolorosa il Cristo, per passare con lui dalla morte alla vita, o rimanere intrappolati nelle tenebre dell’errore.

Settimana Santa: il Giovedì

Il Giovedì santo con la Messa nella Cena del Signore si celebra l’inizio del sacro Triduo, che troverà la sua conclusione nei Secondi vespri della Domenica di risurrezione ed ha il suo centro nella Veglia pasquale. In questo primo giorno di triduo si fa memoria dell’Ultima Cena, ricordando ritualmente il momento in cui Gesù insieme agli apostoli anticipa nel pasto pasquale il sacrificio della croce. Da questo momento, fino alla Grande veglia pasquale, nella Chiesa non si celebra più l’eucarestia. In questa liturgia, dopo l’omelia, si compie anche il rito della lavanda dei piedi ripreso dal racconto di Giovanni (13,1-15) che viene in questa sede proclamato, nel quale Gesù ammonisce i discepoli affinché facciano lo stesso (cfr. v. 15). Gesù, però, non si riferisce al solo gesto della lavanda ma a tutta la sua vita segnata dalla logica dell’amore agapico che i discepoli di ogni tempo sono chiamati a far propria.

Settimana Santa: il Venerdì

Il cammino prosegue nel Venerdì santo con la commemorazione della passione e morte di Gesù. Nella liturgia della Parola viene proclamata la Passione secondo Giovanni (18,1 - 19, 42). Segue l’adorazione della croce nella quale sia i ministri che il popolo si recano processionalmente verso la croce per genuflettersi o compiere un altro segno di venerazione. Con questo rito viene adorato il segno della salvezza ed al contempo è mostrata la via da seguire: la croce, infatti, rammenta ai cristiani a partecipare, nell’amore verso il prossimo, al sacrificio di Cristo. Solo in questo giorno si innalza una lunga e densa Preghiera universale, rispetto a ciò che si è abituati a fare in ogni celebrazione eucaristica, nella quale quest’anno è eccezionalmente introdotta una preghiera per la pace.

Settimana Santa: il Sabato

Nel Sabato santo, invece, non si celebrerà nessuna liturgia, perché è il giorno del grande silenzio, dell’attesa trepidante, della sosta speranzosa di fronte al sepolcro.

Il culmine della Settimana Santa: la Pasqua del Signore Risorto

Il silenzio viene interrotto nella notte con la Veglia pasquale nella quale attraverso i quattro momenti che la caratterizzano si passa dall’attesa trepidante all’esplosione della gioia della resurrezione.
  • Il primo momento è il “lucernario”, con cui la comunità prende consapevolezza che la tenebra è vinta dalla Luce, che il buio del sepolcro ha ceduto il passo al mirabile splendore della Vita.
  • Segue, poi, la liturgia della Parola. Attraverso una ricchezza di letture i fedeli proclamano e meditano le meraviglie che il Signore ha compiuto per il suo popolo, constatando come egli ha portato a compimento le antiche promesse [le letture sono sette dall’Antico Testamento ed i rispettivi salmi o cantici (Gen 1, 1 - 2, 2 e Sal 32/33; Gen 22, 1-18 e Sal 15/16; Es 14, 15 - 15, 1 e Es 15, 1-6a.17-18; Is 54, 5-14 e Sal 29/30; Is 55, 1-11 e Is 12, 2-16; Bar 3, 9-15.32 - 4, 4 e Sal 18/19; Ez 36, 16-17a.18-28 e Sal 41/42 e 42/43), un brano dalla Lettera ai romani (6, 3-11) e il Vangelo (Mt 28, 1-10 o Mc 16, 1-7 o Lc 24, 1-12)].
  • Il terzo momento è la liturgia battesimale nella quale si benedice l’acqua, si celebrare i battesimi dei fanciulli o i riti di iniziazione cristiana degli adulti, si rinnovano le promesse battesimali ed il popolo viene asperso con l’acqua benedetta.
  • La Veglia poi prosegue con la liturgia eucaristica nella quale il popolo che si nutre di Cristo è riunito in un solo corpo con lui per opera della Spirito Santo.
La comunità cristiana, infine, con la messa del mattino di Pasqua percorre l’ultimo tratto del pellegrinaggio recandosi al sepolcro insieme a Maria di Magdala, Pietro e Giovanni (Gv 20, 1-9) per scoprire con meraviglia che esso è vuoto perché, come ricorda la Sequenza di Pasqua, “morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa”.

Il testo della Sequenza

In italiano Alla vittima pasquale, s'innalzi oggi il sacrificio di lode. L'Agnello ha redento il suo gregge, l'Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre. Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa. «Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?». «La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto, e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti. Cristo, mia speranza, è risorto: precede i suoi in Galilea». Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. In latino Victimae pascháli laudes ímmolent christiáni. Agnus redémit oves: Christus innocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitae mórtuus regnat vivus. Dic nobis, Maria, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis: et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus spes mea: praecédet suos in Galilaéam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére.
L'Inno "Victimae Paschali Laudes", eseguito dalla Cappella Musicale Pontificia "Sistina", diretta da Mons. Giuseppe Liberto, nel novembre 2005. https://www.youtube.com/watch?v=JebnCOkMf8M]]>
Settimana Santa con Papa Francesco. Processione della domenica delle Palme

Si avvicina la Pasqua del Signore preceduta dalla Settimana Santa e per riflettere su quest’ultima è necessaria una premessa: il mistero di Cristo che celebreremo in questi giorni, attraverso la liturgia viene reso presente ed attuale, pur essendo accaduto “una volta per sempre” (Eb 10, 10); pertanto, tutto il popolo di Dio diviene contemporaneo a quell’accadimento. È per questo che la Settimana Santa diventa per i cristiani di oggi l’incamminarsi con il Messia nel suo ultimo pellegrinaggio verso Gerusalemme per la festa di Pasqua (cfr. Mt 21; Mc 11; Lc 19; Gv 12). Della “Grande settimana”, antico epiteto dato ai giorni che precedono la Pasqua, abbiamo testimonianza da Egeria, donna pellegrina a Gerusalemme nel IV secolo, che nel suo diario di viaggio racconta della liturgia gerosolimitana dalla domenica precedente la Pasqua. Con il passare del tempo i riti celebrati nella Città Santa, dove si potevano ben ripercorrere gli ultimi giorni di vita di Gesù e la sua risurrezione nei luoghi dove si compirono, vennero assunti dalle diverse chiese d’Oriente e d’Occidente.

Oggi nella liturgia

Domenica delle Palme

Così, oggi la Settimana Santa si apre nella Domenica delle Palme. In questo giorno si commemora l’ingresso di Gesù a Gerusalemme attraverso la benedizione dei ramoscelli di ulivo o di palma - possibilmente all’esterno della chiesa - che richiamano le fronde con cui venne accolto Gesù, e viene proclamato il brano evangelico che riporta l’accaduto (Mt 21, 1-11 o Mc 11, 1-10 o Gv 12, 12-16 o Lc 19, 28-40). Segue la processione con la quale si entra in chiesa per celebrare l’eucarestia, ad imitazione della folla che entrò in Gerusalemme al seguito del Cristo. Nella Messa viene poi proclamata la Passione del Signore (Mt 26, 14 - 27, 66 o Mc 14, 1 - 15, 47 o Lc 22, 14 - 23, 56), preludio e anticipazione di ciò che verrà celebrato nel Triduo Pasquale, centro e vertice di tutto l’Anno liturgico.

I primi tre giorni della Settimana santa

Ma prima del Triduo ci sono tre giorni, il lunedì, il martedì ed il mercoledì, nei quali i vangeli letti nella celebrazione eucaristica narrano gli antefatti alla passione (Gv 12, 1-11) e il tradimento di Giuda (Gv 13, 21-33.36-38; Mt 26, 14-25), quasi a dire che è giunto il momento per ogni cristiano di scegliere: seguire nella via dolorosa il Cristo, per passare con lui dalla morte alla vita, o rimanere intrappolati nelle tenebre dell’errore.

Settimana Santa: il Giovedì

Il Giovedì santo con la Messa nella Cena del Signore si celebra l’inizio del sacro Triduo, che troverà la sua conclusione nei Secondi vespri della Domenica di risurrezione ed ha il suo centro nella Veglia pasquale. In questo primo giorno di triduo si fa memoria dell’Ultima Cena, ricordando ritualmente il momento in cui Gesù insieme agli apostoli anticipa nel pasto pasquale il sacrificio della croce. Da questo momento, fino alla Grande veglia pasquale, nella Chiesa non si celebra più l’eucarestia. In questa liturgia, dopo l’omelia, si compie anche il rito della lavanda dei piedi ripreso dal racconto di Giovanni (13,1-15) che viene in questa sede proclamato, nel quale Gesù ammonisce i discepoli affinché facciano lo stesso (cfr. v. 15). Gesù, però, non si riferisce al solo gesto della lavanda ma a tutta la sua vita segnata dalla logica dell’amore agapico che i discepoli di ogni tempo sono chiamati a far propria.

Settimana Santa: il Venerdì

Il cammino prosegue nel Venerdì santo con la commemorazione della passione e morte di Gesù. Nella liturgia della Parola viene proclamata la Passione secondo Giovanni (18,1 - 19, 42). Segue l’adorazione della croce nella quale sia i ministri che il popolo si recano processionalmente verso la croce per genuflettersi o compiere un altro segno di venerazione. Con questo rito viene adorato il segno della salvezza ed al contempo è mostrata la via da seguire: la croce, infatti, rammenta ai cristiani a partecipare, nell’amore verso il prossimo, al sacrificio di Cristo. Solo in questo giorno si innalza una lunga e densa Preghiera universale, rispetto a ciò che si è abituati a fare in ogni celebrazione eucaristica, nella quale quest’anno è eccezionalmente introdotta una preghiera per la pace.

Settimana Santa: il Sabato

Nel Sabato santo, invece, non si celebrerà nessuna liturgia, perché è il giorno del grande silenzio, dell’attesa trepidante, della sosta speranzosa di fronte al sepolcro.

Il culmine della Settimana Santa: la Pasqua del Signore Risorto

Il silenzio viene interrotto nella notte con la Veglia pasquale nella quale attraverso i quattro momenti che la caratterizzano si passa dall’attesa trepidante all’esplosione della gioia della resurrezione.
  • Il primo momento è il “lucernario”, con cui la comunità prende consapevolezza che la tenebra è vinta dalla Luce, che il buio del sepolcro ha ceduto il passo al mirabile splendore della Vita.
  • Segue, poi, la liturgia della Parola. Attraverso una ricchezza di letture i fedeli proclamano e meditano le meraviglie che il Signore ha compiuto per il suo popolo, constatando come egli ha portato a compimento le antiche promesse [le letture sono sette dall’Antico Testamento ed i rispettivi salmi o cantici (Gen 1, 1 - 2, 2 e Sal 32/33; Gen 22, 1-18 e Sal 15/16; Es 14, 15 - 15, 1 e Es 15, 1-6a.17-18; Is 54, 5-14 e Sal 29/30; Is 55, 1-11 e Is 12, 2-16; Bar 3, 9-15.32 - 4, 4 e Sal 18/19; Ez 36, 16-17a.18-28 e Sal 41/42 e 42/43), un brano dalla Lettera ai romani (6, 3-11) e il Vangelo (Mt 28, 1-10 o Mc 16, 1-7 o Lc 24, 1-12)].
  • Il terzo momento è la liturgia battesimale nella quale si benedice l’acqua, si celebrare i battesimi dei fanciulli o i riti di iniziazione cristiana degli adulti, si rinnovano le promesse battesimali ed il popolo viene asperso con l’acqua benedetta.
  • La Veglia poi prosegue con la liturgia eucaristica nella quale il popolo che si nutre di Cristo è riunito in un solo corpo con lui per opera della Spirito Santo.
La comunità cristiana, infine, con la messa del mattino di Pasqua percorre l’ultimo tratto del pellegrinaggio recandosi al sepolcro insieme a Maria di Magdala, Pietro e Giovanni (Gv 20, 1-9) per scoprire con meraviglia che esso è vuoto perché, come ricorda la Sequenza di Pasqua, “morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa”.

Il testo della Sequenza

In italiano Alla vittima pasquale, s'innalzi oggi il sacrificio di lode. L'Agnello ha redento il suo gregge, l'Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre. Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa. «Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?». «La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto, e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti. Cristo, mia speranza, è risorto: precede i suoi in Galilea». Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. In latino Victimae pascháli laudes ímmolent christiáni. Agnus redémit oves: Christus innocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitae mórtuus regnat vivus. Dic nobis, Maria, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis: et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus spes mea: praecédet suos in Galilaéam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére.
L'Inno "Victimae Paschali Laudes", eseguito dalla Cappella Musicale Pontificia "Sistina", diretta da Mons. Giuseppe Liberto, nel novembre 2005. https://www.youtube.com/watch?v=JebnCOkMf8M]]>
Missionari: Fides, 22 sono stati uccisi nel mondo nel 2021 https://www.lavoce.it/missionari-fides-22-sono-stati-uccisi-nel-mondo-nel-2021/ Sun, 02 Jan 2022 15:49:29 +0000 https://www.lavoce.it/?p=64316 Missionari uccisi nel 2021

Nell’anno 2021 sono stati uccisi nel mondo 22 missionari. Lo riferisce il consueto dossier diffuso a fine anno dall’agenzia Fides. Si tratta di 13 sacerdoti, un religioso, 2 religiose, 6 laici. “Riguardo alla ripartizione continentale, il numero più elevato si registra in Africa, dove sono stati uccisi 11 missionari (7 sacerdoti, 2 religiose, 2 laici), cui segue l’America, con 7 missionari uccisi (4 sacerdoti, 1 religioso, 2 laici) quindi l’Asia, dove sono stati uccisi 3 missionari (1 sacerdote, 2 laici), e l’Europa, dove è stato ucciso un sacerdote”. Negli ultimi anni – riferisce ancora Fides – sono l’Africa e l’America “ad alternarsi al primo posto di questa tragica classifica. Dal 2000 al 2020, secondo i nostri dati, sono stati uccisi nel mondo 536 missionari”.
L’elenco annuale di Fides ormai da tempo non riguarda solo i missionari ad gentes in senso stretto, “ma cerca di registrare tutti i cristiani cattolici impegnati in qualche modo nell’attività pastorale, morti in modo violento, non espressamente ‘in odio alla fede’”. Per questo si preferisce non usare il termine “martiri”, “se non nel suo significato etimologico di ‘testimoni’, per non entrare in merito al giudizio che la Chiesa potrà eventualmente dare su alcuni di loro”. Il dossier Fides specifica: “Allo stesso modo usiamo il termine ‘missionario’ per tutti i battezzati, consapevoli che ‘in virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario. Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione” (Evangelii gaudium 120).
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Missionari uccisi nel 2021

Nell’anno 2021 sono stati uccisi nel mondo 22 missionari. Lo riferisce il consueto dossier diffuso a fine anno dall’agenzia Fides. Si tratta di 13 sacerdoti, un religioso, 2 religiose, 6 laici. “Riguardo alla ripartizione continentale, il numero più elevato si registra in Africa, dove sono stati uccisi 11 missionari (7 sacerdoti, 2 religiose, 2 laici), cui segue l’America, con 7 missionari uccisi (4 sacerdoti, 1 religioso, 2 laici) quindi l’Asia, dove sono stati uccisi 3 missionari (1 sacerdote, 2 laici), e l’Europa, dove è stato ucciso un sacerdote”. Negli ultimi anni – riferisce ancora Fides – sono l’Africa e l’America “ad alternarsi al primo posto di questa tragica classifica. Dal 2000 al 2020, secondo i nostri dati, sono stati uccisi nel mondo 536 missionari”.
L’elenco annuale di Fides ormai da tempo non riguarda solo i missionari ad gentes in senso stretto, “ma cerca di registrare tutti i cristiani cattolici impegnati in qualche modo nell’attività pastorale, morti in modo violento, non espressamente ‘in odio alla fede’”. Per questo si preferisce non usare il termine “martiri”, “se non nel suo significato etimologico di ‘testimoni’, per non entrare in merito al giudizio che la Chiesa potrà eventualmente dare su alcuni di loro”. Il dossier Fides specifica: “Allo stesso modo usiamo il termine ‘missionario’ per tutti i battezzati, consapevoli che ‘in virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario. Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione” (Evangelii gaudium 120).
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USURA. Storia di chi si trova in situazioni disperate e di chi prova a dare aiuto https://www.lavoce.it/usura-storia/ Mon, 26 Apr 2021 10:38:02 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60336 Calcolatrice e soldi su un tavolo, segno di debiti e usura

Il caso è proprio di questi giorni. Una persona e la sua famiglia nella disperazione più nera. “Questa persona ha un’azienda agraria e ha perso casa e stalla col terremoto del 2016. Ora che è sopraggiunta la pandemia non sa più come andare avanti e si è rivolta alla nostra Fondazione”. A parlare è Paolo Tiecco, volontario presso la Fondazione Umbria contro l’usura Onlus, dove si occupa dell’ascolto di chi chiede aiuto. “Collaboro nella Fondazione da diversi anni, sono addetto alle ‘audizioni’, ovvero al primo incontro con gli assistiti che fino a prima del Covid era in presenza mentre ora è telefonico. Poi porto avanti la pratica presentando la persona presso il Consiglio della Fondazione e proponendo una mia soluzione sulla quale il consiglio delibera”, racconta Tiecco.

Ascolta l'intervista a Paolo Tiecco su Umbria radio

La parte più difficile del suo compito? Rispondere che per quella situazione la Fondazione non può fare molto. “In questi anni di volontariato credo di aver fatto circa 400 audizioni. Da un primo colloquio so già dire se la situazione è idonea ad essere presa in carico e quando non lo è risulta sempre doloroso”.

Negli ultimi giorni Paolo sta portando avanti una pratica speciale, una piccola battaglia per il caso dell’imprenditore agricolo terremotato.

Il caso: le difficoltà di un imprenditore agricolo dopo terremoto e pandemia

“Questa persona, umbra, di circa 40 anni, vive con la sua famiglia in una casetta della Protezione civile e anche il suo bestiame è allocato in stalle provvisorie montate sempre dalla Protezione civile. Ci ha chiamato e come di consueto mi sono fatto raccontare la sua storia, la situazione debitoria e quella patrimoniale”. A questo punto però Paolo ha capito che qualcosa non andava. “Per noi i redditi purtroppo sono un requisito fondamentale in quanto non possiamo regalare soldi, possiamo solo coprire i debiti dell’assistito attraverso un finanziamento che produce una rata e dobbiamo essere certi che questa rata sia sostenibile.

Purtroppo è così, disponiamo di fondi pubblici di cui dobbiamo rendere conto, quindi è normale ci siano delle regole ben precise. Alla fine del colloquio dunque ho dovuto dire a questa persona che sarebbe stato difficile per noi intervenire soprattutto per la mancanza di un reddito”. Il reddito a dire il vero c’è, ma è troppo basso per sostenere una rata. “Ovviamente non abbandoniamo nessuno – ci tiene a precisare Tiecco - , anche quando vediamo che la situazione sembra difficile lasciamo sempre un margine di disponibilità, ci risentiamo”.

In questo caso però la storia non è terminata qui. “Dopo alcuni giorni ci ha chiamato il padre di questo imprenditore agricolo, pregandoci di trovare un modo di agire poiché il figlio, a suo dire, aveva già tentato due volte il suicidio per via della situazione debitoria in cui si trova e adesso stava rischiando di perdere anche i trattori a causa di un contratto di leasing cui questi sono legati”. Paolo quindi ha deciso di invitare il padre dell’assistito nella sede della Fondazione, per capire meglio se questa volta fosse il caso di mandare avanti la pratica comunque.

“Ho riascoltato il racconto di questo padre e ho deciso di provare a fare qualcosa. Proporrò in questi giorni il caso dell’imprenditore agricolo al comitato di valutazione che è un nucleo ristretto di consiglieri nel quale, con la presenza della persona assistita, vengono ripercorse le tappe della sua storia e della sua situazione. Poi il comitato esprime un parere che se favorevole porta la pratica al successivo consiglio direttivo per la delibera. Non sarà facile da gestire ma dovremo trovare un modo”. Paolo in questo caso non è riuscito a dire di no. “Per lo meno vorrei che la responsabilità di dire sì o no fosse condivisa con i consiglieri”.

Come prevenire l'usura

Del Consiglio fanno parte tutti i 17 soci della Fondazione, fra cui la Regione Umbria, i Comuni di Perugia, Gubbio, Terni, Foligno e Città di Castello, tutte le diocesi umbre, Confindustria, Confartigianato e alcuni sindacati come Cisl e Cgil.

“Nell’ultimo anno le storie come questa sono sempre di più, l’onda lunga della crisi partita ben prima della pandemia si fa sentire”, commenta il consigliere di Cisl Francesco Marini.

Oltre all’attività della Fondazione, come prevenire il moltiplicarsi di tali situazioni? “Quest’anno bisognerebbe cristallizzare non solo i debiti, ma anche tutti i pagamenti che non è possibile onorare – afferma Marini - . Ci sono davvero tante persone che, nonostante la cassa integrazione, non riescono a provvedere a tutte le spese e quando anche gli ammortizzatori verranno meno, il rischio usura è elevato”.

Non solo aiuti da parte dello Stato però per prevenire un fenomeno come quello dell’usura. “La prevenzione è fondamentale e necessaria - affermano da Confindustria Umbria - , così come l’educazione alla cultura della legalità. Bisogna intervenire con azioni di sensibilizzazione soprattutto verso le giovani generazioni, specialmente verso gli studenti delle scuole medie superiori, facendo comprendere quanto sia importante un corretto e responsabile uso del denaro”.

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Calcolatrice e soldi su un tavolo, segno di debiti e usura

Il caso è proprio di questi giorni. Una persona e la sua famiglia nella disperazione più nera. “Questa persona ha un’azienda agraria e ha perso casa e stalla col terremoto del 2016. Ora che è sopraggiunta la pandemia non sa più come andare avanti e si è rivolta alla nostra Fondazione”. A parlare è Paolo Tiecco, volontario presso la Fondazione Umbria contro l’usura Onlus, dove si occupa dell’ascolto di chi chiede aiuto. “Collaboro nella Fondazione da diversi anni, sono addetto alle ‘audizioni’, ovvero al primo incontro con gli assistiti che fino a prima del Covid era in presenza mentre ora è telefonico. Poi porto avanti la pratica presentando la persona presso il Consiglio della Fondazione e proponendo una mia soluzione sulla quale il consiglio delibera”, racconta Tiecco.

Ascolta l'intervista a Paolo Tiecco su Umbria radio

La parte più difficile del suo compito? Rispondere che per quella situazione la Fondazione non può fare molto. “In questi anni di volontariato credo di aver fatto circa 400 audizioni. Da un primo colloquio so già dire se la situazione è idonea ad essere presa in carico e quando non lo è risulta sempre doloroso”.

Negli ultimi giorni Paolo sta portando avanti una pratica speciale, una piccola battaglia per il caso dell’imprenditore agricolo terremotato.

Il caso: le difficoltà di un imprenditore agricolo dopo terremoto e pandemia

“Questa persona, umbra, di circa 40 anni, vive con la sua famiglia in una casetta della Protezione civile e anche il suo bestiame è allocato in stalle provvisorie montate sempre dalla Protezione civile. Ci ha chiamato e come di consueto mi sono fatto raccontare la sua storia, la situazione debitoria e quella patrimoniale”. A questo punto però Paolo ha capito che qualcosa non andava. “Per noi i redditi purtroppo sono un requisito fondamentale in quanto non possiamo regalare soldi, possiamo solo coprire i debiti dell’assistito attraverso un finanziamento che produce una rata e dobbiamo essere certi che questa rata sia sostenibile.

Purtroppo è così, disponiamo di fondi pubblici di cui dobbiamo rendere conto, quindi è normale ci siano delle regole ben precise. Alla fine del colloquio dunque ho dovuto dire a questa persona che sarebbe stato difficile per noi intervenire soprattutto per la mancanza di un reddito”. Il reddito a dire il vero c’è, ma è troppo basso per sostenere una rata. “Ovviamente non abbandoniamo nessuno – ci tiene a precisare Tiecco - , anche quando vediamo che la situazione sembra difficile lasciamo sempre un margine di disponibilità, ci risentiamo”.

In questo caso però la storia non è terminata qui. “Dopo alcuni giorni ci ha chiamato il padre di questo imprenditore agricolo, pregandoci di trovare un modo di agire poiché il figlio, a suo dire, aveva già tentato due volte il suicidio per via della situazione debitoria in cui si trova e adesso stava rischiando di perdere anche i trattori a causa di un contratto di leasing cui questi sono legati”. Paolo quindi ha deciso di invitare il padre dell’assistito nella sede della Fondazione, per capire meglio se questa volta fosse il caso di mandare avanti la pratica comunque.

“Ho riascoltato il racconto di questo padre e ho deciso di provare a fare qualcosa. Proporrò in questi giorni il caso dell’imprenditore agricolo al comitato di valutazione che è un nucleo ristretto di consiglieri nel quale, con la presenza della persona assistita, vengono ripercorse le tappe della sua storia e della sua situazione. Poi il comitato esprime un parere che se favorevole porta la pratica al successivo consiglio direttivo per la delibera. Non sarà facile da gestire ma dovremo trovare un modo”. Paolo in questo caso non è riuscito a dire di no. “Per lo meno vorrei che la responsabilità di dire sì o no fosse condivisa con i consiglieri”.

Come prevenire l'usura

Del Consiglio fanno parte tutti i 17 soci della Fondazione, fra cui la Regione Umbria, i Comuni di Perugia, Gubbio, Terni, Foligno e Città di Castello, tutte le diocesi umbre, Confindustria, Confartigianato e alcuni sindacati come Cisl e Cgil.

“Nell’ultimo anno le storie come questa sono sempre di più, l’onda lunga della crisi partita ben prima della pandemia si fa sentire”, commenta il consigliere di Cisl Francesco Marini.

Oltre all’attività della Fondazione, come prevenire il moltiplicarsi di tali situazioni? “Quest’anno bisognerebbe cristallizzare non solo i debiti, ma anche tutti i pagamenti che non è possibile onorare – afferma Marini - . Ci sono davvero tante persone che, nonostante la cassa integrazione, non riescono a provvedere a tutte le spese e quando anche gli ammortizzatori verranno meno, il rischio usura è elevato”.

Non solo aiuti da parte dello Stato però per prevenire un fenomeno come quello dell’usura. “La prevenzione è fondamentale e necessaria - affermano da Confindustria Umbria - , così come l’educazione alla cultura della legalità. Bisogna intervenire con azioni di sensibilizzazione soprattutto verso le giovani generazioni, specialmente verso gli studenti delle scuole medie superiori, facendo comprendere quanto sia importante un corretto e responsabile uso del denaro”.

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Pandemia porta povertà. Dati Cnel e Istat guardando a Next generation https://www.lavoce.it/pandemia-porta-poverta-dati-cnel-e-istat-guardando-a-next-generation/ Thu, 15 Apr 2021 15:36:21 +0000 https://www.lavoce.it/?p=60117

Commercio, trasporti, terziario professionale, alloggio, ristorazione, costruzioni, servizi alla persona, sono settori di attività colpiti con violenza dalla pandemia, anche in Umbria.

Sono giorni particolari quelli che stiamo vivendo: pieni di timore per l’incertezza che ci avvolge, di apprensione per la salute e la stessa nostra vita, e per il domani dei nostri cari, in particolare dei più giovani e dei giovanissimi, e di preoccupazione anche angosciosa, per tanti tra noi, per le difficoltà presenti e future della propria situazione economica.

L'Umbria nel Rapporto Cnel sul lavoro

Per comprendere le dinamiche in corso e quelle prevedibili per il tempo a venire, ci aiutano alcune analisi seriamente condotte da osservatori autorevoli, quali il Rapporto annuale del Cnel sul mercato del lavoro 2020 (scarica il file), e l’indagine Istat sul “benessere equo e sostenibile” (Bes) per il 2020 (vai al sito Istat), entrambi disponibili su Internet per consultazione da parte dei cittadini.

Come mostra il Rapporto Cnel, la pandemia ha colpito con violenza settori di attività fondati sulle relazioni - le più diverse - tra le persone: si tratta di commercio, trasporti, terziario professionale, alloggio, ristorazione, costruzioni, servizi alla persona. Per conseguenza, ha determinato una contrazione degli occupati, delle ore lavorate per occupato, dei redditi disponibili dei lavoratori e delle loro famiglie.

In tal modo l’emergenza sanitaria ha concorso a generare delle disuguaglianze, o a inasprirne alcune che già lacerano il tessuto economico e sociale del Paese: tra settori, colpendo particolarmente i servizi; tra lavoratori, a danno di quelli poco qualificati, con minori livelli di istruzione, e con basse remunerazioni; tra classi di età, a sfavore dei più giovani; tra generi diversi, a svantaggio delle donne; tra territori, con conseguenze negative per le aree più deboli.

Si osservi che l’acuirsi di queste disuguaglianze concorre all’espansione delle povertà, al diffondersi dei processi di impoverimento e alla generazione di tensioni sociali sempre più numerose ed intense. In corrispondenza, si delineano i molteplici e complessi percorsi educativi, formativi, e di intervento normativo, indispensabili per combattere le disuguaglianze.

Dall'Istat la situazione sul “Benessere sostenibile”

Sotto il profilo del benessere economico, analizzato nel Rapporto Istat Bes 2020 (scarica il file) , con un reddito disponibile pro-capite (18.908 euro) già nel 2019 inferiore a quello italiano (19.124) e ancor più nettamente rispetto al dato del Centro Italia (20.061), l’Umbria mostra il deterioramento progressivo della sua condizione economica.

Nel 2020, come stima un’indagine di Demoscopica, si sono accumulati in Umbria 269 milioni di euro di maggiori debiti per famiglie e imprese, con 5.796 famiglie povere in più, e si sono persi 6.448 posti di lavoro (Corriere dell’Umbria, 28/3/2021).

L’analisi Istat del Bes 2020 mostra per l’Umbria valori preoccupanti rispetto a Italia e a Italia centrale, con particolare riguardo all’intensità della ricerca, alla propensione alla brevettazione, al grado di innovazione del sistema produttivo, all’incidenza di imprese con vendite web: tutti aspetti che spingono verso una composizione della domanda di lavoro sbilanciata a favore del lavoro non qualificato, o della sottovalutazione delle competenze degli occupati.

Su questi punti si vedano le recenti note dell'Agenzia Umbria ricerche (Aur) sul digitale, sul mercato del lavoro, e sui caratteri delle imprese umbre. Le direttrici di fondo previste a livello europeo per il Recovery Plan (sanità, giovani, anziani, donne, digitale, innovazione, mobilità, ambiente, conversione ecologica…) sembrano appropriate anche per un rilancio della società e dell’economia dell’Umbria, in grado di valorizzare le sue tradizioni ed eccellenze produttive, e il suo patrimonio naturale e artistico, consolidando e ammodernando il suo sistema produttivo.

Il rilancio dell'Umbria è complesso

La gestione di questo rilancio, la sua governance , potrà essere complessa: potranno essere coinvolti più livelli di governo, europeo, nazionale, regionale, locale, in un intreccio di politiche tra loro integrate (industriali, del lavoro, sociali, ambientali, infrastrutturali), con interconnessioni anche con i programmi delle regioni confinanti con l’Umbria. Cercando sempre di conciliare i criteri di efficienza con criteri di equità e di attenzione alla dignità e alla promozione delle persone. E sviluppando altresì la partecipazione alla formulazione e alla attuazione dei programmi di intervento, ossia coinvolgendo, a fianco delle istituzioni, le forze produttive, quelle sociali, e le organizzazioni della società civile.

In tale direzione, si vedano le schede di progetto Next Generation EU del perugino e del Trasimeno presentate in questi giorni. A favore di questo auspicio si pongono gli indicatori delle relazioni sociali in Umbria, secondo il Rapporto Bes: vitali e ben funzionanti. Solo l’indicatore della fiducia generalizzata ha per l’Umbria un valore assai basso nel contesto italiano.

Al riguardo, sembra opportuno che le autorità e le persone responsabili facciano il massimo per rafforzare nei cittadini questa fiducia.

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Commercio, trasporti, terziario professionale, alloggio, ristorazione, costruzioni, servizi alla persona, sono settori di attività colpiti con violenza dalla pandemia, anche in Umbria.

Sono giorni particolari quelli che stiamo vivendo: pieni di timore per l’incertezza che ci avvolge, di apprensione per la salute e la stessa nostra vita, e per il domani dei nostri cari, in particolare dei più giovani e dei giovanissimi, e di preoccupazione anche angosciosa, per tanti tra noi, per le difficoltà presenti e future della propria situazione economica.

L'Umbria nel Rapporto Cnel sul lavoro

Per comprendere le dinamiche in corso e quelle prevedibili per il tempo a venire, ci aiutano alcune analisi seriamente condotte da osservatori autorevoli, quali il Rapporto annuale del Cnel sul mercato del lavoro 2020 (scarica il file), e l’indagine Istat sul “benessere equo e sostenibile” (Bes) per il 2020 (vai al sito Istat), entrambi disponibili su Internet per consultazione da parte dei cittadini.

Come mostra il Rapporto Cnel, la pandemia ha colpito con violenza settori di attività fondati sulle relazioni - le più diverse - tra le persone: si tratta di commercio, trasporti, terziario professionale, alloggio, ristorazione, costruzioni, servizi alla persona. Per conseguenza, ha determinato una contrazione degli occupati, delle ore lavorate per occupato, dei redditi disponibili dei lavoratori e delle loro famiglie.

In tal modo l’emergenza sanitaria ha concorso a generare delle disuguaglianze, o a inasprirne alcune che già lacerano il tessuto economico e sociale del Paese: tra settori, colpendo particolarmente i servizi; tra lavoratori, a danno di quelli poco qualificati, con minori livelli di istruzione, e con basse remunerazioni; tra classi di età, a sfavore dei più giovani; tra generi diversi, a svantaggio delle donne; tra territori, con conseguenze negative per le aree più deboli.

Si osservi che l’acuirsi di queste disuguaglianze concorre all’espansione delle povertà, al diffondersi dei processi di impoverimento e alla generazione di tensioni sociali sempre più numerose ed intense. In corrispondenza, si delineano i molteplici e complessi percorsi educativi, formativi, e di intervento normativo, indispensabili per combattere le disuguaglianze.

Dall'Istat la situazione sul “Benessere sostenibile”

Sotto il profilo del benessere economico, analizzato nel Rapporto Istat Bes 2020 (scarica il file) , con un reddito disponibile pro-capite (18.908 euro) già nel 2019 inferiore a quello italiano (19.124) e ancor più nettamente rispetto al dato del Centro Italia (20.061), l’Umbria mostra il deterioramento progressivo della sua condizione economica.

Nel 2020, come stima un’indagine di Demoscopica, si sono accumulati in Umbria 269 milioni di euro di maggiori debiti per famiglie e imprese, con 5.796 famiglie povere in più, e si sono persi 6.448 posti di lavoro (Corriere dell’Umbria, 28/3/2021).

L’analisi Istat del Bes 2020 mostra per l’Umbria valori preoccupanti rispetto a Italia e a Italia centrale, con particolare riguardo all’intensità della ricerca, alla propensione alla brevettazione, al grado di innovazione del sistema produttivo, all’incidenza di imprese con vendite web: tutti aspetti che spingono verso una composizione della domanda di lavoro sbilanciata a favore del lavoro non qualificato, o della sottovalutazione delle competenze degli occupati.

Su questi punti si vedano le recenti note dell'Agenzia Umbria ricerche (Aur) sul digitale, sul mercato del lavoro, e sui caratteri delle imprese umbre. Le direttrici di fondo previste a livello europeo per il Recovery Plan (sanità, giovani, anziani, donne, digitale, innovazione, mobilità, ambiente, conversione ecologica…) sembrano appropriate anche per un rilancio della società e dell’economia dell’Umbria, in grado di valorizzare le sue tradizioni ed eccellenze produttive, e il suo patrimonio naturale e artistico, consolidando e ammodernando il suo sistema produttivo.

Il rilancio dell'Umbria è complesso

La gestione di questo rilancio, la sua governance , potrà essere complessa: potranno essere coinvolti più livelli di governo, europeo, nazionale, regionale, locale, in un intreccio di politiche tra loro integrate (industriali, del lavoro, sociali, ambientali, infrastrutturali), con interconnessioni anche con i programmi delle regioni confinanti con l’Umbria. Cercando sempre di conciliare i criteri di efficienza con criteri di equità e di attenzione alla dignità e alla promozione delle persone. E sviluppando altresì la partecipazione alla formulazione e alla attuazione dei programmi di intervento, ossia coinvolgendo, a fianco delle istituzioni, le forze produttive, quelle sociali, e le organizzazioni della società civile.

In tale direzione, si vedano le schede di progetto Next Generation EU del perugino e del Trasimeno presentate in questi giorni. A favore di questo auspicio si pongono gli indicatori delle relazioni sociali in Umbria, secondo il Rapporto Bes: vitali e ben funzionanti. Solo l’indicatore della fiducia generalizzata ha per l’Umbria un valore assai basso nel contesto italiano.

Al riguardo, sembra opportuno che le autorità e le persone responsabili facciano il massimo per rafforzare nei cittadini questa fiducia.

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Giornata della poesia: due millenni di autori cristiani https://www.lavoce.it/giornata-della-poesia-autori-cristiani/ Mon, 22 Mar 2021 16:29:54 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59629 Herman Melville, Giornata della poesia, gli autori cristiani

Con lʼinizio della primavera, 21 marzo, non a caso arriva anche la Giornata mondiale della poesia. Evento lanciato dallʼUnesco nel 1999. Dire poesia significa dire una delle attività umane più ampie e più antiche. Secondo qualche autore, come il filosofo Giambattista Vico, addirittura lʼumanità avrebbe cominciato prima a esprimersi in versi, cioè con suoni ritmici, che in prosa; questʼultima sarebbe derivata da una progressiva banalizzazione di quei ritmi. In questo contesto, restringiamo lʼindagine al campo – pure vastissimo! – della poesia cristiana.

Dalle origini a Dante

I primi inni cristiani si trovano già nel Nuovo Testamento, creati o riportati soprattutto nella Lettera ai Colossesi e in quella agli Efesini e nellʼApocalisse, ma anche altrove. Nei primi secoli dopo Cristo, vari Padri della Chiesa – in Oriente e Occidente – si cimentarono poi nella composizione di poesia a scopo teologico o liturgico.

Ma per noi italiani la poesia religiosa ha un punto di partenza ben chiaro nel Medioevo. Da un lato, la Chiesa ufficiale affidava ad esempio a san Tommaso dʼAquino il compito di scrivere in latino gli inni per la Festa del Corpus Domini. Dallʼaltro, san Francesco componeva il Cantico delle creature come suo testamento spirituale; e un suo seguace, Jacopone da Todi, scriveva “laude” in cui la tensione sacra si abbinava a unʼinedita forza stilistica.

Fino ovviamente ad arrivare alla Divina Commedia di Dante. Lui stesso sottolinea, per il Paradiso, la novità di affrontare argomenti speculativi in rima e per di più in lingua “volgare”. Un illustre precedente di filosofia in versi era stato il De rerum natura di Lucrezio, che però era finito nel dimenticatoio a causa delle sue idee materialiste (Lucrezio era seguace di Epicuro, che lo stesso Alighieri considerava il padre di ogni eresia).

Dal Rinascimento allʼOttocento

Assai significativo che, nel Cinquecento, i due massimi poemi italiani: lʼOrlando furioso di Ariosto e la Gerusalemme liberata di Tasso, abbiano per argomento lo scontro tra cristiani e musulmani. Stesso tema portante nei Lusiadi del poeta portoghese Luiz de Camões. Il rapporto tra le due civiltà mediterranee tuttavia era molto stratificato e variegato, come dimostrano queste stesse opere letterarie.

Giambattista Marino aveva in progetto un poema sulla Gerusalemme distrutta, ossia gli eventi del 70 d.C. Invece ripiegherà sullʼimmenso e “semi-pagano” Adone, che gli costerà la condanna dellʼInquisizione per il suo mix di Sacro ed erotismo. Interessante comunque che lʼunico frammento superstite della Gerusalemme distrutta sia un duetto in cielo tra la Madonna e il Cristo.

In Italia, ancora fino al Settecento si tenterà disperatamente di scrivere un nuovo poema epico cristiano sulla scia del Tasso, con risultati parecchio deludenti. La letteratura cattolica troverà un nuovo apice con Alessandro Manzoni, che però affiderà il suo messaggio ai posteri più attraverso la prosa dei Promessi sposi che la poesia degli Inni sacri.

Sale alla ribalta il mondo anglosassone

Sta di fatto che, per una complessa serie di motivi storici, dal Seicento in poi è il mondo anglosassone a vedere tutto un fiorire di poesia cristiana (protestante) più moderna, rivoluzionaria, spesso profetica. Non notissimo qui da noi, ma caposaldo della letteratura inglese rimane il Paradiso perduto di John Milton, con effetti fino a oggi non solo nel dibattito teologico ma anche sulla cultura popolare, fantascienza inclusa. LʼInghilterra ha un intero filone di poesia metafisica, il cui massimo esponente è stato John Donne.

Tra fine Settecento e inizio Ottocento esplode a Londra il fenomeno William Blake. Praticamente sconosciuto in vita, è diventato unʼicona mondiale a partire dalla controcultura degli anni Sessanta del XX secolo.

Sullʼaltra sponda dellʼOceano, nella seconda metà dellʼOttocento Herman Melville – quello di Moby Dick – prova a rilanciare il poema cristiano con il suo Clarel, racconto di un pellegrinaggio in Terra Santa. Opera però che ancora oggi risulta un prodotto di nicchia.

Facendo una puntatina in Germania, resta incerto quanto sia espressamente cristiana, e quanto no, la poesia di Goethe.

Oggi in Italia

Solo il tempo potrà decidere quali degli autori contemporanei diventeranno dei classici. Nel panorama italiano del Novecento varrà la pena citare almeno lʼafflato religioso – di segno molto diverso – di autori come Giuseppe Ungaretti, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, David Maria Turoldo, Mario Luzi.

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Herman Melville, Giornata della poesia, gli autori cristiani

Con lʼinizio della primavera, 21 marzo, non a caso arriva anche la Giornata mondiale della poesia. Evento lanciato dallʼUnesco nel 1999. Dire poesia significa dire una delle attività umane più ampie e più antiche. Secondo qualche autore, come il filosofo Giambattista Vico, addirittura lʼumanità avrebbe cominciato prima a esprimersi in versi, cioè con suoni ritmici, che in prosa; questʼultima sarebbe derivata da una progressiva banalizzazione di quei ritmi. In questo contesto, restringiamo lʼindagine al campo – pure vastissimo! – della poesia cristiana.

Dalle origini a Dante

I primi inni cristiani si trovano già nel Nuovo Testamento, creati o riportati soprattutto nella Lettera ai Colossesi e in quella agli Efesini e nellʼApocalisse, ma anche altrove. Nei primi secoli dopo Cristo, vari Padri della Chiesa – in Oriente e Occidente – si cimentarono poi nella composizione di poesia a scopo teologico o liturgico.

Ma per noi italiani la poesia religiosa ha un punto di partenza ben chiaro nel Medioevo. Da un lato, la Chiesa ufficiale affidava ad esempio a san Tommaso dʼAquino il compito di scrivere in latino gli inni per la Festa del Corpus Domini. Dallʼaltro, san Francesco componeva il Cantico delle creature come suo testamento spirituale; e un suo seguace, Jacopone da Todi, scriveva “laude” in cui la tensione sacra si abbinava a unʼinedita forza stilistica.

Fino ovviamente ad arrivare alla Divina Commedia di Dante. Lui stesso sottolinea, per il Paradiso, la novità di affrontare argomenti speculativi in rima e per di più in lingua “volgare”. Un illustre precedente di filosofia in versi era stato il De rerum natura di Lucrezio, che però era finito nel dimenticatoio a causa delle sue idee materialiste (Lucrezio era seguace di Epicuro, che lo stesso Alighieri considerava il padre di ogni eresia).

Dal Rinascimento allʼOttocento

Assai significativo che, nel Cinquecento, i due massimi poemi italiani: lʼOrlando furioso di Ariosto e la Gerusalemme liberata di Tasso, abbiano per argomento lo scontro tra cristiani e musulmani. Stesso tema portante nei Lusiadi del poeta portoghese Luiz de Camões. Il rapporto tra le due civiltà mediterranee tuttavia era molto stratificato e variegato, come dimostrano queste stesse opere letterarie.

Giambattista Marino aveva in progetto un poema sulla Gerusalemme distrutta, ossia gli eventi del 70 d.C. Invece ripiegherà sullʼimmenso e “semi-pagano” Adone, che gli costerà la condanna dellʼInquisizione per il suo mix di Sacro ed erotismo. Interessante comunque che lʼunico frammento superstite della Gerusalemme distrutta sia un duetto in cielo tra la Madonna e il Cristo.

In Italia, ancora fino al Settecento si tenterà disperatamente di scrivere un nuovo poema epico cristiano sulla scia del Tasso, con risultati parecchio deludenti. La letteratura cattolica troverà un nuovo apice con Alessandro Manzoni, che però affiderà il suo messaggio ai posteri più attraverso la prosa dei Promessi sposi che la poesia degli Inni sacri.

Sale alla ribalta il mondo anglosassone

Sta di fatto che, per una complessa serie di motivi storici, dal Seicento in poi è il mondo anglosassone a vedere tutto un fiorire di poesia cristiana (protestante) più moderna, rivoluzionaria, spesso profetica. Non notissimo qui da noi, ma caposaldo della letteratura inglese rimane il Paradiso perduto di John Milton, con effetti fino a oggi non solo nel dibattito teologico ma anche sulla cultura popolare, fantascienza inclusa. LʼInghilterra ha un intero filone di poesia metafisica, il cui massimo esponente è stato John Donne.

Tra fine Settecento e inizio Ottocento esplode a Londra il fenomeno William Blake. Praticamente sconosciuto in vita, è diventato unʼicona mondiale a partire dalla controcultura degli anni Sessanta del XX secolo.

Sullʼaltra sponda dellʼOceano, nella seconda metà dellʼOttocento Herman Melville – quello di Moby Dick – prova a rilanciare il poema cristiano con il suo Clarel, racconto di un pellegrinaggio in Terra Santa. Opera però che ancora oggi risulta un prodotto di nicchia.

Facendo una puntatina in Germania, resta incerto quanto sia espressamente cristiana, e quanto no, la poesia di Goethe.

Oggi in Italia

Solo il tempo potrà decidere quali degli autori contemporanei diventeranno dei classici. Nel panorama italiano del Novecento varrà la pena citare almeno lʼafflato religioso – di segno molto diverso – di autori come Giuseppe Ungaretti, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, David Maria Turoldo, Mario Luzi.

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Otto marzo. Donna, diventa ciò che davvero sei https://www.lavoce.it/otto-marzo-donna-diventa-cio-che-davvero-sei/ Mon, 08 Mar 2021 13:25:04 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59439 Festa della donna 2021. Donna con mascherina in udienza dal Papa

“Donna, diventa ciò che sei” non nel senso nichilistico di Nietzsche, ma nella visione di Ireneo di Lione: “Cristiano, diventa ciò che sei”. Perché, come sostiene Paolo Curtaz: Dio si è fatto uomo perché l’uomo impari a essere uomo.

Nei Vangeli, Gesù ci insegna come la relazione uomo/donna, oltre a essere paritaria, è occasione di edificazione e rivelamento della dignità umana.

Le donne nei Vangeli

Numerosi sono gli episodi nei Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca) in cui Gesù è accanto alle donne. Le donne lo cercano per la guarigione: la donna malata di emorragia uterina ha il coraggio di toccare il Messia sebbene “impura” (Mt 9,18-26); la donna straniera, greca di origini siro-fenicie, quindi pagana, insiste fino a diventare importuna per la guarigione della figlia, e la ottiene (Mt 15,21-28), e quando viene ospitato da Marta e Maria per amicizia, Gesù non esita a correggere Marta, e non per umiliarla, ma per aiutarla a scoprire la parte migliore (Lc 10,38-42). Nel Vangelo troviamo ancora altri episodi che suscitano stupore e indignazione nei religiosi e uomini dell’epoca, e direi anche contemporanei. La samaritana (Gv 4,52) viene incontrata da Gesù al pozzo di Sichem; lui le rivolge la parola, tanto che anche lei si stupisce. Gesù le si rivela, dandole fiducia e provocando il lei il desiderio dell’annuncio. La donna sorpresa in adulterio: Gesù, oltre che salvarle fisicamente la vita, le ridona la dignità dandole “addirittura la Parola”.

“Gesù, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: ‘Donna, dove sono quelli che ti accusavano? Nessuno ti ha condannata?’. Ed ella rispose: ‘Nessuno, Signore’. Gesù allora le disse: ‘Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più’” (Gv 8,1-11). Gesù con Maria, la madre, si mostra un figlio vicino ma non invischiato. Sulla croce la affida a Giovanni: “Donna, ecco tuo figlio” e “figlio, ecco tua madre”(Gv 19,26), mostrando con questo gesto l’affetto e la cura verso la madre.

Proprio alle donne discepole è riservata la prima testimonianza della vittoria di Gesù sulla morte: ciò che umanamente è incredibile è un annuncio affidato alle donne, la cui testimonianza era considerata dagli uomini del tempo giuridicamente non valida. Lui si fa incontrare in una relazione che edifica la dignità della donna, le dà fiducia e spazio, la rende libera. Gesù sembra che dica proprio “donna, diventa ciò che sei”, perché ogni essere umano - uomo o donna che sia - ha bisogno di una relazione per l’edificazione vicendevole. Gregory Bateson dice una mente ha bisogno di un’altra mente per crescere e svilupparsi.

La relazione uomo/donna oggi

Ancora oggi è sempre difficile per una donna conciliare lavoro e famiglia, avere voce nella gerarchia ecclesiastica - anche se con il Sinodo dell’America Latina e Papa Francesco si muove qualche cosa all’interno della Chiesa. La dignità della donna stenta a essere ancora oggi rispettata e considerata; eppure noi nasciamo e cresciamo in un universo fatto di uomini e donne che, malgrado tutto, si curano vicendevolmente, gestiscono, nutrono e interagiscono per tutta la vita, riconoscendo che la vita non è la nostra, altrimenti l’esistenza non potrebbe essere. L’esistenza di molti esseri umani in alcuni casi prevalentemente donne: mi riferisco alla violenza intrafamiliare - viene interrotta in modo violento, barbaro, non umano. Ancora oggi ci sono donne che vengono in terapia dicendo: sono l’ultima ruota del carro, mi sento messa da parte in particolare in famiglia, poco considerata nella coppia. Marito, figli e spesso anche la famiglia di origine di lui svaluta, scredita, sminuisce e denigra le proprie madri / mogli / fidanzate in un modo più o meno sottile e pesante.

A farla da padrone sono il narcisimo e l’insicurezza, con scarsa fiducia in se stessi e nelle proprie capacità e nella dignità dell’altro. Esistono ancora dei pregiudizi patogenici che fondano l’identità di alcune persone, cosicché le relazioni d’amore diventano una dipendenza reciproca.

Quando c'è maltrattamento in famiglia

Colgo l’occasione per aiutare a distinguere tra quando siamo in presenza di maltrattamento all’interno della coppia e conflitto di coppia, che, se ben gestito, può portare a un chiarimento e quindi al prosieguo delle relazioni. Se siamo in presenza di maltrattamento ed è attivo il circolo della violenza: intimidazione, isolamento, svalutazione e/o segregazione, violenza fisica e/o sessuale, l’uomo si può rendere conto, chiedere scusa... ma dura poco (fase della luna di miele), con il ricatto sui figli o ricatti morali ricomincia il circuito. Il maltrattamento è caratterizzato da sopraffazione sistematica, assenza di consenso nella vittima, sottomissione. Il maltrattamento è una strategia per ottenere potere e controllo, che si fonda sulla sottomissione sistematica della vittima da parte di chi agisce tramite comportamenti abusivi, rifiuto del punto di vista altrui, forze impari sia fisiche che psicologiche. Quest’ultimo atteggiamento è basato su calunnie e uso perverso della verità per suscitare sensi di colpa (G. Gifoni).

Conflitto di coppia

A differenza del maltrattamento, il conflitto di coppia è caratterizzato da esito alternato (prevalgono i bisogni dell’uno o dell’altro), rispetto, capacità di immedesimazione, forze pari, consenso da parte di entrambi, assenza di paura, orientamento verso un accordo. È importante dire che in presenza di matrattamento non è possibile fare terapia di coppia, ma ciascuno dei due deve seguire un percorso individuale di consapevolezza.

L’aggressore si deve chiedere se è possibile tollerare la perdita senza che questa significhi annullamento della propria identità. L’uomo ha bisogno di aiuto: ci sono Centri per uomini abusanti che, attraverso percorsi di consapevolezza, ridonano dignità e vita anche in chi “crede di essere nel giusto”. Gli uomini hanno bisogno di aiuto, e deve aumentare in loro la capacità di chiederlo; ci sono professionisti - uomini, e anche donne, se ci si fida - che possono veramente aiutarli a uscire dalla spirale della violenza. Così le donne possono rivolgersi a Centri antiviolenza o professionisti preparati nel territorio, che possono aiutarle a salvarsi. Non ci si può salvare da soli o all’interno di una relazione di dipendenza affettiva, quindi patologica.

Nel caso in cui invece siamo di fronte a un conflitto in cui non c’è violenza fisica né psicologica, si può fare la terapia o mediazione di coppia per una comprensione profonda dell’altro e del senso del proprio legame e/o raggiungere accordi per il benessere dei due, dei figli, e una gestione migliore del patrimonio secondo i bisogni di tutti, in particolare i figli. Quando è necessario, si può fare anche una terapia del divorzio; non per tornare insieme, ma per elaborare il dolore e la delusione conseguente. Quando si vogliono capire le origini della violenza, occorre decisamente abbandonare un modello di causalità individuale (G. Bateson, 1989). Cioè, nel caso della violenza, non siamo di fronte a un raptus, ma è un modello interno alimentato da dinamiche disfunzionali che possono portare a comportamenti dirompenti e nefasti. Chiedere aiuto è la parola d’ordine: singolarmente, se si è in presenza del circolo della violenza; o in maltrattamenti in coppia, se sussistono le caratteristiche descritte.

Maria Luisa Tiberini psicologa-psicoterapeuta specialista in terapia familiare

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Festa della donna 2021. Donna con mascherina in udienza dal Papa

“Donna, diventa ciò che sei” non nel senso nichilistico di Nietzsche, ma nella visione di Ireneo di Lione: “Cristiano, diventa ciò che sei”. Perché, come sostiene Paolo Curtaz: Dio si è fatto uomo perché l’uomo impari a essere uomo.

Nei Vangeli, Gesù ci insegna come la relazione uomo/donna, oltre a essere paritaria, è occasione di edificazione e rivelamento della dignità umana.

Le donne nei Vangeli

Numerosi sono gli episodi nei Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca) in cui Gesù è accanto alle donne. Le donne lo cercano per la guarigione: la donna malata di emorragia uterina ha il coraggio di toccare il Messia sebbene “impura” (Mt 9,18-26); la donna straniera, greca di origini siro-fenicie, quindi pagana, insiste fino a diventare importuna per la guarigione della figlia, e la ottiene (Mt 15,21-28), e quando viene ospitato da Marta e Maria per amicizia, Gesù non esita a correggere Marta, e non per umiliarla, ma per aiutarla a scoprire la parte migliore (Lc 10,38-42). Nel Vangelo troviamo ancora altri episodi che suscitano stupore e indignazione nei religiosi e uomini dell’epoca, e direi anche contemporanei. La samaritana (Gv 4,52) viene incontrata da Gesù al pozzo di Sichem; lui le rivolge la parola, tanto che anche lei si stupisce. Gesù le si rivela, dandole fiducia e provocando il lei il desiderio dell’annuncio. La donna sorpresa in adulterio: Gesù, oltre che salvarle fisicamente la vita, le ridona la dignità dandole “addirittura la Parola”.

“Gesù, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: ‘Donna, dove sono quelli che ti accusavano? Nessuno ti ha condannata?’. Ed ella rispose: ‘Nessuno, Signore’. Gesù allora le disse: ‘Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più’” (Gv 8,1-11). Gesù con Maria, la madre, si mostra un figlio vicino ma non invischiato. Sulla croce la affida a Giovanni: “Donna, ecco tuo figlio” e “figlio, ecco tua madre”(Gv 19,26), mostrando con questo gesto l’affetto e la cura verso la madre.

Proprio alle donne discepole è riservata la prima testimonianza della vittoria di Gesù sulla morte: ciò che umanamente è incredibile è un annuncio affidato alle donne, la cui testimonianza era considerata dagli uomini del tempo giuridicamente non valida. Lui si fa incontrare in una relazione che edifica la dignità della donna, le dà fiducia e spazio, la rende libera. Gesù sembra che dica proprio “donna, diventa ciò che sei”, perché ogni essere umano - uomo o donna che sia - ha bisogno di una relazione per l’edificazione vicendevole. Gregory Bateson dice una mente ha bisogno di un’altra mente per crescere e svilupparsi.

La relazione uomo/donna oggi

Ancora oggi è sempre difficile per una donna conciliare lavoro e famiglia, avere voce nella gerarchia ecclesiastica - anche se con il Sinodo dell’America Latina e Papa Francesco si muove qualche cosa all’interno della Chiesa. La dignità della donna stenta a essere ancora oggi rispettata e considerata; eppure noi nasciamo e cresciamo in un universo fatto di uomini e donne che, malgrado tutto, si curano vicendevolmente, gestiscono, nutrono e interagiscono per tutta la vita, riconoscendo che la vita non è la nostra, altrimenti l’esistenza non potrebbe essere. L’esistenza di molti esseri umani in alcuni casi prevalentemente donne: mi riferisco alla violenza intrafamiliare - viene interrotta in modo violento, barbaro, non umano. Ancora oggi ci sono donne che vengono in terapia dicendo: sono l’ultima ruota del carro, mi sento messa da parte in particolare in famiglia, poco considerata nella coppia. Marito, figli e spesso anche la famiglia di origine di lui svaluta, scredita, sminuisce e denigra le proprie madri / mogli / fidanzate in un modo più o meno sottile e pesante.

A farla da padrone sono il narcisimo e l’insicurezza, con scarsa fiducia in se stessi e nelle proprie capacità e nella dignità dell’altro. Esistono ancora dei pregiudizi patogenici che fondano l’identità di alcune persone, cosicché le relazioni d’amore diventano una dipendenza reciproca.

Quando c'è maltrattamento in famiglia

Colgo l’occasione per aiutare a distinguere tra quando siamo in presenza di maltrattamento all’interno della coppia e conflitto di coppia, che, se ben gestito, può portare a un chiarimento e quindi al prosieguo delle relazioni. Se siamo in presenza di maltrattamento ed è attivo il circolo della violenza: intimidazione, isolamento, svalutazione e/o segregazione, violenza fisica e/o sessuale, l’uomo si può rendere conto, chiedere scusa... ma dura poco (fase della luna di miele), con il ricatto sui figli o ricatti morali ricomincia il circuito. Il maltrattamento è caratterizzato da sopraffazione sistematica, assenza di consenso nella vittima, sottomissione. Il maltrattamento è una strategia per ottenere potere e controllo, che si fonda sulla sottomissione sistematica della vittima da parte di chi agisce tramite comportamenti abusivi, rifiuto del punto di vista altrui, forze impari sia fisiche che psicologiche. Quest’ultimo atteggiamento è basato su calunnie e uso perverso della verità per suscitare sensi di colpa (G. Gifoni).

Conflitto di coppia

A differenza del maltrattamento, il conflitto di coppia è caratterizzato da esito alternato (prevalgono i bisogni dell’uno o dell’altro), rispetto, capacità di immedesimazione, forze pari, consenso da parte di entrambi, assenza di paura, orientamento verso un accordo. È importante dire che in presenza di matrattamento non è possibile fare terapia di coppia, ma ciascuno dei due deve seguire un percorso individuale di consapevolezza.

L’aggressore si deve chiedere se è possibile tollerare la perdita senza che questa significhi annullamento della propria identità. L’uomo ha bisogno di aiuto: ci sono Centri per uomini abusanti che, attraverso percorsi di consapevolezza, ridonano dignità e vita anche in chi “crede di essere nel giusto”. Gli uomini hanno bisogno di aiuto, e deve aumentare in loro la capacità di chiederlo; ci sono professionisti - uomini, e anche donne, se ci si fida - che possono veramente aiutarli a uscire dalla spirale della violenza. Così le donne possono rivolgersi a Centri antiviolenza o professionisti preparati nel territorio, che possono aiutarle a salvarsi. Non ci si può salvare da soli o all’interno di una relazione di dipendenza affettiva, quindi patologica.

Nel caso in cui invece siamo di fronte a un conflitto in cui non c’è violenza fisica né psicologica, si può fare la terapia o mediazione di coppia per una comprensione profonda dell’altro e del senso del proprio legame e/o raggiungere accordi per il benessere dei due, dei figli, e una gestione migliore del patrimonio secondo i bisogni di tutti, in particolare i figli. Quando è necessario, si può fare anche una terapia del divorzio; non per tornare insieme, ma per elaborare il dolore e la delusione conseguente. Quando si vogliono capire le origini della violenza, occorre decisamente abbandonare un modello di causalità individuale (G. Bateson, 1989). Cioè, nel caso della violenza, non siamo di fronte a un raptus, ma è un modello interno alimentato da dinamiche disfunzionali che possono portare a comportamenti dirompenti e nefasti. Chiedere aiuto è la parola d’ordine: singolarmente, se si è in presenza del circolo della violenza; o in maltrattamenti in coppia, se sussistono le caratteristiche descritte.

Maria Luisa Tiberini psicologa-psicoterapeuta specialista in terapia familiare

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Alcune idee per efficaci politiche di contrasto alla povertà https://www.lavoce.it/alcune-idee-per-efficaci-politiche-di-contrasto-alla-poverta/ Fri, 05 Mar 2021 06:00:24 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59416

Con la pandemia da Covid-19 la povertà ha confermato la sua natura di fenomeno complesso e pervasivo, legato strettamente alle dinamiche del sistema, quindi sensibile agli shock da cui questo è colpito, e dipendente dalle caratteristiche strutturali che lo connotano. La crisi è in primo luogo sanitaria, ma produce conseguenze drammatiche sull’economia, sull’occupazione, sull’intera società. Sono colpite massicciamente le attività produttive cosiddette (ma discutibilmente) “non essenziali”: turismo, cultura, pubblici esercizi, commercio al dettaglio, servizi alle persone. E in corrispondenza, le categorie di commercianti, artigiani, professionisti, partite Iva, collaboratori, con pesanti cadute di reddito e di occupazione. Specificamente, tra i lavoratori più colpiti figurano quelli con contratto a tempo determinato (tanto più se vicini alle scadenze), i lavoratori con basse qualifiche (con maggiori difficoltà ad applicare lo smart working), i lavoratori autonomi, atipici, stagionali (D. Mesini, L’aumento delle disuguaglianze in tempo di pandemia, welforum.it, 11/2/2021).

Crisi che aumenta le disuguaglianze

La pandemia tende dunque a produrre nuovi scarti e ad accrescere le preesistenti disuguaglianze, a loro volta generatrici di nuove povertà e di incrementi delle povertà esistenti. Le misure tampone introdotte dal Governo a beneficio di specifiche categorie (Cig, blocco dei licenziamenti, bonus) acuiscono le disuguaglianze tra i lavoratori, in ragione del diverso grado di protezione di cui questi godono (per alcuni dati per l’Umbria, vedi E. Tondini - M. Casavecchia, Coronavirus, cassa integrazione, smart working, Aur Focus, 28/1/2021) . Quanto al Reddito di cittadinanza, attuale misura più importante in Italia contro la povertà, così com’è formulato, non intercetta tutti i bisognosi (3 milioni e 735 mila percettori nel 2020, ma i poveri assoluti sarebbero più del doppio, secondo alcune stime) per mancanza di informazioni, o vergogna, o rifiuto di controlli e condizionalità; né protegge da blocchi improvvisi dell’economia, per la complessità e la rigidità delle procedure di accesso. Né il Reddito di emergenza può porre adeguato rimedio. Per la pandemia è peggiorata anche la situazione delle donne, penalizzate dalla sospensione dei servizi educativi per l’infanzia, e delle attività didattiche nelle scuole. Molto preoccupanti anche le conseguenze sui bambini e sui ragazzi: il riferimento è alle disuguaglianze in termini di opportunità di accesso all’istruzione, con espansione di povertà educativa e dispersione scolastica. Si accentuano anche le fragilità di anziani e disabili, e peggiora al contempo la situazione dei senza fissa dimora.

Serve azione integrata

Si osservi che un’azione di contrasto alla povertà deve compiersi lungo più piani. Da un lato deve erogare sussidi e sostegni immediati per garantire una vita dignitosa a chi si trova in grave difficoltà. Ma deve anche assicurare a questi la formazione delle conoscenze e delle capacità per avviare un’uscita autonoma dalla situazione di indigenza. In una visione ampia, dovrebbe altresì contrastare le disuguaglianze esistenti, ed eventuali processi che portino all’impoverimento di determinate fasce di popolazione. E in questa direzione dovrebbe impegnarsi a superare le criticità strutturali che ne sono all’origine : si pensi ai caratteri del mercato del lavoro, che generano attualmente tali difficoltà sotto la spinta degli effetti della pandemia. Si tratta dunque di un’azione complessa, composta di più politiche tra loro integrate, che si svolge lungo diversi orizzonti temporali, di breve o brevissimo termine, ma anche di medio e lungo periodo.

La Caritas di Perugia

Anche l’azione della Caritas diocesana di Perugia si svolge lungo più piani: a fianco dell’erogazione di beni, servizi e sussidi per contenere le difficoltà del presente, interviene per promuovere formazione professionale e inserimento lavorativo, per assicurare una maggiore efficacia della didattica, per favorire lo sviluppo della protezione civile universale, per sviluppare le capacità degli anziani… È chiaro come una politica efficace contro la povertà si basi sul ricorso razionale ad un complesso organico di politiche tra loro integrate, e debba perciò fondarsi su un approccio programmatico e progettuale (da auspicare anche per l’Umbria), con adeguato coinvolgimento di operatori e cittadini. A spingere verso innovazioni e politiche sociali sempre nuove e migliori, a livello territoriale, possono contribuire il processo e il percorso di co-progettazione, in corso in molte aree del nostro Paese, che istituzioni ed enti della società civile possono e devono perseguire, così da mettere in rete le energie del Paese, combinando competenze ed esperienze complementari, e rispondendo a una domanda crescente di partecipazione (L. Becchetti - A. Moretti,  Avvenire, 23/2/2021).]]>

Con la pandemia da Covid-19 la povertà ha confermato la sua natura di fenomeno complesso e pervasivo, legato strettamente alle dinamiche del sistema, quindi sensibile agli shock da cui questo è colpito, e dipendente dalle caratteristiche strutturali che lo connotano. La crisi è in primo luogo sanitaria, ma produce conseguenze drammatiche sull’economia, sull’occupazione, sull’intera società. Sono colpite massicciamente le attività produttive cosiddette (ma discutibilmente) “non essenziali”: turismo, cultura, pubblici esercizi, commercio al dettaglio, servizi alle persone. E in corrispondenza, le categorie di commercianti, artigiani, professionisti, partite Iva, collaboratori, con pesanti cadute di reddito e di occupazione. Specificamente, tra i lavoratori più colpiti figurano quelli con contratto a tempo determinato (tanto più se vicini alle scadenze), i lavoratori con basse qualifiche (con maggiori difficoltà ad applicare lo smart working), i lavoratori autonomi, atipici, stagionali (D. Mesini, L’aumento delle disuguaglianze in tempo di pandemia, welforum.it, 11/2/2021).

Crisi che aumenta le disuguaglianze

La pandemia tende dunque a produrre nuovi scarti e ad accrescere le preesistenti disuguaglianze, a loro volta generatrici di nuove povertà e di incrementi delle povertà esistenti. Le misure tampone introdotte dal Governo a beneficio di specifiche categorie (Cig, blocco dei licenziamenti, bonus) acuiscono le disuguaglianze tra i lavoratori, in ragione del diverso grado di protezione di cui questi godono (per alcuni dati per l’Umbria, vedi E. Tondini - M. Casavecchia, Coronavirus, cassa integrazione, smart working, Aur Focus, 28/1/2021) . Quanto al Reddito di cittadinanza, attuale misura più importante in Italia contro la povertà, così com’è formulato, non intercetta tutti i bisognosi (3 milioni e 735 mila percettori nel 2020, ma i poveri assoluti sarebbero più del doppio, secondo alcune stime) per mancanza di informazioni, o vergogna, o rifiuto di controlli e condizionalità; né protegge da blocchi improvvisi dell’economia, per la complessità e la rigidità delle procedure di accesso. Né il Reddito di emergenza può porre adeguato rimedio. Per la pandemia è peggiorata anche la situazione delle donne, penalizzate dalla sospensione dei servizi educativi per l’infanzia, e delle attività didattiche nelle scuole. Molto preoccupanti anche le conseguenze sui bambini e sui ragazzi: il riferimento è alle disuguaglianze in termini di opportunità di accesso all’istruzione, con espansione di povertà educativa e dispersione scolastica. Si accentuano anche le fragilità di anziani e disabili, e peggiora al contempo la situazione dei senza fissa dimora.

Serve azione integrata

Si osservi che un’azione di contrasto alla povertà deve compiersi lungo più piani. Da un lato deve erogare sussidi e sostegni immediati per garantire una vita dignitosa a chi si trova in grave difficoltà. Ma deve anche assicurare a questi la formazione delle conoscenze e delle capacità per avviare un’uscita autonoma dalla situazione di indigenza. In una visione ampia, dovrebbe altresì contrastare le disuguaglianze esistenti, ed eventuali processi che portino all’impoverimento di determinate fasce di popolazione. E in questa direzione dovrebbe impegnarsi a superare le criticità strutturali che ne sono all’origine : si pensi ai caratteri del mercato del lavoro, che generano attualmente tali difficoltà sotto la spinta degli effetti della pandemia. Si tratta dunque di un’azione complessa, composta di più politiche tra loro integrate, che si svolge lungo diversi orizzonti temporali, di breve o brevissimo termine, ma anche di medio e lungo periodo.

La Caritas di Perugia

Anche l’azione della Caritas diocesana di Perugia si svolge lungo più piani: a fianco dell’erogazione di beni, servizi e sussidi per contenere le difficoltà del presente, interviene per promuovere formazione professionale e inserimento lavorativo, per assicurare una maggiore efficacia della didattica, per favorire lo sviluppo della protezione civile universale, per sviluppare le capacità degli anziani… È chiaro come una politica efficace contro la povertà si basi sul ricorso razionale ad un complesso organico di politiche tra loro integrate, e debba perciò fondarsi su un approccio programmatico e progettuale (da auspicare anche per l’Umbria), con adeguato coinvolgimento di operatori e cittadini. A spingere verso innovazioni e politiche sociali sempre nuove e migliori, a livello territoriale, possono contribuire il processo e il percorso di co-progettazione, in corso in molte aree del nostro Paese, che istituzioni ed enti della società civile possono e devono perseguire, così da mettere in rete le energie del Paese, combinando competenze ed esperienze complementari, e rispondendo a una domanda crescente di partecipazione (L. Becchetti - A. Moretti,  Avvenire, 23/2/2021).]]>
Non solo sanità ospedaliera: anche la medicina territoriale soffre la pandemia https://www.lavoce.it/medicina-territoriale-soffre/ Thu, 25 Feb 2021 15:53:48 +0000 https://www.lavoce.it/?p=59323 La fatica della medicina territoriale umbra a causa della pandemia

Sappiamo bene che al momento la sanità ospedaliera umbra è particolarmente in crisi a causa della pandemia e della terribile seconda ondata che ha colpito la nostra regione in particolare.

Ma come se la passa invece la sanità territoriale, quella che per definizione dovrebbe essere più vicina al cittadino?

Da un anno a questa parte si moltiplicano i racconti di pazienti che si sentono abbandonati, di visite per altre patologie altrettanto serie rimandate e di medici di medicina generale sopraffatti dalla situazione.

La parola al dott. Marco Dottorini, pneumologo

(Le interviste audio al dott. Marco Dottorini e Piero Grilli dello speciale XL News di Umbria radio)

Quello che sta accadendo è tanto semplice quanto drammatico: il personale medico non basta e la pandemia non ha fatto altro che portare alla luce un problema già esistente da anni. “Con la chiusura completa degli ambulatori dell’ospedale di Perugia, tutte le visite in sospeso sono sulle nostre spalle, sulle spalle dei presidi territoriali”, spiega il dottor Marco Dottorini, pneumologo della Asl 1.

“Nella prima fase, per carenza di specialisti pneumologi, siamo stati chiamati ad affiancare i colleghi di Pantalla, riducendo ulteriormente l’attività ambulatoriale già provata e ridotta – racconta - . Ora abbiamo ripreso ma con grande fatica. Solo in pneumologia parliamo di 900 visite prese in carico dal Cup e non ancora evase. Dopo la prima ondata, che da noi era stata ben poca cosa, avevamo fatto un programma di recupero delle visite in sospeso e ci stavamo rientrando. Adesso però la situazione è peggiorata con l’aggravarsi di quella ospedaliera e vanno quindi di nuovo analizzate tutte le prenotazioni e ricanalizzate a seconda della gravità o necessità”.

Alla base di tutto, come dicevamo, una grave carenza di medici e in particolare di specialisti nel pubblico. Come si può uscire quindi da questa situazione?

“Purtroppo i medici non possiamo comprarli al mercato, vanno formati nel corso di anni – ha commentato Dottorini - . Per adesso l’unica cosa da fare è selezionare quelle necessità più impellenti e sperare che presto anche gli ambulatori dell’ospedale possano riprendere la loro attività. Dal canto nostro stiamo cercando di tutelare il paziente cronico che non può essere lasciato solo ma ha bisogno di una gestione particolare e di essere seguito continuamente nella prevenzione delle riacutizzazioni, per fare in modo che non necessiti di ospedalizzazione.

Non si parla ovviamente solo di patologie legate al Covid, ma del nostro ‘ordinario’. Poi a questo si è aggiunto anche il post Covid perché molti dei pazienti che hanno avuto il coronavirus e hanno superato la fase acuta, specie quelli che sono stati sottoposti a ventilazione invasiva o non invasiva, hanno delle sequele polmonari importanti sulle quali va impostato un programma di riabilitazione respiratoria.

Altra ipotesi, poi, è richiedere l’aiuto qualificato degli specialisti privati, ma nel nostro campo sono pochi anche privatamente”.

Dott. Piero Grilli, medico di medicina generale

Anche sul fronte della medicina generale, quella dei cosiddetti ‘medici di famiglia’, la situazione, da un anno a questa parte, non è delle migliori.

“L’attività che noi medici di famiglia svolgiamo è cambiata di molto. Se prima il contatto era continuo e senza limiti e ostacoli, con le persone che accedevano agli ambulatori secondo le loro esigenze, questo evento drammatico della pandemia ci ha obbligato a regolamentare l’accesso alla medicina generale”, racconta il dottor Piero Grilli , che ha il suo ambulatorio a Pianello. “Se da un punto di vista organizzativo la medicina generale è migliorata, dal punto di vista della relazione si sono ridotte le occasioni di contatto. Questo non toglie il fatto che comunque il medico di famiglia può avere un contatto giornaliero telefonico con i suoi pazienti Covid.

Io con qualcuno ho anche fatto delle videochiamate per visionare effetti visibili, come nel caso di una signora anziana che aveva sviluppato un ematoma”. La difficoltà dei medici di famiglia è anche quella di fare da mediatori nel vortice di informazioni spesso confuse che arrivano.

“Questo aspetto – sottolinea Grilli - è ancora più evidente attualmente nella fase dei vaccini. L’informazione che è passata al momento, ad esempio, è che i medici di famiglia possono fare le vaccinazioni a domicilio per gli anziani impossibilitati a spostarsi. Io mi sono reso disponibile, ma mi manca la materia prima, ovvero il vaccino stesso”.

Valentina Russo

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La fatica della medicina territoriale umbra a causa della pandemia

Sappiamo bene che al momento la sanità ospedaliera umbra è particolarmente in crisi a causa della pandemia e della terribile seconda ondata che ha colpito la nostra regione in particolare.

Ma come se la passa invece la sanità territoriale, quella che per definizione dovrebbe essere più vicina al cittadino?

Da un anno a questa parte si moltiplicano i racconti di pazienti che si sentono abbandonati, di visite per altre patologie altrettanto serie rimandate e di medici di medicina generale sopraffatti dalla situazione.

La parola al dott. Marco Dottorini, pneumologo

(Le interviste audio al dott. Marco Dottorini e Piero Grilli dello speciale XL News di Umbria radio)

Quello che sta accadendo è tanto semplice quanto drammatico: il personale medico non basta e la pandemia non ha fatto altro che portare alla luce un problema già esistente da anni. “Con la chiusura completa degli ambulatori dell’ospedale di Perugia, tutte le visite in sospeso sono sulle nostre spalle, sulle spalle dei presidi territoriali”, spiega il dottor Marco Dottorini, pneumologo della Asl 1.

“Nella prima fase, per carenza di specialisti pneumologi, siamo stati chiamati ad affiancare i colleghi di Pantalla, riducendo ulteriormente l’attività ambulatoriale già provata e ridotta – racconta - . Ora abbiamo ripreso ma con grande fatica. Solo in pneumologia parliamo di 900 visite prese in carico dal Cup e non ancora evase. Dopo la prima ondata, che da noi era stata ben poca cosa, avevamo fatto un programma di recupero delle visite in sospeso e ci stavamo rientrando. Adesso però la situazione è peggiorata con l’aggravarsi di quella ospedaliera e vanno quindi di nuovo analizzate tutte le prenotazioni e ricanalizzate a seconda della gravità o necessità”.

Alla base di tutto, come dicevamo, una grave carenza di medici e in particolare di specialisti nel pubblico. Come si può uscire quindi da questa situazione?

“Purtroppo i medici non possiamo comprarli al mercato, vanno formati nel corso di anni – ha commentato Dottorini - . Per adesso l’unica cosa da fare è selezionare quelle necessità più impellenti e sperare che presto anche gli ambulatori dell’ospedale possano riprendere la loro attività. Dal canto nostro stiamo cercando di tutelare il paziente cronico che non può essere lasciato solo ma ha bisogno di una gestione particolare e di essere seguito continuamente nella prevenzione delle riacutizzazioni, per fare in modo che non necessiti di ospedalizzazione.

Non si parla ovviamente solo di patologie legate al Covid, ma del nostro ‘ordinario’. Poi a questo si è aggiunto anche il post Covid perché molti dei pazienti che hanno avuto il coronavirus e hanno superato la fase acuta, specie quelli che sono stati sottoposti a ventilazione invasiva o non invasiva, hanno delle sequele polmonari importanti sulle quali va impostato un programma di riabilitazione respiratoria.

Altra ipotesi, poi, è richiedere l’aiuto qualificato degli specialisti privati, ma nel nostro campo sono pochi anche privatamente”.

Dott. Piero Grilli, medico di medicina generale

Anche sul fronte della medicina generale, quella dei cosiddetti ‘medici di famiglia’, la situazione, da un anno a questa parte, non è delle migliori.

“L’attività che noi medici di famiglia svolgiamo è cambiata di molto. Se prima il contatto era continuo e senza limiti e ostacoli, con le persone che accedevano agli ambulatori secondo le loro esigenze, questo evento drammatico della pandemia ci ha obbligato a regolamentare l’accesso alla medicina generale”, racconta il dottor Piero Grilli , che ha il suo ambulatorio a Pianello. “Se da un punto di vista organizzativo la medicina generale è migliorata, dal punto di vista della relazione si sono ridotte le occasioni di contatto. Questo non toglie il fatto che comunque il medico di famiglia può avere un contatto giornaliero telefonico con i suoi pazienti Covid.

Io con qualcuno ho anche fatto delle videochiamate per visionare effetti visibili, come nel caso di una signora anziana che aveva sviluppato un ematoma”. La difficoltà dei medici di famiglia è anche quella di fare da mediatori nel vortice di informazioni spesso confuse che arrivano.

“Questo aspetto – sottolinea Grilli - è ancora più evidente attualmente nella fase dei vaccini. L’informazione che è passata al momento, ad esempio, è che i medici di famiglia possono fare le vaccinazioni a domicilio per gli anziani impossibilitati a spostarsi. Io mi sono reso disponibile, ma mi manca la materia prima, ovvero il vaccino stesso”.

Valentina Russo

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1-2 NOVEMBRE. Con un po’ di attenzione, è possibile visitare i defunti https://www.lavoce.it/1-2-novembre-attenzione-defunti/ Thu, 29 Oct 2020 11:15:43 +0000 https://www.lavoce.it/?p=58063 cimitero monumentale di Perugia

L’emergenza sanitaria non poteva non avere una ricaduta anche sulla vita delle parrocchie, ‘costrette’ adesso a rivedere le proprie consuetudini, con la solennità di Tutti i santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ormai alle porte. Nonostante il fatto che gli ultimi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (13 ottobre e 24 ottobre) abbiano lasciato invariato quanto già previsto nel Protocollo del 7 maggio circa la ripresa delle celebrazioni con il popolo, e dalle successive integrazioni, molte diocesi si sono interrogate sull’opportunità di celebrare o meno le messe o altre forme di devozione e di pietà popolare nei cimiteri, che sono perlopiù di competenza comunale.

In Umbria la maggior parte delle diocesi, se non tutte, di concerto con i Comuni, hanno deciso di celebrare nelle chiese parrocchiali le messe il cui svolgimento era previsto nei cimiteri, come da tradizione, il 1° e il 2 novembre. La situazione sanitaria attuale e il timore di eventuali assembramenti, difficili da gestire, hanno fatto sì che vescovi e autorità comunali, insieme, abbiano valutato che per quest’anno non sussistevano le condizioni per le celebrazioni nei luoghi di sepoltura.

In alcune diocesi umbre, tuttavia, anche in base a quanto stabilito dai Comuni, ai parroci è stata data la possibilità di recarsi nei cimiteri, evitando comunque il formarsi di assembramenti, per benedire le tombe.

L'indulgenza per i defunti

Anche la Penitenzieria apostolica si è posta sulla stessa linea prudenziale, decretando la proroga per tutto il mese di novembre affinché possa essere conseguita l’indulgenza plenaria [la totale remissione della pena temporale che le anime devono scontare a causa del peccato] per i fedeli defunti. Infatti, la visita ai cimiteri nei primi giorni di novembre non è legata al solo ricordo dei defunti, ma anche alla possibilità di ottenere per loro l’indulgenza.

Se fino a oggi era possibile eseguire questo rito dal 1° all’8 novembre e nel giorno della Commemorazione di tutti i fedeli defunti, nell’attuale tempo segnato dalla pandemia il Dicastero vaticano ha stabilito che lo si può fare per tutto novembre, onde evitare un flusso eccessivo di fedeli. Nello stesso decreto del 22 ottobre, la Penitenzieria ha adeguato anche le opere e le condizioni per ottenere l’indulgenza, sempre per garantire l’incolumità dei fedeli.

Dunque, con la visita ai cimiteri e la preghiera per i defunti o con la visita a una chiesa o oratorio, e la recita del Padre nostro e del Credo, in un qualsiasi giorno di novembre, insieme dalle condizioni generalmente richieste (confessione sacramentale, partecipazione alla messa e comunione eucaristica, ecc.), i fedeli possono anche quest’anno ricevere l’indulgenza plenaria a favore dei propri cari scomparsi.

Quest’anno, dunque, la solennità di Tutti i santi e la Commemorazione dei defunti sembrano essere un’ulteriore prova di come la Chiesa - in Umbria, e non solo stia rivendendo le proprie ‘abitudini’, con senso di responsabilità e per dovere civile, senza venir meno alla propria peculiare missione.

Don Francesco Verzini

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cimitero monumentale di Perugia

L’emergenza sanitaria non poteva non avere una ricaduta anche sulla vita delle parrocchie, ‘costrette’ adesso a rivedere le proprie consuetudini, con la solennità di Tutti i santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ormai alle porte. Nonostante il fatto che gli ultimi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (13 ottobre e 24 ottobre) abbiano lasciato invariato quanto già previsto nel Protocollo del 7 maggio circa la ripresa delle celebrazioni con il popolo, e dalle successive integrazioni, molte diocesi si sono interrogate sull’opportunità di celebrare o meno le messe o altre forme di devozione e di pietà popolare nei cimiteri, che sono perlopiù di competenza comunale.

In Umbria la maggior parte delle diocesi, se non tutte, di concerto con i Comuni, hanno deciso di celebrare nelle chiese parrocchiali le messe il cui svolgimento era previsto nei cimiteri, come da tradizione, il 1° e il 2 novembre. La situazione sanitaria attuale e il timore di eventuali assembramenti, difficili da gestire, hanno fatto sì che vescovi e autorità comunali, insieme, abbiano valutato che per quest’anno non sussistevano le condizioni per le celebrazioni nei luoghi di sepoltura.

In alcune diocesi umbre, tuttavia, anche in base a quanto stabilito dai Comuni, ai parroci è stata data la possibilità di recarsi nei cimiteri, evitando comunque il formarsi di assembramenti, per benedire le tombe.

L'indulgenza per i defunti

Anche la Penitenzieria apostolica si è posta sulla stessa linea prudenziale, decretando la proroga per tutto il mese di novembre affinché possa essere conseguita l’indulgenza plenaria [la totale remissione della pena temporale che le anime devono scontare a causa del peccato] per i fedeli defunti. Infatti, la visita ai cimiteri nei primi giorni di novembre non è legata al solo ricordo dei defunti, ma anche alla possibilità di ottenere per loro l’indulgenza.

Se fino a oggi era possibile eseguire questo rito dal 1° all’8 novembre e nel giorno della Commemorazione di tutti i fedeli defunti, nell’attuale tempo segnato dalla pandemia il Dicastero vaticano ha stabilito che lo si può fare per tutto novembre, onde evitare un flusso eccessivo di fedeli. Nello stesso decreto del 22 ottobre, la Penitenzieria ha adeguato anche le opere e le condizioni per ottenere l’indulgenza, sempre per garantire l’incolumità dei fedeli.

Dunque, con la visita ai cimiteri e la preghiera per i defunti o con la visita a una chiesa o oratorio, e la recita del Padre nostro e del Credo, in un qualsiasi giorno di novembre, insieme dalle condizioni generalmente richieste (confessione sacramentale, partecipazione alla messa e comunione eucaristica, ecc.), i fedeli possono anche quest’anno ricevere l’indulgenza plenaria a favore dei propri cari scomparsi.

Quest’anno, dunque, la solennità di Tutti i santi e la Commemorazione dei defunti sembrano essere un’ulteriore prova di come la Chiesa - in Umbria, e non solo stia rivendendo le proprie ‘abitudini’, con senso di responsabilità e per dovere civile, senza venir meno alla propria peculiare missione.

Don Francesco Verzini

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Covid19. Intanto i politici italiani sono rimasti fermi alla Fase zero https://www.lavoce.it/covid19-intanto-i-politici-italiani-sono-rimasti-fermi-alla-fase-zero/ Thu, 07 May 2020 16:56:07 +0000 https://www.lavoce.it/?p=57090

Diceva il capo ufficio stampa dell’allora presidente americano Barack Obama che “non bisognerebbe mai sprecare una crisi”. All’alba della cosiddetta Fase 2, non sembra che la classe politica italiana stia sfruttando la pandemia per migliorarsi e rendere più produttivo ed efficace il proprio operato. Se ne deve essere accorto anche Papa Francesco, se in una delle sue ultime omelie durante la messa mattutina a Santa Marta ha volutopregare “per i governanti che hanno la responsabilità di prendersi cura dei loro popoli in questo momento di crisi”. Bergoglio li ha sollecitati a capire che, “nei momenti di crisi, devono essere molto uniti per il bene del popolo”.

A cosa pensano i politici?

Non pare che le cose della politica italiana stiano andando in questa direzione. La maggioranza di governo ribolle come ai ‘bei tempi’ in cui l’unica preoccupazione era tramare contro l’alleato di turno, o il nemico interno. I partiti dell’opposizione perseguono ognuno obiettivi differenti. In quella che sembra un’eterna, irredimibile ‘fase zero’ dalla quale non si ha né alcun mezzo ma, soprattutto, alcuna volontà di uscire. Imprigionati - i partiti tutti - in schematismi tattici e in infantilismi strategici che, di fronte all’inaspettata realtà della pandemia, sembrano strangolare sul nascere qualsiasi aspettativa di cambiamento. Ma trascinare - come sta succedendo - le logiche di uno ieri che non potrà più tornare nell’oggi del contagio getta un presagio nefasto su qualunque velleità di progettare il domani.

Allarme  “bomba sociale”

Fuori da ogni sociologismo: si sono accorti, i leader dei nostri principali partiti, delle file - che si stanno ingrossando giorno dopo giorno - di coloro che, in città grandi e piccole, vanno a chiedere un pasto e aiuti economici alla Caritas? Stride, questa immagine, con le vacue baruffe nelle aule del Parlamento, le manovre più o meno occulte per far cadere Conte, i voli pindarici su nuovi assetti di governo e nuove maggioranze. Pare abbia capito qualcosa di più di quello che sta realmente capitando in Italia il presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi, quando, con toni di una durezza che da tempo un capo degli industriali non utilizzava, prevede per l’autunno prossimo “l’esplosione della bomba sociale, considerato che i soldi a pioggia finiranno e il sistema produttivo, causa carenza di investimenti, non sarà ripartito”. Bonomi contesta il criterio dei soldi a pioggia perché lo considera un modo della politica di ricavarne “un dividendo elettorale”. In effetti, distribuire soldi liquidi in tasca alle persone può avere un senso nella immediatezza del blocco delle attività, anche allo scopo di sostenere i consumi dal lato della domanda. Ma non si può trasformare l’Italia intera in un Paese assistito. Alimentando passività e assistenzialismo.

Responsabilità sì, ma dei politici anzitutto

In questo snodo entra in ballo l’analisi sulla composizione della compagine governativa, dove il peso politico dei cinquestelle (coloro che il Reddito di cittadinanza hanno voluto e difeso, anche in queste ultime settimane, con immutato vigore) pare essere molto più rilevante di quello del Partito democratico. “Il convitato di pietra” - così lo definisce il politologo Piero Ignazi - della maggioranza: perché, se è vero che i cinquestelle hanno ancora la maggioranza in Parlamento, il Pd ha su di sé le stigmate del partito che, qualunque cosa succeda nei prossimi mesi, sarà ritenuto responsabile delle scelte fatte dall’attuale Governo. Ma dal Pd, dal punto di vista progettuale, non sta arrivando granché. E sotto il profilo politico, il partito di Zingaretti non sembra andare molto più in là della difesa dell’attuale Presidente del Consiglio. È logico - come ha ricordato lo stesso Pontefice - che, “se si sta in mezzo al guado di un fiume, non si deve cambiare cavallo”; ma una volta sulla sponda opposta, il cavallo deve sapere quale strada prendere. Tracciare quella strada è compito della politica. Che, se all’inizio della Fase 2 chiede ancora ai cittadini di mostrare senso di responsabilità, altrettanto dovrebbe fare guardandosi allo specchio. Daris Giancarlini]]>

Diceva il capo ufficio stampa dell’allora presidente americano Barack Obama che “non bisognerebbe mai sprecare una crisi”. All’alba della cosiddetta Fase 2, non sembra che la classe politica italiana stia sfruttando la pandemia per migliorarsi e rendere più produttivo ed efficace il proprio operato. Se ne deve essere accorto anche Papa Francesco, se in una delle sue ultime omelie durante la messa mattutina a Santa Marta ha volutopregare “per i governanti che hanno la responsabilità di prendersi cura dei loro popoli in questo momento di crisi”. Bergoglio li ha sollecitati a capire che, “nei momenti di crisi, devono essere molto uniti per il bene del popolo”.

A cosa pensano i politici?

Non pare che le cose della politica italiana stiano andando in questa direzione. La maggioranza di governo ribolle come ai ‘bei tempi’ in cui l’unica preoccupazione era tramare contro l’alleato di turno, o il nemico interno. I partiti dell’opposizione perseguono ognuno obiettivi differenti. In quella che sembra un’eterna, irredimibile ‘fase zero’ dalla quale non si ha né alcun mezzo ma, soprattutto, alcuna volontà di uscire. Imprigionati - i partiti tutti - in schematismi tattici e in infantilismi strategici che, di fronte all’inaspettata realtà della pandemia, sembrano strangolare sul nascere qualsiasi aspettativa di cambiamento. Ma trascinare - come sta succedendo - le logiche di uno ieri che non potrà più tornare nell’oggi del contagio getta un presagio nefasto su qualunque velleità di progettare il domani.

Allarme  “bomba sociale”

Fuori da ogni sociologismo: si sono accorti, i leader dei nostri principali partiti, delle file - che si stanno ingrossando giorno dopo giorno - di coloro che, in città grandi e piccole, vanno a chiedere un pasto e aiuti economici alla Caritas? Stride, questa immagine, con le vacue baruffe nelle aule del Parlamento, le manovre più o meno occulte per far cadere Conte, i voli pindarici su nuovi assetti di governo e nuove maggioranze. Pare abbia capito qualcosa di più di quello che sta realmente capitando in Italia il presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi, quando, con toni di una durezza che da tempo un capo degli industriali non utilizzava, prevede per l’autunno prossimo “l’esplosione della bomba sociale, considerato che i soldi a pioggia finiranno e il sistema produttivo, causa carenza di investimenti, non sarà ripartito”. Bonomi contesta il criterio dei soldi a pioggia perché lo considera un modo della politica di ricavarne “un dividendo elettorale”. In effetti, distribuire soldi liquidi in tasca alle persone può avere un senso nella immediatezza del blocco delle attività, anche allo scopo di sostenere i consumi dal lato della domanda. Ma non si può trasformare l’Italia intera in un Paese assistito. Alimentando passività e assistenzialismo.

Responsabilità sì, ma dei politici anzitutto

In questo snodo entra in ballo l’analisi sulla composizione della compagine governativa, dove il peso politico dei cinquestelle (coloro che il Reddito di cittadinanza hanno voluto e difeso, anche in queste ultime settimane, con immutato vigore) pare essere molto più rilevante di quello del Partito democratico. “Il convitato di pietra” - così lo definisce il politologo Piero Ignazi - della maggioranza: perché, se è vero che i cinquestelle hanno ancora la maggioranza in Parlamento, il Pd ha su di sé le stigmate del partito che, qualunque cosa succeda nei prossimi mesi, sarà ritenuto responsabile delle scelte fatte dall’attuale Governo. Ma dal Pd, dal punto di vista progettuale, non sta arrivando granché. E sotto il profilo politico, il partito di Zingaretti non sembra andare molto più in là della difesa dell’attuale Presidente del Consiglio. È logico - come ha ricordato lo stesso Pontefice - che, “se si sta in mezzo al guado di un fiume, non si deve cambiare cavallo”; ma una volta sulla sponda opposta, il cavallo deve sapere quale strada prendere. Tracciare quella strada è compito della politica. Che, se all’inizio della Fase 2 chiede ancora ai cittadini di mostrare senso di responsabilità, altrettanto dovrebbe fare guardandosi allo specchio. Daris Giancarlini]]>
Celebranti senza popolo: la messa al tempo del Covid-19 https://www.lavoce.it/messa-senza-popolo-covid-19/ https://www.lavoce.it/messa-senza-popolo-covid-19/#comments Fri, 17 Apr 2020 07:37:08 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56901

Con uno dei decreti della presidenza del Consiglio dei ministri l’8 marzo sono state sospese, in via preventiva, le cerimonie civili e religiose su tutto il territorio nazionale. Contestualmente la Conferenza episcopale italiana, come le Conferenze delle varie regioni ecclesiastiche, in ottemperanza a quanto stabilito dagli organi di governo, hanno diramato diversi comunicati, note e indicazioni pastorali, tutte in fin dei conti con lo stesso risultato: sospensione delle messe con la partecipazione di popolo.

Settimana santa a porte chiuse

Abbiamo atteso con speranza che almeno per la Settimana santa, la grande Settimana, le misure emergenziali si potessero attenuare, invece: Settimana santa a porte chiuse. Questa assenza di popolo e assenza per il popolo ha suscitato non pochi commenti nel mondo ecclesiale, a tutti i livelli. Come spesso accade in una interpretazione avventata della realtà, abbiamo corso il rischio, o nel rischio siamo caduti, di fornire “ricette facili”, che probabilmente non sono frutto - anche se le parti appaiono ben preparate - di una riflessione più attenta e meno ideologizzata. Quest’ultima infatti dovrebbe proporre una lettura della realtà attuale più ponderata e meno impulsiva. Con questo non intendo esporre una rigorosa riflessione sul tema della messa senza adunanza di popolo; cercherò piuttosto di offrire un contributo che scaturisce dal sincero desiderio di portare equilibrio tra le parti, dove “equilibrio” non è sinonimo di “compromesso”.

Messa senza popolo

Ma ora veniamo al dunque: messa senza popolo sì o messa senza popolo no? Per rispondere prendo come base del ragionamento il numero 254 dell’Ordinamento generale del Messale romano che così afferma:
“la celebrazione senza ministro o senza almeno qualche fedele non si faccia se non per un giusto e ragionevole motivo”.
Indubbiamente in questi tempi di emergenza sanitaria stiamo vivendo tale “giusto e ragionevole motivo”, che legittima la celebrazione dell’eucarestia con il solo presbitero o con il presbitero e un ministro, ma questa forma rimane un’eccezione all’ordinarietà. Difatti, la ratio che soggiace all’Ordinamento è la stessa della Sacrosanctum Concilium, la quale a sua volta trova ispirazione nella Scrittura e nella Tradizione. La comunità è il soggetto celebrante e non lo è il solo ministro ordinato, il quale fa parte della stessa assemblea presiedendola.

La celebrazione è affare di popolo

Le testimonianze bibliche, come quelle patristiche, come le fonti liturgiche, che non cito perché innumerevoli, concordano sul fatto che la celebrazione dell'eucaristia è affare di popolo e non di singolo. Popolo concreto adunato intorno alla mensa per celebrare il mistero pasquale. In altre parole, la celebrazione eucaristica è nata e cresciuta in una dimensione comunitaria. La comunità cristiana trova in essa la sua fonte sorgiva. Da questo non si sfugge. È per questo che l’attuale Messale romano nel suo Ordo Missae parla di “populo congregato” e non di “sacerdos parato”, come invece faceva il Messale tridentino, quale condizione per dare inizio alla celebrazione. Eppure ciò che viviamo - faticosamente sia da parte dei laici che del clero - in questi giorni è una liturgia vissuta “sine populo congregato”.

Messa in diretta

Per far fronte a ciò molti sacerdoti hanno pensato di trasmettere le messe in diretta attraverso i social media. Gesto apprezzabile ed espressione di vicinanza, ma che non può in alcuna maniera essere considerato come surrogato di un’assemblea “viva” che si raduna per il rendimento di grazie. Per questo, più che moltiplicare le dirette, si sarebbe potuto recuperare, da parte del clero (e far recuperare al popolo di Dio), il senso di una messa celebrata pro populo seppur in sua assenza. Infatti, la liturgia, anche se in “forma privata”, è sempre azione di Cristo e della Chiesa tutta che celebra «applicando per la salute del mondo intero l’unica e infinità virtù redentrice del sacrificio della Croce» (Paolo VI, Mysterium fidei). Un altro aspetto su cui avremmo potuto impegnarci di più è la necessità di recuperare, in questo tempo particolare, la dimensione familiare del celebrare. Far riscoprire alle famiglie il loro essere chiesa domestica, in cui si può lodare il Signore attraverso varie forme. La Liturgia delle ore o l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio. In conclusione, ritengo che tale questione vada affrontata da una prospettiva diversa, più equilibrata, tenendo maggiormente conto della complessa e provvisoria situazione pastorale che tale emergenza sta suscitando nelle nostre comunità cristiane. La messa senza popolo non può dunque che rimanere un'eccezione, pur sofferta, alla forma ordinaria, che tutti speriamo di riprendere al più presto. Francesco Verzini]]>

Con uno dei decreti della presidenza del Consiglio dei ministri l’8 marzo sono state sospese, in via preventiva, le cerimonie civili e religiose su tutto il territorio nazionale. Contestualmente la Conferenza episcopale italiana, come le Conferenze delle varie regioni ecclesiastiche, in ottemperanza a quanto stabilito dagli organi di governo, hanno diramato diversi comunicati, note e indicazioni pastorali, tutte in fin dei conti con lo stesso risultato: sospensione delle messe con la partecipazione di popolo.

Settimana santa a porte chiuse

Abbiamo atteso con speranza che almeno per la Settimana santa, la grande Settimana, le misure emergenziali si potessero attenuare, invece: Settimana santa a porte chiuse. Questa assenza di popolo e assenza per il popolo ha suscitato non pochi commenti nel mondo ecclesiale, a tutti i livelli. Come spesso accade in una interpretazione avventata della realtà, abbiamo corso il rischio, o nel rischio siamo caduti, di fornire “ricette facili”, che probabilmente non sono frutto - anche se le parti appaiono ben preparate - di una riflessione più attenta e meno ideologizzata. Quest’ultima infatti dovrebbe proporre una lettura della realtà attuale più ponderata e meno impulsiva. Con questo non intendo esporre una rigorosa riflessione sul tema della messa senza adunanza di popolo; cercherò piuttosto di offrire un contributo che scaturisce dal sincero desiderio di portare equilibrio tra le parti, dove “equilibrio” non è sinonimo di “compromesso”.

Messa senza popolo

Ma ora veniamo al dunque: messa senza popolo sì o messa senza popolo no? Per rispondere prendo come base del ragionamento il numero 254 dell’Ordinamento generale del Messale romano che così afferma:
“la celebrazione senza ministro o senza almeno qualche fedele non si faccia se non per un giusto e ragionevole motivo”.
Indubbiamente in questi tempi di emergenza sanitaria stiamo vivendo tale “giusto e ragionevole motivo”, che legittima la celebrazione dell’eucarestia con il solo presbitero o con il presbitero e un ministro, ma questa forma rimane un’eccezione all’ordinarietà. Difatti, la ratio che soggiace all’Ordinamento è la stessa della Sacrosanctum Concilium, la quale a sua volta trova ispirazione nella Scrittura e nella Tradizione. La comunità è il soggetto celebrante e non lo è il solo ministro ordinato, il quale fa parte della stessa assemblea presiedendola.

La celebrazione è affare di popolo

Le testimonianze bibliche, come quelle patristiche, come le fonti liturgiche, che non cito perché innumerevoli, concordano sul fatto che la celebrazione dell'eucaristia è affare di popolo e non di singolo. Popolo concreto adunato intorno alla mensa per celebrare il mistero pasquale. In altre parole, la celebrazione eucaristica è nata e cresciuta in una dimensione comunitaria. La comunità cristiana trova in essa la sua fonte sorgiva. Da questo non si sfugge. È per questo che l’attuale Messale romano nel suo Ordo Missae parla di “populo congregato” e non di “sacerdos parato”, come invece faceva il Messale tridentino, quale condizione per dare inizio alla celebrazione. Eppure ciò che viviamo - faticosamente sia da parte dei laici che del clero - in questi giorni è una liturgia vissuta “sine populo congregato”.

Messa in diretta

Per far fronte a ciò molti sacerdoti hanno pensato di trasmettere le messe in diretta attraverso i social media. Gesto apprezzabile ed espressione di vicinanza, ma che non può in alcuna maniera essere considerato come surrogato di un’assemblea “viva” che si raduna per il rendimento di grazie. Per questo, più che moltiplicare le dirette, si sarebbe potuto recuperare, da parte del clero (e far recuperare al popolo di Dio), il senso di una messa celebrata pro populo seppur in sua assenza. Infatti, la liturgia, anche se in “forma privata”, è sempre azione di Cristo e della Chiesa tutta che celebra «applicando per la salute del mondo intero l’unica e infinità virtù redentrice del sacrificio della Croce» (Paolo VI, Mysterium fidei). Un altro aspetto su cui avremmo potuto impegnarci di più è la necessità di recuperare, in questo tempo particolare, la dimensione familiare del celebrare. Far riscoprire alle famiglie il loro essere chiesa domestica, in cui si può lodare il Signore attraverso varie forme. La Liturgia delle ore o l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio. In conclusione, ritengo che tale questione vada affrontata da una prospettiva diversa, più equilibrata, tenendo maggiormente conto della complessa e provvisoria situazione pastorale che tale emergenza sta suscitando nelle nostre comunità cristiane. La messa senza popolo non può dunque che rimanere un'eccezione, pur sofferta, alla forma ordinaria, che tutti speriamo di riprendere al più presto. Francesco Verzini]]>
https://www.lavoce.it/messa-senza-popolo-covid-19/feed/ 2
L’emergenza rende quasi impossibile confessarsi. Che fare? https://www.lavoce.it/lemergenza-e-confessione/ Fri, 03 Apr 2020 08:03:25 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56777 segreto

Confessione tradizionale o al telefono?

Mentre ci avviciniamo alla Pasqua e alle celebrazioni della Settimana santa, cresce nei fedeli anche il desiderio di concludere, come di consueto, il cammino della Quaresima con la possibilità di accedere al sacramento della riconciliazione. Confessare i propri peccati e prepararsi a vivere nella gioia la memoria della risurrezione di Cristo e della nostra salvezza ricevuta nel battesimo. Il continuare delle restrizioni sociali che stiamo vivendo, a causa dell’emergenza sanitaria in corso, non ci permetterà purtroppo di celebrare neanche i misteri del Triduo pasquale con la partecipazione del popolo di Dio, ma ancora con solo pochi ministri e a porte chiuse. Questo di conseguenza renderà praticamente impossibile ai fedeli anche l’accostarsi alla confessione sacramentale, non senza grande sofferenza. Che fare? Cosa ci suggerisce la Chiesa? Da giorni girano indiscriminate comunicazioni che ipotizzano soluzioni innovative (come la confessione al telefono). La Chiesa ha fatto chiarezza attingendo al suo tesoro di tradizione. Indica a pastori e fedeli le possibilità di ricevere con certezza il perdono di Dio. Sia per chi si trova nelle drammatiche situazioni dell’infezione virale e per chi se ne prende cura. Per tutti coloro che sono solamente impediti dal recarsi in chiesa dalle norme di isolamento sociale.

Chi può recarsi da un sacerdote …

Coloro che, pur non infrangendo le disposizioni in vigore, avranno la possibilità di accostarsi individualmente a un sacerdote potranno celebrare il perdono di Dio nel modo consueto, nel sacramento della penitenza, curandosi di prendere, insieme al confessore, tutte le precauzioni per evitare ogni eventuale contagio (un luogo areato esterno al confessionale, una distanza conveniente, il ricorso alla mascherina). Tutti gli altri, secondo la dottrina della Chiesa, potranno ricevere il perdono e la riconciliazione con Dio esprimendo nella preghiera il proprio “atto di dolore (o contrizione) perfetto”. Accompagnato dalla ferma intenzione di accostarsi al sacramento appena possibile. Se si verifica dunque la dolorosa impossibilità di ricevere l’assoluzione sacramentale, come in questi giorni, anche il cosiddetto votum confessionis, ovvero anche il solo desiderio di ricevere a suo tempo l’assoluzione sacramentale, accompagnato da una preghiera di pentimento (il Confesso a Dio onnipotente, l’Atto di dolore, l’invocazione Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di me) comporta il perdono dei peccati, anche gravi, commessi (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1452).

Momento di preghiera e di riflessione

In questo caso si consiglia, almeno per chi ne ha la possibilità, di far precedere a questo momento profondo di preghiera un tempo di riflessione. A partire da un testo della Parola di Dio, che ci guidi a compiere un buon esame di coscienza, così da presentare al Signore il nostro pentimento per i peccati che abbiamo commesso e che riconosciamo davanti a Lui. Concludiamo con una preghiera di ringraziamento per la misericordia ricevuta e per la gioia ritrovata. È prevista dal Rito della penitenza anche una forma “straordinaria” con l’assoluzione generale dei penitenti quando non sia possibile l’ascolto delle confessioni individuali. Può essere impartita solo dove ricorre l’imminente pericolo di morte e la presenza di molti penitenti, oppure in caso di grave necessità, come purtroppo si sta verificando nei luoghi del Paese maggiormente interessati dal contagio, e necessita sempre dell’autorizzazione del Vescovo diocesano, entro i limiti del possibile. La Chiesa custodisce con umiltà e fedeltà il tesoro della misericordia di Dio. Cerca di assicurare ai fedeli la possibilità di attingervi il dono della vita nuova conquistata da Cristo per noi nella sua Pasqua di passione, morte e risurrezione. † Luciano Paolucci Bedini vescovo di Gubbio]]>
segreto

Confessione tradizionale o al telefono?

Mentre ci avviciniamo alla Pasqua e alle celebrazioni della Settimana santa, cresce nei fedeli anche il desiderio di concludere, come di consueto, il cammino della Quaresima con la possibilità di accedere al sacramento della riconciliazione. Confessare i propri peccati e prepararsi a vivere nella gioia la memoria della risurrezione di Cristo e della nostra salvezza ricevuta nel battesimo. Il continuare delle restrizioni sociali che stiamo vivendo, a causa dell’emergenza sanitaria in corso, non ci permetterà purtroppo di celebrare neanche i misteri del Triduo pasquale con la partecipazione del popolo di Dio, ma ancora con solo pochi ministri e a porte chiuse. Questo di conseguenza renderà praticamente impossibile ai fedeli anche l’accostarsi alla confessione sacramentale, non senza grande sofferenza. Che fare? Cosa ci suggerisce la Chiesa? Da giorni girano indiscriminate comunicazioni che ipotizzano soluzioni innovative (come la confessione al telefono). La Chiesa ha fatto chiarezza attingendo al suo tesoro di tradizione. Indica a pastori e fedeli le possibilità di ricevere con certezza il perdono di Dio. Sia per chi si trova nelle drammatiche situazioni dell’infezione virale e per chi se ne prende cura. Per tutti coloro che sono solamente impediti dal recarsi in chiesa dalle norme di isolamento sociale.

Chi può recarsi da un sacerdote …

Coloro che, pur non infrangendo le disposizioni in vigore, avranno la possibilità di accostarsi individualmente a un sacerdote potranno celebrare il perdono di Dio nel modo consueto, nel sacramento della penitenza, curandosi di prendere, insieme al confessore, tutte le precauzioni per evitare ogni eventuale contagio (un luogo areato esterno al confessionale, una distanza conveniente, il ricorso alla mascherina). Tutti gli altri, secondo la dottrina della Chiesa, potranno ricevere il perdono e la riconciliazione con Dio esprimendo nella preghiera il proprio “atto di dolore (o contrizione) perfetto”. Accompagnato dalla ferma intenzione di accostarsi al sacramento appena possibile. Se si verifica dunque la dolorosa impossibilità di ricevere l’assoluzione sacramentale, come in questi giorni, anche il cosiddetto votum confessionis, ovvero anche il solo desiderio di ricevere a suo tempo l’assoluzione sacramentale, accompagnato da una preghiera di pentimento (il Confesso a Dio onnipotente, l’Atto di dolore, l’invocazione Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di me) comporta il perdono dei peccati, anche gravi, commessi (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1452).

Momento di preghiera e di riflessione

In questo caso si consiglia, almeno per chi ne ha la possibilità, di far precedere a questo momento profondo di preghiera un tempo di riflessione. A partire da un testo della Parola di Dio, che ci guidi a compiere un buon esame di coscienza, così da presentare al Signore il nostro pentimento per i peccati che abbiamo commesso e che riconosciamo davanti a Lui. Concludiamo con una preghiera di ringraziamento per la misericordia ricevuta e per la gioia ritrovata. È prevista dal Rito della penitenza anche una forma “straordinaria” con l’assoluzione generale dei penitenti quando non sia possibile l’ascolto delle confessioni individuali. Può essere impartita solo dove ricorre l’imminente pericolo di morte e la presenza di molti penitenti, oppure in caso di grave necessità, come purtroppo si sta verificando nei luoghi del Paese maggiormente interessati dal contagio, e necessita sempre dell’autorizzazione del Vescovo diocesano, entro i limiti del possibile. La Chiesa custodisce con umiltà e fedeltà il tesoro della misericordia di Dio. Cerca di assicurare ai fedeli la possibilità di attingervi il dono della vita nuova conquistata da Cristo per noi nella sua Pasqua di passione, morte e risurrezione. † Luciano Paolucci Bedini vescovo di Gubbio]]>
CORONAVIRUS. Dopo il nobile gesto dell’Albania https://www.lavoce.it/coronavirus-gesto-albania/ Thu, 02 Apr 2020 11:00:34 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56725

Gli albanesi non dimenticano. I tedeschi, a quanto pare, sì.

Non si tratta di fare classifiche di ‘buoni’ e ‘cattivi’, ma di valutare comportamenti per programmare meglio, e con maggiore acume, il futuro. L’attuale leader dell’Albania, che invia in Italia 30 tra medici e infermieri sulla “linea del fuoco” dell’ospedale di Brescia, spiega la sua decisione. Il suo è un Paese “povero, ma che non dimentica” quanto fatto dall’Italia all’inizio degli anni Novanta, con l’operazione ‘Pellicano’, per aiutare un Paese che usciva povero e lacerato da una lunga e devastante dittatura di stampo comunista. Il discorso fatto dal leader Edi Rama, nella breve cerimonia che ha accompagnato la partenza del personale sanitario albanese, condiviso da tutte le forze politiche italiane. Che magari potrebbero trarre spunto non soltanto per la scelta della parole, davvero calibrate e incisive, ma anche e soprattutto per la passione che dovrebbe guidare l’operato di chi ha in mano le sorti dell’opinione pubblica. Qui risulta quanto meno superfluo distinguere tra maggioranza e opposizione.

L'emergenza non ha confini

Se si continuasse a ragionare con il criterio della contrapposizione aprioristica, si commetterebbe lo stesso errore che sta ispirando le nazioni del Nord come Olanda, Austria e Finlandia, con in testa la Germania di Angela Merkel. Non sono infatti bastati i richiami di personalità come lo stesso Papa Francesco e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per far comprendere che la pandemia deve spingerci, tutti, a cambiare le chiavi di lettura e di comportamento. Perché è, nel contempo, emergenza sanitaria ed economica; che non conosce frontiere e confini. E purtroppo colpirà in modo indiscriminato in ogni zona del pianeta. “Nessuno si salva da solo” hanno ripetuto il Pontefice e il Capo dello Stato. Questo vale sia per la salute sia per la produzione, il lavoro, la tenuta sociale. Pare che questi autorevoli richiami a fare fronte comune non siano stati ben compresi da chi, in un primo tempo a livello europeo, ha tentato di trattare l’epidemia in Italia come un caso isolato. Un segnale di consapevolezza, in verità, dopo le prime titubanze, lo ha mandato la Banca centrale europea. La Banca ha stanziato un cifra consistente per assorbire il necessario debito che l’Italia. Dovrà impegnarsi ad affrontare per resistere ai colpi devastanti del virus sul tessuto economico. Ma su un’assunzione di responsabilità collettiva, sul piano finanziario, degli oneri di quella che dovrà essere una vera ricostruzione, con tratti post-bellici, delle singole economie, la Germania e gli altri suoi accoliti nordici hanno preso tempo. Molto per l’atavica loro prevenzione verso l’approccio - a loro dire - da ‘cicale’ dei Paesi mediterranei sull’equilibrio finanziario interno. Molto anche per una connaturata loro inclinazione ad anteporre le ragioni del portafoglio a quelle del cuore.

Il "Non italiano"

Non sembra aver fatto breccia neanche l’intervento di quel Mario Draghi che, da presidente della Bce, salvò la moneta unica europea acquistando per anni titoli di credito dei singoli Stati membri dell’Unione. Draghi colui che gli americani definivano Unitalian, il ‘Non italiano’, per il suo approccio poco passionale ma molto diretto ai problemi economici. Draghi non ha usato giri di parole: “Bisogna agire subito, perché questa è una guerra. Va data liquidità nel sistema, senza preoccuparsi del debito pubblico. Perché la recessione post-pandemia sarà profonda e rischia di essere la tomba dell’Europa”. Una responsabilità, quella di far affondare il progetto di Unione europea, che peserà tutta sulle spalle di chi, sottraendosi a una solidarietà probabilmente fuori dalle sue corde etiche, dimostra di non possedere la preveggenza necessaria per progettare un futuro in cui nessuno - non soltanto l’Italia - potrà salvarsi da solo. Eppure la Germania si dovrebbe ricordare del 1953. Ben 20 creditori stranieri (tra cui la Grecia) per aiutarla a uscire dalle macerie della guerra le cancellarono il 46% del debito pre-bellico e il 52 di quello post-bellico. “La Storia non ha nascondigli, la Storia non passa la mano” recita un verso di una canzone di De Gregori. Viene il tempo, sempre, in cui per le proprie scelte si devono fare i conti con la Storia. Per ora, i conti vanno fatti con il contagio. Daris Giancarlini]]>

Gli albanesi non dimenticano. I tedeschi, a quanto pare, sì.

Non si tratta di fare classifiche di ‘buoni’ e ‘cattivi’, ma di valutare comportamenti per programmare meglio, e con maggiore acume, il futuro. L’attuale leader dell’Albania, che invia in Italia 30 tra medici e infermieri sulla “linea del fuoco” dell’ospedale di Brescia, spiega la sua decisione. Il suo è un Paese “povero, ma che non dimentica” quanto fatto dall’Italia all’inizio degli anni Novanta, con l’operazione ‘Pellicano’, per aiutare un Paese che usciva povero e lacerato da una lunga e devastante dittatura di stampo comunista. Il discorso fatto dal leader Edi Rama, nella breve cerimonia che ha accompagnato la partenza del personale sanitario albanese, condiviso da tutte le forze politiche italiane. Che magari potrebbero trarre spunto non soltanto per la scelta della parole, davvero calibrate e incisive, ma anche e soprattutto per la passione che dovrebbe guidare l’operato di chi ha in mano le sorti dell’opinione pubblica. Qui risulta quanto meno superfluo distinguere tra maggioranza e opposizione.

L'emergenza non ha confini

Se si continuasse a ragionare con il criterio della contrapposizione aprioristica, si commetterebbe lo stesso errore che sta ispirando le nazioni del Nord come Olanda, Austria e Finlandia, con in testa la Germania di Angela Merkel. Non sono infatti bastati i richiami di personalità come lo stesso Papa Francesco e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per far comprendere che la pandemia deve spingerci, tutti, a cambiare le chiavi di lettura e di comportamento. Perché è, nel contempo, emergenza sanitaria ed economica; che non conosce frontiere e confini. E purtroppo colpirà in modo indiscriminato in ogni zona del pianeta. “Nessuno si salva da solo” hanno ripetuto il Pontefice e il Capo dello Stato. Questo vale sia per la salute sia per la produzione, il lavoro, la tenuta sociale. Pare che questi autorevoli richiami a fare fronte comune non siano stati ben compresi da chi, in un primo tempo a livello europeo, ha tentato di trattare l’epidemia in Italia come un caso isolato. Un segnale di consapevolezza, in verità, dopo le prime titubanze, lo ha mandato la Banca centrale europea. La Banca ha stanziato un cifra consistente per assorbire il necessario debito che l’Italia. Dovrà impegnarsi ad affrontare per resistere ai colpi devastanti del virus sul tessuto economico. Ma su un’assunzione di responsabilità collettiva, sul piano finanziario, degli oneri di quella che dovrà essere una vera ricostruzione, con tratti post-bellici, delle singole economie, la Germania e gli altri suoi accoliti nordici hanno preso tempo. Molto per l’atavica loro prevenzione verso l’approccio - a loro dire - da ‘cicale’ dei Paesi mediterranei sull’equilibrio finanziario interno. Molto anche per una connaturata loro inclinazione ad anteporre le ragioni del portafoglio a quelle del cuore.

Il "Non italiano"

Non sembra aver fatto breccia neanche l’intervento di quel Mario Draghi che, da presidente della Bce, salvò la moneta unica europea acquistando per anni titoli di credito dei singoli Stati membri dell’Unione. Draghi colui che gli americani definivano Unitalian, il ‘Non italiano’, per il suo approccio poco passionale ma molto diretto ai problemi economici. Draghi non ha usato giri di parole: “Bisogna agire subito, perché questa è una guerra. Va data liquidità nel sistema, senza preoccuparsi del debito pubblico. Perché la recessione post-pandemia sarà profonda e rischia di essere la tomba dell’Europa”. Una responsabilità, quella di far affondare il progetto di Unione europea, che peserà tutta sulle spalle di chi, sottraendosi a una solidarietà probabilmente fuori dalle sue corde etiche, dimostra di non possedere la preveggenza necessaria per progettare un futuro in cui nessuno - non soltanto l’Italia - potrà salvarsi da solo. Eppure la Germania si dovrebbe ricordare del 1953. Ben 20 creditori stranieri (tra cui la Grecia) per aiutarla a uscire dalle macerie della guerra le cancellarono il 46% del debito pre-bellico e il 52 di quello post-bellico. “La Storia non ha nascondigli, la Storia non passa la mano” recita un verso di una canzone di De Gregori. Viene il tempo, sempre, in cui per le proprie scelte si devono fare i conti con la Storia. Per ora, i conti vanno fatti con il contagio. Daris Giancarlini]]>
Coronavirus. Quanto stare distanti? La scienza e la misura, la misura e la fede https://www.lavoce.it/coronavirus-distanti-misura/ Thu, 12 Mar 2020 19:07:50 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56438 misura per distanza da tenere causa Coronavirus

Da tempo gli esperti sostengono che la società digitale abbia portato una novità, soprattutto tra i giovani: l’estraniazione della fisicità, l’enfatizzazione delle relazioni non agite, la facilità dell’isolamento. Ora siamo davvero isolati e per di più chiusi in casa, alcuni più pazienti, altri spazientiti. Sembra – e dico sembra, perché i tanti studi matematici che si stanno avvicendando dovranno poi essere comparati e valutati – che il Covid-19 sia più aggressivo che in Cina e che le misure di sicurezza debbano essere rispettate al dettaglio se vogliamo che lo scenario cambi intorno alla metà di aprile. Serve molto equilibrio tra razionalità ed emotività, tra saper obbedire e saper dubitare. Nessuno ha davvero contezza completa di quanto sta accadendo e di come cambierà la storia.

Dibattito nella Chiesa

Poi ci siamo noi cristiani. Che non possiamo partecipare alle celebrazioni e comunicarci. C’è chi dice che non era mai accaduto prima (opinabile, si pensi al braccio di ferro tra istituzioni e chiesa ai tempi della peste nera come ricordavano anche Galileo e poi Manzoni), c’è chi dice che il governo non ha diritto a fare questo (opinabile, si ricordi il Patto internazionale sui diritti civili e politici che permette al governo di intervenire in materia religiosa in situazioni di emergenza sanitaria), c’è chi dice che la Chiesa doveva essere più chiara nel distinguere tra sospensione e dispensa delle funzioni religiose fornendo subito chiavi di lettura propositive (meno opinabile?, ma molto si sta facendo in questi giorni).

Il problema

Il problema di fondo è duplice ed è serio: dapprima la fatica, inimmaginabile per un non credente, di fare a meno del corpo di Cristo per tanto tempo; in secondo luogo, la fatica comprensibile a tutti di esonerarsi dal contatto con gli altri. Da qui la domanda: per quanto e in che misura? Quanti giorni? Quanto spazio tra una persona e l’altra?

Spunti dalla Parola di Dio e dagli antichi greci

Nelle letture di questi giorni la ricchezza della Parola di Dio è però così abbondante che se si partisse da lì troveremmo forse più pace. Abbiamo trovato due riferimenti alla “misura”. Nel vangelo del 9 marzo: “Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,38). Nell’Ufficio delle letture del 10 marzo descrivendo la manna che gli Israeliti ricevettero nel deserto: “Ecco che cosa comanda il Signore: Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer a testa, secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”. (Esodo 16,16). Sono due approcci diversi al concetto di misura. Misurare per gli antichi Greci aveva due significati. Da una parte, la misura era costruzione di un rapporto, un approccio “archimedeo”: non ogni unità va bene per tutte le grandezze, ma in base a ciò che si misura occorre una appropriata unità. Si può misurare un tavolo con una spanna, ma con una spanna non si può misurare la punta di un chiodo. Dall’altra parte, misurare era prendere un’unità, “assoluta”, e moltiplicarla: un approccio “platonico” al numero, pensato come entità ideale ripetendo la quale si ottenevano altri numeri (dall’1 al 2, e così via, col problematico passaggio dall’unità alla molteplicità su cui i filosofi poi si sono arrovellati).

La “misura pigiata” di Gesù

Andiamo a quanto dice Gesù: “pigiate” la vostra misura. Evidentemente, una misura “archimedea”, che va adattata per poterci contare il più possibile. Generosità significa “pigiare” la nostra misura, non essere dozzinali, giocar di fino, saper rendere tutto misurabile e contenibile. Più la misura è pigiata e stretta, più è moltiplicabile. È il farsi piccoli che santa Teresina di Lisieux suggeriva. Come il sacrificio interiore che viene chiesto in questi giorni: offrire la rinuncia al pane eucaristico affinché si moltiplichi a dismisura il desiderio di Gesù e si tramuti ora in servizio e passione per la nostra comunità, che sta vivendo una difficoltà collettiva. Prendiamo l’istruzione che il Signore dà agli Israeliti: un omer a testa, detto anche “covone”, a indicare il volume di manna destinata a ogni persona (poco più di 3,5 litri, cf. Es 16, 35-36) e da cui prende il nome anche un’antica benedizione ebraica. Una misura precisa e ripetibile. A ciascuno la sua. Come l’impegno personale, sopra ricordato, che viene chiesto oggi ad ognuno di noi: isolarci e cambiare le regole quotidiane per evitare che i disagi di adesso si prolunghino oltre aprile e che i gravi danni socioeconomici siano recuperabili, pensando agli altri prima che a noi.

Flavia Marcacci

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misura per distanza da tenere causa Coronavirus

Da tempo gli esperti sostengono che la società digitale abbia portato una novità, soprattutto tra i giovani: l’estraniazione della fisicità, l’enfatizzazione delle relazioni non agite, la facilità dell’isolamento. Ora siamo davvero isolati e per di più chiusi in casa, alcuni più pazienti, altri spazientiti. Sembra – e dico sembra, perché i tanti studi matematici che si stanno avvicendando dovranno poi essere comparati e valutati – che il Covid-19 sia più aggressivo che in Cina e che le misure di sicurezza debbano essere rispettate al dettaglio se vogliamo che lo scenario cambi intorno alla metà di aprile. Serve molto equilibrio tra razionalità ed emotività, tra saper obbedire e saper dubitare. Nessuno ha davvero contezza completa di quanto sta accadendo e di come cambierà la storia.

Dibattito nella Chiesa

Poi ci siamo noi cristiani. Che non possiamo partecipare alle celebrazioni e comunicarci. C’è chi dice che non era mai accaduto prima (opinabile, si pensi al braccio di ferro tra istituzioni e chiesa ai tempi della peste nera come ricordavano anche Galileo e poi Manzoni), c’è chi dice che il governo non ha diritto a fare questo (opinabile, si ricordi il Patto internazionale sui diritti civili e politici che permette al governo di intervenire in materia religiosa in situazioni di emergenza sanitaria), c’è chi dice che la Chiesa doveva essere più chiara nel distinguere tra sospensione e dispensa delle funzioni religiose fornendo subito chiavi di lettura propositive (meno opinabile?, ma molto si sta facendo in questi giorni).

Il problema

Il problema di fondo è duplice ed è serio: dapprima la fatica, inimmaginabile per un non credente, di fare a meno del corpo di Cristo per tanto tempo; in secondo luogo, la fatica comprensibile a tutti di esonerarsi dal contatto con gli altri. Da qui la domanda: per quanto e in che misura? Quanti giorni? Quanto spazio tra una persona e l’altra?

Spunti dalla Parola di Dio e dagli antichi greci

Nelle letture di questi giorni la ricchezza della Parola di Dio è però così abbondante che se si partisse da lì troveremmo forse più pace. Abbiamo trovato due riferimenti alla “misura”. Nel vangelo del 9 marzo: “Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,38). Nell’Ufficio delle letture del 10 marzo descrivendo la manna che gli Israeliti ricevettero nel deserto: “Ecco che cosa comanda il Signore: Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer a testa, secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”. (Esodo 16,16). Sono due approcci diversi al concetto di misura. Misurare per gli antichi Greci aveva due significati. Da una parte, la misura era costruzione di un rapporto, un approccio “archimedeo”: non ogni unità va bene per tutte le grandezze, ma in base a ciò che si misura occorre una appropriata unità. Si può misurare un tavolo con una spanna, ma con una spanna non si può misurare la punta di un chiodo. Dall’altra parte, misurare era prendere un’unità, “assoluta”, e moltiplicarla: un approccio “platonico” al numero, pensato come entità ideale ripetendo la quale si ottenevano altri numeri (dall’1 al 2, e così via, col problematico passaggio dall’unità alla molteplicità su cui i filosofi poi si sono arrovellati).

La “misura pigiata” di Gesù

Andiamo a quanto dice Gesù: “pigiate” la vostra misura. Evidentemente, una misura “archimedea”, che va adattata per poterci contare il più possibile. Generosità significa “pigiare” la nostra misura, non essere dozzinali, giocar di fino, saper rendere tutto misurabile e contenibile. Più la misura è pigiata e stretta, più è moltiplicabile. È il farsi piccoli che santa Teresina di Lisieux suggeriva. Come il sacrificio interiore che viene chiesto in questi giorni: offrire la rinuncia al pane eucaristico affinché si moltiplichi a dismisura il desiderio di Gesù e si tramuti ora in servizio e passione per la nostra comunità, che sta vivendo una difficoltà collettiva. Prendiamo l’istruzione che il Signore dà agli Israeliti: un omer a testa, detto anche “covone”, a indicare il volume di manna destinata a ogni persona (poco più di 3,5 litri, cf. Es 16, 35-36) e da cui prende il nome anche un’antica benedizione ebraica. Una misura precisa e ripetibile. A ciascuno la sua. Come l’impegno personale, sopra ricordato, che viene chiesto oggi ad ognuno di noi: isolarci e cambiare le regole quotidiane per evitare che i disagi di adesso si prolunghino oltre aprile e che i gravi danni socioeconomici siano recuperabili, pensando agli altri prima che a noi.

Flavia Marcacci

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Anche senza popolo, è Messa per il popolo https://www.lavoce.it/anche-senza-popolo-messa/ Thu, 12 Mar 2020 14:21:58 +0000 https://www.lavoce.it/?p=56433 Mons. Luigi Filippucci celebra la messa

Anche in Umbria le comunità cristiane si sono ritrovate a non potersi riunire per la celebrazione eucaristica a causa dell'emergenza Coronavirus/Covid19. Una decisione che ha sollevato obiezioni, proteste e domande. Infatti il comunicato dell’8 marzo della Conferenza episcopale italiana così afferma: “Il decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri, entrato in vigore quest’oggi, sospende a livello preventivo, fino a venerdì 3 aprile, sull’intero territorio nazionale le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”. L’interpretazione fornita dal Governo include rigorosamente le messe e le esequie tra le “cerimonie religiose”. Quindi, interpretandola in soldoni: niente più messa.

Cosa dice la Chiesa

Decisione che ad alcuni sembra in contrasto con ciò che la Chiesa vive e insegna. Infatti, dopo quell’Ultima Cena celebrata da Gesù la comunità cristiana mai ha cessato di far memoriale del mistero pasquale. La prima testimonianza ci viene dagli Atti degli apostoli: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42), e da quelle prime comunità giudeo-cristiane ininterrottamente l’invito: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11, 24) mai ha cessato di risuonare ed essere accolto dalla Chiesa. Questo perché mai e poi mai essa può tralasciare ciò la edifica, ciò che la nutre, ciò che è per la sua stessa vita “fonte” e “culmine” (Sacrosanctum Concilium, 10; Lumen gentium, 11), perché il popolo di Dio non può fare a meno della celebrazione dell’evento che lo ha redento. Ma allora la Chiesa che è in Italia entra in contraddizione con il suo Maestro? Certo che no, anche se a agli occhi di alcuni incauti parrebbe di sì... La Chiesa che è in Italia e di conseguenza le varie Regioni ecclesiastiche si sono conformate a ciò che il Governo ha disposto, con sofferenza, certo, perché in qualche maniera viene meno il nostro cuore, ma come lo stesso comunicato afferma: “L’accoglienza del decreto è mediata unicamente dalla volontà di fare, anche in questo frangente, la propria parte per contribuire alla tutela della salute pubblica”. E dunque come possiamo affermare che non viene meno a quel “fate questo in memoria di me”? Non ne viene meno perché la messa non è finita! Infatti non è stato fatto divieto assoluto di celebrare, ma di celebrare con il popolo; e ciò significa che i Pastori continueranno a celebrare l’eucarestia ma senza la presenza del popolo.

Le indicazioni del Messale Romano

È vero, il Messale romano così afferma: “Quando il popolo si è redunato...”, perché costitutivamente la celebrazione eucaristica è affare di popolo e non di clero. Il Concilio Vaticano II nella Sacrosanctum Concilium al numero 27 afferma: “Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata. Ciò vale soprattutto per la celebrazione della messa benché qualsiasi messa abbia sempre un carattere pubblico e sociale e per l’amministrazione dei sacramenti”. Ma, come si dice, di necessità si fa virtù, e quindi possiamo continuare a sostenere i fedeli con la celebrazione eucaristica senza la loro presenza fisica, tanto che nel Messale romano troviamo una sezione dedicata alla messa senza il popolo, che poco cambia dalla celebrazione della messa con il popolo, se non per la presenza di un unico altro ministro. Potremmo così dire: Missa sine populo sed pro populo, messa senza il popolo ma per il popolo. Quindi nulla di contraddittorio, ancor più se si pensa all’eucaristia come sacramento della carità, dell’amore di Dio. Questo spinge la Chiesa a far sì che i frutti di ciò che abbiamo celebrato possano diventare nella nostra vita buoni e maturi con segni di carità concreti quali - per esempio, tanto per richiamarci all’attualità di questi giorni - la tutela della salute dei propri fedeli.

I Vescovi umbri

I Vescovi umbri nel loro messaggio hanno sottolineato che “possono essere d’aiuto le celebrazioni trasmesse tramite radio, televisione e in streaming sui siti internet e sui social”. Pur non potendo in nessuna maniera sostituire la presenza fisica del popolo, tali mezzi possono però rendere visibile il sostegno spirituale che tanti sacerdoti continuano a donare celebrando l’eucaristia a favore del popolo di Dio, diventando così segno di speranza in un tempo dove potremmo rischiare di perderla. Questa “pausa obbligata” dalla celebrazione eucaristica, che i fedeli sono chiamati a vivere in questo momento, oltre a essere motivo di responsabilità nei confronti della salute pubblica, può essere un tempo opportuno per riscoprire due dimensioni. La prima, quella di ritrovare nelle nostre famiglie la dimensione della preghiera, una sorta di recupero di una celebrazione familiare. Purtroppo la liturgia cattolica non ha codificate celebrazioni nelle quali i componenti della famiglia in qualche maniera intervengono attivamente nello svolgimento del rito nelle proprie case, come invece ci testimonia l’Esodo (12,21-27) nel rito della Pasqua ebraica. Ma nulla vieta di ritrovarsi e pregare nell’ascolto della Parola di Dio, la recita della liturgia delle ore, o con la preghiera del rosario e altre devozioni, facendo sì che la famiglia torni a essere “piccola Chiesa e sacramento del Tuo amore”.

Un’ultima considerazione

Nella logica del tempo liturgico che stiamo vivendo, cioè quello di Quaresima, è stato chiesto al popolo cristiano di fare un ‘digiuno’ particolare che difficilmente ci saremmo immaginati, un digiuno che può farci riscoprire il valore delle cose. Forse, dunque, questo tempo può diventare propizio per accogliere in noi questo sentimento di vuoto, così da poter tornare in futuro a celebrare l’eucaristia con una diversa consapevolezza, cioè con la consapevolezza che di essa non possiamo fare a meno. Don Francesco Verzini]]>
Mons. Luigi Filippucci celebra la messa

Anche in Umbria le comunità cristiane si sono ritrovate a non potersi riunire per la celebrazione eucaristica a causa dell'emergenza Coronavirus/Covid19. Una decisione che ha sollevato obiezioni, proteste e domande. Infatti il comunicato dell’8 marzo della Conferenza episcopale italiana così afferma: “Il decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri, entrato in vigore quest’oggi, sospende a livello preventivo, fino a venerdì 3 aprile, sull’intero territorio nazionale le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”. L’interpretazione fornita dal Governo include rigorosamente le messe e le esequie tra le “cerimonie religiose”. Quindi, interpretandola in soldoni: niente più messa.

Cosa dice la Chiesa

Decisione che ad alcuni sembra in contrasto con ciò che la Chiesa vive e insegna. Infatti, dopo quell’Ultima Cena celebrata da Gesù la comunità cristiana mai ha cessato di far memoriale del mistero pasquale. La prima testimonianza ci viene dagli Atti degli apostoli: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42), e da quelle prime comunità giudeo-cristiane ininterrottamente l’invito: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11, 24) mai ha cessato di risuonare ed essere accolto dalla Chiesa. Questo perché mai e poi mai essa può tralasciare ciò la edifica, ciò che la nutre, ciò che è per la sua stessa vita “fonte” e “culmine” (Sacrosanctum Concilium, 10; Lumen gentium, 11), perché il popolo di Dio non può fare a meno della celebrazione dell’evento che lo ha redento. Ma allora la Chiesa che è in Italia entra in contraddizione con il suo Maestro? Certo che no, anche se a agli occhi di alcuni incauti parrebbe di sì... La Chiesa che è in Italia e di conseguenza le varie Regioni ecclesiastiche si sono conformate a ciò che il Governo ha disposto, con sofferenza, certo, perché in qualche maniera viene meno il nostro cuore, ma come lo stesso comunicato afferma: “L’accoglienza del decreto è mediata unicamente dalla volontà di fare, anche in questo frangente, la propria parte per contribuire alla tutela della salute pubblica”. E dunque come possiamo affermare che non viene meno a quel “fate questo in memoria di me”? Non ne viene meno perché la messa non è finita! Infatti non è stato fatto divieto assoluto di celebrare, ma di celebrare con il popolo; e ciò significa che i Pastori continueranno a celebrare l’eucarestia ma senza la presenza del popolo.

Le indicazioni del Messale Romano

È vero, il Messale romano così afferma: “Quando il popolo si è redunato...”, perché costitutivamente la celebrazione eucaristica è affare di popolo e non di clero. Il Concilio Vaticano II nella Sacrosanctum Concilium al numero 27 afferma: “Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata. Ciò vale soprattutto per la celebrazione della messa benché qualsiasi messa abbia sempre un carattere pubblico e sociale e per l’amministrazione dei sacramenti”. Ma, come si dice, di necessità si fa virtù, e quindi possiamo continuare a sostenere i fedeli con la celebrazione eucaristica senza la loro presenza fisica, tanto che nel Messale romano troviamo una sezione dedicata alla messa senza il popolo, che poco cambia dalla celebrazione della messa con il popolo, se non per la presenza di un unico altro ministro. Potremmo così dire: Missa sine populo sed pro populo, messa senza il popolo ma per il popolo. Quindi nulla di contraddittorio, ancor più se si pensa all’eucaristia come sacramento della carità, dell’amore di Dio. Questo spinge la Chiesa a far sì che i frutti di ciò che abbiamo celebrato possano diventare nella nostra vita buoni e maturi con segni di carità concreti quali - per esempio, tanto per richiamarci all’attualità di questi giorni - la tutela della salute dei propri fedeli.

I Vescovi umbri

I Vescovi umbri nel loro messaggio hanno sottolineato che “possono essere d’aiuto le celebrazioni trasmesse tramite radio, televisione e in streaming sui siti internet e sui social”. Pur non potendo in nessuna maniera sostituire la presenza fisica del popolo, tali mezzi possono però rendere visibile il sostegno spirituale che tanti sacerdoti continuano a donare celebrando l’eucaristia a favore del popolo di Dio, diventando così segno di speranza in un tempo dove potremmo rischiare di perderla. Questa “pausa obbligata” dalla celebrazione eucaristica, che i fedeli sono chiamati a vivere in questo momento, oltre a essere motivo di responsabilità nei confronti della salute pubblica, può essere un tempo opportuno per riscoprire due dimensioni. La prima, quella di ritrovare nelle nostre famiglie la dimensione della preghiera, una sorta di recupero di una celebrazione familiare. Purtroppo la liturgia cattolica non ha codificate celebrazioni nelle quali i componenti della famiglia in qualche maniera intervengono attivamente nello svolgimento del rito nelle proprie case, come invece ci testimonia l’Esodo (12,21-27) nel rito della Pasqua ebraica. Ma nulla vieta di ritrovarsi e pregare nell’ascolto della Parola di Dio, la recita della liturgia delle ore, o con la preghiera del rosario e altre devozioni, facendo sì che la famiglia torni a essere “piccola Chiesa e sacramento del Tuo amore”.

Un’ultima considerazione

Nella logica del tempo liturgico che stiamo vivendo, cioè quello di Quaresima, è stato chiesto al popolo cristiano di fare un ‘digiuno’ particolare che difficilmente ci saremmo immaginati, un digiuno che può farci riscoprire il valore delle cose. Forse, dunque, questo tempo può diventare propizio per accogliere in noi questo sentimento di vuoto, così da poter tornare in futuro a celebrare l’eucaristia con una diversa consapevolezza, cioè con la consapevolezza che di essa non possiamo fare a meno. Don Francesco Verzini]]>